Richárd Janczer
1896. Budapest è forse all’apice del suo splendore: la guerra mondiale è un miraggio lontano e la rivoluzione del 1848 un ricordo da non rievocare per mantenere vivo il compromesso politico (Ausgleich/kiegyezés del 1867). Il Regno d’Ungheria inizia i festeggiamenti per il Millenium, il millesimo anniversario dell’Honfoglalás (l’occupazione della patria), ossia l’arrivo delle tribù ungare nel bacino carpatico, nell’896. L’intera città, già in pieno sviluppo urbanistico, diventa un’esposizione universale a cielo aperto, con fiere e mostre che ne riempiono ogni angolo. Le celebrazioni si spargono a macchia d’olio fino ai Carpazi valicati da Árpád.
Per capire l’importanza cruciale di questa data, è utile ricordare cinque imprese architettoniche e ingegneristiche di quel periodo. Il 2 maggio entra in funzione il Milleniumi Földalatti Vasút, l’attuale linea M1 della metropolitana di Budapest e prima linea metropolitana dell’Europa continentale, dal 2002 patrimonio Unesco. L’8 giugno viene inaugurato il Parlamento, nonostante i suoi lavori di costruzione dureranno altri otto anni, la cui cupola raggiungerà i simbolici 96 metri di altezza. Il 4 ottobre viene inaugurato il ponte Ferenc József (Francesco Giuseppe), che oggi porta il nome di Szabadság híd (Ponte della libertà). Il 25 ottobre è inaugurato l’Iparművészeti Múzeum (Museo d’arte applicata) sul viale Üllői, in presenza dell’imperatore Franz Joseph I, che apre le porte l’anno successivo. Iniziano anche i lavori del Milleniumi emlékmű, il colossale monumento che rende Hősök tere (Piazza degli Eroi) così caratteristica, con la sua imponente colonna e i due colonnati semicircolari.
Parallelamente alla moltitudine di imprese architettoniche e urbanistiche, anche la cultura nazionale subisce una forte spinta alla ricerca etnografica e storiografica. Gli ungheresi sono sprovvisti di opere epico-mitologiche, come quelle di altri popoli d’origine “barbarica”, non possiedono corrispondenti dell’Edda, del Beowulf o del Nibelungenlied. È appunto nel 1896 che, dopo due anni di redazione e decenni di ricerca sul campo, viene dato alle stampe il Magyar mese- és mondavilág (Mondo delle fiabe e delle leggende ungheresi) di Benedek Elek, un’imponente opera in 5 volumi (2500 pagine circa). L’impresa di raccolta e trascrizione delle fonti orali avrà un grande successo e l’intento del celebre pedagogista, di consegnare “alla nazione un millennio di favolistica del popolo magiaro” (p.351) facendolo diventare un “tesoro comune” (p.361), sia per i compatrioti che per i lettori stranieri, un vanto nazionale da esibire e che non impallidisca al confronto di nessun altro patrimonio culturale estero, si può dire pienamente raggiunto.
Elisa Zanchetta, ex studentessa dell’Università di Padova, propone nel volume da lei tradotto e curato C’era una volta o forse non c’era (Vocifuoriscena, 2020) 14 fiabe, tratte da questo immenso corpus, per presentarne i vari tòpoi ugrofinnici e ugrici. Non si tratta di una semplice raccolta di fiabe ma di una silloge di testimonianze folkloristiche ed etnografiche che non ha precedenti per l’ungaristica italiana, utile anche per gli storici delle religioni interessati.
Per permettere una migliore comprensione delle particolarità della mitologia ungherese, il libro contiene un’esaustiva introduzione, un profilo biografico dell’autore e un glossario delle figure soprannaturali presenti. Inoltre, i termini specifici che, se venissero tradotti, perderebbero il loro significato originale, vengono lasciati in ungherese e spiegati tramite un ricco apparato di note. Un’ulteriore nota positiva del libro è data dal rispetto concesso ai nomi ungheresi che mantengono l’ordine originale cognome-nome.
Chi sia dunque alla ricerca di un La Fontaine ungherese o pensi che questo volume sia un parallelo di quelli di Iperborea, potrebbe rimanere deluso. Dal punto di vista degli intrecci, infatti, alcune fiabe si presentano scarne o ridotte al loro contenuto, risultano quasi essere apparati scheletrici di interi poemi epici. Come gli eroi cortesi o arturiani, anche gli eroi fiabeschi “di Benedek” abbandonano il nido domestico e iniziano un percorso di iniziazione. Le loro prove saranno però spesso guidate dai táltos, creature sciamaniche sia umane che animali (cavalli per la maggior parte), rendendo dunque le trame più rituali che cavalleresche.
