Martina Mecco
Karel Čapek è sicuramente uno degli autori più importanti della letteratura ceca del Novecento. All’interno della sua ampia produzione, che non si limita unicamente all’ambito letterario – toccando i generi più disparati – ma rientra anche in quello giornalistico, è in particolare un’opera ad aver segnato l’evoluzione letteraria nazionale dell’allora Cecoslovacchia, nonché quella europea. Mentre a Praga, uno dei centri nevralgici della letteratura interbellica, Karel Teige teorizzava i dettami del Poetismo ceco e si delineava quella che oggigiorno viene comunemente definita in termini di “avanguardia storica”, Karel Čapek realizzava, invece, un’opera destinata a divenire un simbolo del fenomeno della letteratura distopica – R.U.R., dramma collettivo in un prologo comico e tre atti.
Questa pièce di Čapek non rappresenta, però, l’unica sperimentazione dell’autore con questo particolare genere letterario. Sulla scia di R.U.R. vengono prodotte anche altre opere che indagano l’uomo e le sorti dell’umanità di fronte al progresso, tra cui i due romanzi Továrna na absolutno (“La fabbrica dell’Assoluto”, 1922), Krakatit (“Karakatite”, 1924) e l’altra pièce Věc Makropulos (“L’affare Makropulos”, 1926). L’attenzione di Čapek per il genere ritorna, inoltre, anche in un’opera più matura dell’autore, ovvero Válka s Mloky (“La guerra delle salamandre”, 1936). All’interno delle opere degli anni Venti dell’autore sono diverse le costanti che si possono rintracciare. In primo luogo, l’ambientazione predominante della fabbrica a cui è associata la figura dell’imprenditore di inizio secolo. In secondo luogo, il fatto che il cuore pulsante di ciascuno di questi testi si identifica sempre in termini di una stessa “parabola” narrativa. I robot, come il karburátor o l’esplosiva krakatit, sono le creazioni che permettono di progredire fino a superare il limite imposto alla condizione umana. Il pericolo per l’uomo, però, come fa notare Čapek nelle sue opere, giace a un passo oltre questo limite. Difatti, è proprio la meraviglia stessa del progresso a tramutarsi in un’orrenda disgrazia. La prospettiva iniziale viene completamente stravolta: l’uomo, animato dal sentimento derivato dalla realizzazione del sogno, sprofonda nella dimensione dell’incubo. Nel finale di ciascuna opera la soluzione che si palesa è una sola, vale a dire la distruzione del principio stesso dell’invenzione originaria. Nel caso di R.U.R. queste fasi si identificano nella creazione dei robot, nella loro ribellione al genere umano e, infine, in una rinascita nelle parole “Vai Adamo. Vai Eva.” (p. 161). L’aspetto interessante risiede nel fatto che la presenza ricorrente di questi elementi comuni è un chiaro sintomo di uno spiccato interesse e di una continua riflessione da parte di Čapek in merito a temi di carattere sociale, molti infatti sono gli interrogativi che gli intellettuali dell’epoca si pongono nei confronti del futuro dell’umanità all’indomani del primo conflitto mondiale e delle nuove scoperte tecnologiche. La ricerca di una risposta a questi interrogativi messa in atto da Čapek – in particolare al problema del rapporto tra l’uomo e il progresso dell’industria e la costruzione di una società “nuova” – porta ad esisti strabilianti, che lo consacreranno universalmente, tra le altre cose, come l’inventore del termine robot.
Ritornando dunque nello specifico all’opera R.U.R., messa in scena ufficialmente per la prima volta il 25 gennaio 1921 al Národní Divadlo di Praga, occorre osservare quali sono le caratteristiche che hanno reso la pièce un vero e proprio “fenomeno letterario”. Il titolo dell’opera R.U.R. è un acronimo che si scoglie in Rossum’s Universal Robots. Ciascuno di questi termini racchiusi nel titolo ha una carica simbolica fondamentale. Andando con ordine, il termine “Rossum”, nome in cui si identificano i due scienziati, rimanda al termine ceco rozum, ovvero “ragione” (dal verbo rozumět – “comprendere”). La seconda parte, costituita da “Universal”, cela invece una critica al mondo delle multinazionali che si andava a costituire proprio negli anni in cui Čapek concepisce l’opera. Infine, il titolo presenta la “R” di “robot”, termine al giorno d’oggi conosciuto e di uso comune. L’aspetto interessante è che, negli anni 20, il termine “robot” era una novità assoluta, un neologismo creato ad hoc per l’opera. In realtà, la paternità di robot non è da ricondurre a Karel, ma gli viene suggerita dal fratello Josef. Infatti, lo stesso Karel Čapek lo ricorda esplicitamente all’interno del suo articolo O slově robot (“Riguardo alla parola robot”), pubblicato sul giornale “Lidové Noviny” il 24 dicembre del 1933.
“E allora chiamalo ‘robot’”, borbottò il pittore con il pennello tra le labbra e continuò a dipingere. E così fu. In questo modo, dunque, nacque la parola robot; che venga quindi attribuita al suo reale inventore.”
Oltre all’origine del termine riconducibile a una scena famigliare, è necessario spiegare anche quella che è la sua origine etimologica. Difatti, il termine robot deriva dal ceco robota, che significa “corvè”, “lavoro forzato”. In esso è presente anche la radice slava rob-, da cui derivano, ad esempio i termini russi rabota (“lavoro”) o rab (schiavo). Non a caso, come ricorda Ripellino in Praga Magica, nel gergo sovietico dei GULag il termine rabotjaga identificava il condannato addetto ai lavori più pesanti. Su questa radice comune gioca lo scrittore russo Varlam Šalamov, che in uno de I racconti di Kolyma afferma:
“Ma eravamo dei robot? Robot del “R.U.R.” di Čapek? […] No, non eravamo dei robot. Nella loro metallica insensibilità c’era pur sempre qualcosa di umano.” (p.504)
Il fatto che in un’opera come quella di Šalamov compaia un riferimento a R.U.R. di Čapek non deve stupire, difatti essa ebbe una grande eco nella produzione letteraria russa di epoca sovietica. Quello che salta all’occhio è però l’uso dell’espressione “insensibilità metallica”, in cui si può riscontrare una percezione errata dell’uomo artificiale di Čapek, difatti esso non era affatto di materiale metallico e il fatto che venga inteso in questo modo non è altro che il risultato di un grande fraintendimento, iniziato sin dalle prime rappresentazioni straniere dell’opera. Difatti, il concetto di robot creato da Karel Čapek è stato continuamente sottoposto a una serie di interpretazioni errate, tanto da produrre l’idea odierna di robot come essere meccanico. Al giorno d’oggi, quando si pensa alla figura del robot ci si prefigura piuttosto un essere di intelligenza artificiale come C-3PO o R2-D2 dell’universo di Star Wars. In realtà, gli esseri artificiali di Čapek hanno ben poco da spartire con queste creazioni di George Lucas e sono, piuttosto, riconducibili alle enormi salamandre di Válka s Mloky (“La guerra delle salamandre”, 1936) o al Golem di Rabbi Löw.