“La fiaba nasce quando un popolo abbandona la propria religione e adotta un nuovo credo: così facendo, l’antico corpus di credenze viene svuotato del suo contenuto sacrale e continua a sopravvivere sotto forma di mito privo di valore dottrinale.” (p.9)
Le fiabe raccolte da Elek mostrano infatti un’interessante compresenza dei mondi pagano e cristiano, testimoniando la sopravvivenza di antiche credenze durante la lenta e graduale conversione al cattolicesimo. Un esempio lampante di questa commistione è riscontrabile nel fatto che creature pagane come il sárkány (drago) o tündér Ilona, la regina delle fate, vadano a messa (p.197; p. 111). Figure come la vasorrú bába (vecchia dal naso di ferro), una versione ugrica della baba jaga (p.385), mostrano invece ataviche tracce di incontri con popolazioni slave o turciche prima dell’Honfoglalás.
Tra le fiabe qui proposte spicca A csodaszarvas (Il cervo meraviglioso) che narra le leggendarie origini del popolo ungherese. Hunor e Magyar, figli del re Nimród, sono due abili cacciatori e, presi dalla frenesia durante l’inseguimento del “cervo meraviglioso”, tanto desiderato quanto sfuggevole, giungono in una terra fertile e senza uomini. Incontrano un gruppo di fanciulle, due di loro sono le figlie di Dul, sovrano degli Alani, sia Dio che il re daranno la loro benedizione a questa unione e dalle loro stirpi discenderanno gli unni e gli ungari, una lettura dunque a posteriori e filtrata dal nuovo credo cristiano. Lo stesso “cervo meraviglioso” mostra questa duplice natura di testimone dell’antico e del nuovo credo: è al tempo stesso erede dell’archetipo sciita del cervo e del messaggero divino con la funzione di guida verso la “terra promessa”.
Come nelle fiabe di altri popoli, una grande importanza è data ai numeri che si ritrovano ossessivamente in ogni testo, con significati oggigiorno poco chiari: possono essere i sette volte sette paesi, formula fissa e ricorrente per definire una distanza smisurata e aumentare il carattere straordinario delle imprese dei protagonisti, o il numero di teste dello sárkány o di zampe dei cavalli táltos.
“La fiaba conserva una visione pressoché inalterata degli elementi primordiali su cui si edifica una cultura.” (p.8)
Se alcuni di questi testi possono risultare narrativamente troppo abbozzati, non sono però mai sterili nel riportare una cosmogonia perduta, fatta di elementi magici o rituali e che concepisce il mondo come tripartito. La loro importanza, si potrebbe dire, è più antropologica che letteraria, nonostante alcuni accorgimenti del raccoglitore/autore Benedek Elek.
L’antico patrimonio pagano, continuo oggetto di studi ancora oggi, convive nel sistema fiabesco con l’ungherese sceso da cavallo, una figura stanziale tra monti e pianure e non nomade nella steppa. Il popolo qui rappresentato è un popolo di affamati, di padri con tanti figli “quanti i fori di un setaccio” (p.63), di figli costretti a cercare fortuna in giro per il mondo, nomadi come i loro antenati a cavallo.
Non deve stupire se molte di queste fiabe terminino con l’incoronazione o la smisurata opulenza del protagonista-contadino: il popolo “barbaro” ungherese è sempre rimasto alla ricerca di un riconoscimento, preda di quell’atavico desiderio, di omologarsi al resto dell’Europa di corti e castelli, di chiese e monasteri, com’era dopo la morte di Carlo Magno, che non è mai stato sradicato.
Nonostante la pompa magna di una festa autocelebrativa e gli intenti patriotici dell’opera, Benedek Elek ha dato agli ungheresi un vero tesoro comune, un patrimonio in cui specchiarsi nelle loro infinite contraddizioni, al tempo stesso la gloria antica e la voglia di rivalsa dalla miseria attuale.
Il volume curato da Zanchetta è dunque un’ulteriore conferma che le fiabe non hanno solo la funzione di addormentare i pargoli ma di rivelare la vera essenza, la vera anima di un popolo. Non sono sufficienti qualche colonna di bronzo, boulevard o ponte di ferro a coprirne la vera natura, neppure mille anni di storia cristiana, e oggi, finalmente, anche i lettori italiani possono conoscere la bellezza delle contraddizioni di questo popolo.
Bibliografia:
Benedek Elek, C’era una volta o forse non c’era…, a cura di Elisa Zanchetta, Viterbo, Vocifuoriscena, 2020.
Apparato iconografico:
Immagine in evidenza:
https://www.vocifuoriscena.it/catalogo/copertine-doppie/c_era_una_volta_o_forse_non_c_era.jpg
1. Manifesto per la celebrazione del Millenium
https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/8/8f/Milleniumi_plak%C3%A1t_1896.jpg
2. Benedek Elek ritratto da Karvaly Mór
https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/d/dc/Benedek_Elek_Karvaly_M%C3%B3r.jpg
3. Copertina del libro
https://www.vocifuoriscena.it/catalogo/copertine-doppie/c_era_una_volta_o_forse_non_c_era.jpg
4.“Honfoglalás”, dipinto di Munkácsy Mihály nel 1893
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