La creazione dei robot di Čapek, difatti, non avviene per via meccanica mettendo insieme degli ingranaggi e delle viti, bensì per via “chimica”. All’interno del prologo viene detto quanto segue: “HELENA: Sono venuta qui… // DOMIN: … per vedere la fabbrica dove vengono prodotti gli esseri umani […].” (p.61) Qualche pagina più avanti Domin racconta come sia avvenuta la scoperta di questi robot e parlando del vecchio Rossum chiede di immaginarlo come “seduto e piegato sulla sua provetta, mentre pensa […] a come, a partire da un protozoo qualunque, si sarebbero evoluti tutti gli animali, per giungere fino… fino all’uomo stesso. Ma a un uomo composto da materia diversa dalla nostra.” (p. 63) Poi continua dicendo che egli si era messo all’opera “per imitare la natura. Prima di tutti ha cercato di creare un cane artificiale. […] E poi il vecchio Rossum si è dedicato a creare l’uomo.” (p.64)
Inoltre, nelle indicazioni di scena si legge:
“Nel prologo i ROBOT sono vestiti come gli uomini, si muovono e parlano a scatti, i volti sono inespressivi, lo sguardo fisso. Nell’opera vera e proprio indossano casacche di tela, strette alla vita da una cintura, e portano un numero di ottone sul petto.” (p.57)
Per comprendere quindi effettivamente come siano fatti i robot di Karel Čapek ci si può ancora una volta rivolgere al testo, in cui viene spiegato in modo esplicito come “[…] il giovane Rossum ha creato l’operaio con il minor numero di bisogni. Per far questo ha dovuto semplificarlo. Ha cancellato tutto ciò che non era direttamente legato al lavoro. In questo modo ha quindi eliminato l’uomo e ha creato il Robot. […] i Robot non sono uomini […] non hanno un’anima.” (p.67) Ad avvalorare questa vicinanza tra l’uomo e il robot è anche il fatto che il termine viene declinato in ceco secondo la declinazione dei sostantivi animati, difatti la lingua ceca, appartenendo al ceppo slavo, presenta questa distinzione.
L’opera di Čapek presenta nella struttura un prologo e una successiva tripartizione. Il sottotitolo è un sintomo della sperimentazione di Čapek e risulta fuorviante, in quanto contiene al tempo stesso due termini generalmente opposti, ovvero “dramma” e “comico”. Čapek cancella, in parte in linea con i palinsesti dell’avanguardia, ogni unità di genere. Un altro aspetto importante dell’opera sono i personaggi, che si trovano rintanati su un’isola mentre i robot stanno distruggendo il pianeta. Sia gli esseri umani che i robot rappresentano delle funzioni sociali specifiche, non viene fatta su queste una vera e propria indagine psicologica. Due dei personaggi più interessanti sono Helena Glory e Alquist. Helena Glory è l’unica donna sopravvissuta alla ribellione dei robot e, quasi paradossalmente, impossibilitata a riprodursi in quanto sterile. Helena cela un doppio riferimento, difatti è al tempo stesso una Elena di Troia e una sorta novella Eva. Ella è l’elemento scatenante, colei che distrugge la formula di Rossum. Nell’ultimo atto compare invece una seconda Helena, una robot talmente simile all’originale da essere irriconoscibile. Alquist è invece l’ultimo uomo sopravvissuto all’apocalisse čapekiana, che chiude la pièce con un monologo di speranza:
“E non servirà a nulla ciò che abbiamo fatto e costruito, non serviranno le città e le fabbriche, non servirà la nostra arte, non serviranno le nostre idee, eppure non perirà! Solo noi siamo morti. […] solo tu, amore, fiorirai sulle rovine e spargerai al vento il seme della vita.” (p.162)
Alquist e Helena Glory sono inoltre connessi dal fatto di avere un ruolo comune all’interno dell’opera. Se all’inizio è Helena a non riuscire a riconoscere un robot da un essere umano, alla fine accade lo stesso ad Alquist. La scelta, da parte di Čapek, di scrivere un’opera teatrale con il fine di affrontare un tema così universale e complesso come quello dell’umanità e, in particolare, come sul piano etico si venga a sviluppare il rapporto tra scienza e società, considerandone anche gli effetti, non è casuale. Difatti il teatro rappresenta per l’autore il luogo adatto da cui lanciare un monito, e in questo senso si rimanda al concetto di “parabola” cui si accennava inizialmente.
Quando Karel Čapek si appresta a scrivere quest’opera teatrale, che in modo del tutto inaspettato lo consacrerà al pubblico internazionale, non è uno scrittore alle prime armi. Egli è reduce da anni di intensa sperimentazione insieme al fratello Josef Čapek all’interno di quella che dai critici viene definita “Ditta-Čapek”. Poco tempo prima della stesura della pièce i due fratelli stavano infatti lavorando ad un altro dramma, ovvero Ze života hmyzu (“Dalla vita degli insetti”), terminata da Karel e messa inscena nel 1922. Non è un caso, infatti, che proprio all’interno delle prime raccolte sperimentali di racconti, scritte a quattro mani col fratello, si possa ritrovare un nucleo originario, seppur grezzo, di R.U.R.. Difatti, la ricerca intrapresa da Čapek di una figura letteraria come quella dell’uomo artificiale, incarnato da quella del robot, è una costante abbastanza esplicita in questa prima fase della sua produzione, compresa tra il 1908 e il 1918. Non solo in Systém (“Il sistema” in Krakonošova zahrada, 1918) ma anche in Šlépěj (“L’orma” in Boží muka, 1917).
Osservate quelle che sono le caratteristiche principali della pièce di Karel Čapek, è interessante soffermarsi sul rapporto che l’opera instaura con alcuni aspetti del contesto ceco, in particolare con il sostrato culturale e la primissima produzione d’avanguardia contemporanea all’autore.
Uno dei riferimenti antecedenti più importanti relativi alla cultura praghese è quello del Golem, Ripellino stesso in Praga Magica riporta le parole di Mehring che definisce R.U.R. in termini di “Golems-Marionetten-Kömodie”. Il robot e il Golem, elemento fondamentale della tradizione ebraica praghese, hanno in comune il fatto di essere entrambi concepiti come “servi ubbidienti”. Nonostante ciò, ci sono delle differenze sostanziali tra i due esseri artificiali. In primo luogo, di Golem ne esiste solo uno, mentre il robot viene concepito in primis in quanto membro di un gruppo, come afferma Ripellino “quasi il pupazzo rabbinico si moltiplicasse in una serie infinita di identici simulacri” (Praga Magica, p.181). In secondo luogo, il Golem non è dotato dell’intelligenza del robot. Tuttavia, è possibile ritrovare delle somiglianze nella rivolta dell’essere artificiale nei confronti dell’essere umano: come i robot si ribellano ai loro inventori, così anche il Golem della Golemlegende ebraica si ribella al suo creatore. Se però la ribellione dei robot è metafora di una rivolta degli oppressi, quella del Golem è meramente spinta dall’odio nei confronti del barbuto e saccente Rabbi.
Il rapporto dell’opera con le avanguardie europee, ma in particolare con il Futurismo russo e con quello italiano di Marinetti – figura, tra l’altro, legata all’ambiente praghese del Poetismo – è un aspetto particolarmente complesso e che richiederebbe molto più spazio per essere approfondito. Infatti, proprio questa errata associazione dell’essere artificiale di Čapek con l’estetica futurista della macchina fu uno dei fattori che portarono a un fraintendimento dell’opera, in particolare nei palchi dei più importanti teatri europei dell’epoca – si veda, ad esempio, la prima rappresentazione parigina del 1924 a cui assistette lo stesso Marinetti –. Senza dunque addentrarsi sui legami tra l’opera di Čapek e l’estetica futurista, è interessante mostrare come l’interesse per la questione dell’operaio e per il rapporto dell’uomo con il lavoro inteso come “corvè” sia molto presente all’interno della produzione ceca, seppure con esiti differenti rispetto a quelli manifestati in R.U.R..
Il riferimento si inquadra all’interno della prima fase dell’avanguardia ceca, venutasi a sviluppare secondo i dettami dell’Arte proletaria. Come si legge all’interno del manifesto, che porta la firma dello scrittore Jiří Wolker, i principi fondamentali di questa vera e propria “rivoluzione artistica” volta alla realizzazione di un “felicità umana” – che si concretizzerà in maniera più profonda con le teorizzazioni di Teige della successiva fase poetista, dove questo tema diviene uno degli aspetti fondanti del concetto di “poesia” stesso – si identificavano nel concetto di collettivismo e nella distruzione di un concetto di arte prettamente connesso alla sfera borghese. L’attenzione nei confronti della condizione dell’operaio e la necessità di garantire una dimensione di diletto all’individuo dopo il turno di lavoro in fabbrica sono due aspetti che interessano particolarmente i membri del gruppo Devětsil – il cui termine, oltretutto, deriverebbe a detta di Jaroslav Seifert dalla già citata raccolta di Čapek Krakonošova zahrada –. Questa attenzione deriva in parte dal contesto russo – molto vicino a quello ceco –, in particolare quello legato alla nascita del Proletkul’t sulla base delle teorie di Aleksandr Bogdanov riguardanti la creazione di un’arte proletaria per proletari, priva di qualunque aspetto di carattere borghese. Un esempio di questa riflessione sul rapporto uomo-fabbrica si ritrova proprio in Balada o očích topičových (“La ballata degli occhi del fochista”) di Wolker. All’interno del componimento, appartenente alla raccolta Těžká hodina (“L’ora grave”, 1922), si alternano momenti prettamente lirici a strofe, invece, dal carattere epico. Per costruire un discorso relativo alla dimensione operaia Wolker decide di impiegare un genere tradizionale come quello della ballata, genere che viene scardinato, almeno per quanto riguarda il nucleo tematico. Il mondo osservato dal poeta è concepito in termini di un “sogno agognato”, dove egli stesso intende analizzare la condizione dell’individuo. Nel caso Antonín, protagonista della ballata, egli è un operaio di una centrale dedito da venticinque anni a rifornire di carbone una caldaia e il rapporto che si viene a creare tra l’operaio e la macchina è talmente profondo da ossessionare la moglie, che utilizza termini stranianti legati alla sfera erotica, si legge:
muži můj jediný,
proč tak se mi vracíš
v tyto hodiny?
Proč jsi se miloval
s tou holkou proklatou,
s milenkou železnou,
ohněm a lopatou?
marito mio unico
perché mi ritorni così
a quest’ora?
Perché hai amato
quella maledetta sgualdrina,
quell’amante del ferro,
il fuoco e la pala?
Antonín dopo aver perso la vista muore, ma questa morte non è arreca con sé alcuna disperazione, in quanto egli rimarrà per sempre un riferimento simbolico per gli operai dopo di lui. Se egli muore in quanto uomo, non svanirà invece il suo lavoro, si legge infatti negli ultimi versi “Dělník je smrtelný / Práce je živá” (“l’operaio è mortale / il lavoro è vivo”). Sempre all’interno del panorama dell’arte proletaria si trova un altro caso molto interessante, ovvero quello di Marie Majerová. L’autrice emerse prima all’interno dell’Arte proletaria e successivamente si inserì all’interno della tradizione legata all’estetica del realismo socialista. Nelle sue opere rappresenta a più riprese l’interesse, intriso anche di riflessioni di carattere psicologico, per la condizione operaia, “la sue misere e disumane condizioni di lavoro”. L’attenzione di Majerová si concentra, in particolare, sulla situazione delle donne all’interno delle fabbriche. Un esempio è caratterizzato dall’opera Povídky z pekla a jiné (“Racconti dall’inferno e altri”, 1907) in cui viene analizzata la condizione delle donne nel contesto delle miniere di Kladno, ambientazione che ritorna anche in quella che è a tutti gli effetti l’opera cardine dell’autrice, Siréna (“La sirena”, 1936). I riferimenti tratti dalla produzione di Wolker e di Majerová, insieme alle successive teorie poetiste di Teige, rappresentano solo alcune delle manifestazioni in cui si fa tangibile questo forte interesse per la condizione dell’operaio moderno e degli effetti che il progresso socioeconomico ha su quest’ultimo, difatti questo interesse si lega anche a tutta la riflessione fatta sul piano architettonico nel contesto dell’estetica costruttivista. La stessa questione, come si è visto, è una delle spinte tematiche che alimentano la produzione dello Čapek, sebbene egli realizzi un prodotto letterario differente, sia per modalità che per stile, come nel caso della sua concezione del palcoscenico come tribuna e occasione di riflessione su questioni rilegate al piano morale.
Abbandonando il contesto ceco di inizio Novecento, questa peculiare concezione del teatro rimanda, in un certo senso, ai principi del “teatro epico” di Brecht, in particolare a quelli che costruiscono la base di Leben des Galilei (“Vita di Galileo”, 1956 – versione berlinese). Ci si potrebbe infatti domandare cosa leghi due opere così distanti sia sul piano strutturale che su quello banalmente temporale. In realtà, questa distanza è solo apparente. In Vita di Galileo, concepita come un vero e proprio “testamento spirituale”, Brecht si propone, sulla base di teorie dal gusto marxista, di analizzare il rapporto che la scienza intrattiene con la società, identificata nel testo con la Chiesa. Come in Čapek, anche in Brecht c’è uno scontro etico tra il passato (il vecchio Rossum) e il futuro (il giovane Rossum), nonché uno scontro tra la dimensione scientifica e quella capitalista. In entrambe le opere è anche sintomatico il luogo in cui la vicenda viene posta. Difatti, tanto quanto l’isola del futuro alla Moore di Čapek quando l’Italia seicentesca di Brecht sono, in realtà, rappresentazione metaforica di un luogo ideale in un tempo altro, che, essendo lontano da quello presente, permette una riflessione sui generis. Nelle quindici scene del dramma brechtiano si presentano a più riprese personaggi che rappresentano, come in Čapek, non tanto degli individui delineati psicologicamente quanto dei “tipi sociali”. Se da una parte i robot di Čapek sono un espediente per condannare la recente nascita del capitalismo e i drammi portati dall’uso delle scoperte scientifiche durante la Prima Guerra Mondiale, Brecht è invece colui che, rivolgendo lo sguardo alle vicende del secondo conflitto mondiale, impiega il teatro per mettere in guardia gli uomini su ciò a cui un uso eticamente scorretto delle scoperte scientifiche può portare. Oltre a questo monito, un’altra consonanza è da vedersi proprio nell’interesse manifestato in Brecht, soprattutto in ambito lirico con le Poesie politiche, per la questione operaia all’interno della società industriale di epoca nazista. Infine, un altro aspetto che avvalora e permette di trovare dei punti di contatto tra Brecht e Čapek è il fatto che entrambi si rifanno in maniera più o meno indiretta al teatro espressionista tedesco, caratterizzato da una componente critica.
Nel caso di Čapek, è possibile infatti riscontrare delle somiglianze tra R.U.R. e Gas I (1918), pièce redatta da Georg Kaiser, drammaturgo espressionista. L’opera venne rappresentata presso l’Intimní divadlo (oggi Švandovo divadlo) e, fatto curioso, il seguito di Gas I, che porta il titolo di Gas II, ebbe la sua prima mondiale a Brno nel 1920. In ciascuna di queste opere si ritrovano i seguenti aspetti: l’ambientazione della fabbrica, lo scontro tra atteggiamenti etici differenti e la dimensione della catastrofe. Un altro elemento comune è la situazione in cui l’umanità si ritrova, ovvero una condizione in cui il progresso scientifico è talmente avanzato da divenire incontrollabile. L’elaborazione di questi temi è però differente. A differenza dell’opera di Kaiser, infatti, in Čapek la possibilità di realizzazione di una fabbrica “ideale” viene negata in primis dal fatto che all’interno di essa non lavorino operai umani, ma robot. Inoltre, lo stesso concetto di fabbrica è sviluppato in modo differente. Kaiser ambienta l’azione in la fabbrica qualsiasi, ambiente funzionale a mostrare solo i drammi che vi intercorrono. In Čapek, invece, la dimensione stessa della fabbrica assume una carica metaforica, non è più uno stabilimento qualunque, ma il luogo in cui vengono prodotti i robot e in cui l’umanità consuma la sua stessa fine. La fabbrica čapekiana si erge quindi a simbolo della distopia (Jana Horáková usa a più riprese l’espressione továrna-utopie – “fabbrica-utopia”). In questa differenza risiedono il successo e il genio letterario di Čapek. Difatti, egli non si limita a costruire una critica sociale e a lanciare un messaggio al lettore, ma per farlo costruisce una dimensione altra, fortemente connotata dal punto di vista metaforico e funzionale al discorso pedagogico. A differenza di Kaiser, quindi, Čapek non si esaurisce nelle vesti di osservatore della realtà, ma la rielabora secondo delle leggi nuove, in linea con l’ondata distopica di cui si parlava inizialmente.
Ritornando a quanto affermato precedentemente, R.U.R. riscosse un grandissimo successo in tutti i grandi teatri dell’epoca. In riferimento a questo aspetto, quello che Jana Horáková constata nel suo studio monografico dedicato alla pièce è che essa rappresenta un caso eccezionale. Inoltre, questa sua accoglienza è dovuta sia ai temi trattati, che – parzialmente manipolati – si andavano a inserire perfettamente sia nell’estetica dell’avanguardia, sia al crescente interesse per le opere di gusto distopico. Questa ricezione presenta, però, anche degli aspetti discutibili, in relazione soprattutto – come affermato precedentemente – all’estetica futurista dell’elogio della macchina e della modernità, principi strettamente legati a quello del rifiuto della tradizione. Questo rappresenta solo il primo momento di un fraintendimento dell’opera di Čapek poi permeato nella storia cinematografica, a partire dalla produzione sovietica fino alla moderna Sci-fi. R.U.R. è un’opera che si situa a metà strada tra la dimensione fantascientifica e quella filosofica, in cui si manifesta chiaramente l’interesse per la figura dell’operaio. Čapek crea i suoi robot per costruire una critica alla società capitalista e per mettere in guardia i lettori sulla possibilità quanto mai prossima di un’apocalisse. L’autore, però, non si limita alla questione operaia, la sua è una metafora che riguarda l’uomo stesso, nella sua totalità. Se molti testi risalente al periodo interbellico, tra cui quelli citati, faticano a trovare una risonanza nel contesto odierno, R.U.R. è una pièce ancora oggi in grado di comunicare il suo messaggio. Questo è possibile sia grazie alle modalità in cui il discorso di Čapek viene proposto, sia in riferimento all’enorme tradizione che si è venuta a creare successivamente. Ciò che, in ultima battuta, rende ancora più affascinante l’opera è il fatto che Čapek dialoghi chiaramente con un futuro prossimo dal sapore distopico, oltre che con una tradizione che affonda le proprie radici nell’humus mitteleuropeo. Basterebbero questi aspetti a spiegare la fortuna che R.U.R. ha avuto anche al di fuori della Cecoslovacchia dell’epoca, sebbene condannata fin dal principio ad essere vittima – citando la postfazione di Alessandro Catalano alla sua traduzione realizzata per Marsilio Editore – di un tradimento annunciato.
Bibliografia:
Angelo Maria Ripellino, Praga Magica, Torino, Einaudi, 2014.
Jana Horáková, Robot jako robot, Praha, Koniasch Latin Press, 2010.
Jiří Wolker, Básně, Praha, Československý spisovatel, 1980, s. 137-138
Karel Čapek, R.U.R. Rossum’s Universal Robots, a cura di Alessandro Catalano, Venezia, Marsilio Editori, 2015.
Karel Čapek, R.U.R. & L’affare Makropulos, traduzione di G. Mariano e nota di Angelo Maria Ripellino, Torino, Einaudi, 1971, pp. 173-183.
Karel Čapek, O slově robot, in “Lidové Noviny”, 24 dicembre 1933, ora in Id., O umění a kultuře III [Spisy 19], Praha, Československý spisovatel, 1986. s. 502-503. (Traduzione di A. Catalano)
Ludmila Lantová, Marie Majerová, in “Dějiny české literatury IV”, Praha, Victoria Publishing, 1995, s. 572-585.
Sergio Corduas, Golem, Robot, Švejk, in: Ebrei e Mitteleuropa. Cultura, letteratura, società, a cura di Quirino Principe, Gorizia, S. a. S., 1994.
Varlam Šalamov, I racconti di Kolyma, Torino, Einaudi, 1999.
Apparato iconografico:
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