Anita Redzepi
Abstract:
Rape as a Military Strategy in Bosnia and Herzegovina
This article analyses rape during the war in ex-Jugoslavia (1992-1995) as a military strategy to implement ethnic cleansing and consolidate control over the victims, among other purposes. Thousands of women were victims of mass rapes aimed at destroying the social and family fabric. War rapes became tools of power and, in Bosnia, were part of ethnic substitution, with the goal of forcing the procreation of new generations belonging to the aggressors’ ethnicity. The memory of the survivors has been erased, while the “conspiracy of silence” allowed impunity for the rapists and the absence of justice. Although rape was condemned in 2001 as a crime against humanity and the adoption in 2023 of the law on the protection of civilian war victims in Bosnia, which recognizes the status of war victims for women and children born from wartime rapes, contemporary Bosnian society, like Serbian and Croatian societies, still exhibits significant critical issues.
“Rata neće biti”, “la guerra non ci sarà” dicevano le persone di Sarajevo nel 1991, un anno prima dell’inizio della guerra in Bosnia ed Erzegovina. La guerra, per chi l’ha vissuta, è accaduta, è capitata come capita un terremoto; nessuna persona pensava che potesse succedere, non in una città come Sarajevo, conosciuta come la “Gerusalemme d’Europa”. Una città cosmopolita e sincretica, in cui convivevano persone serbe, croate, bosniache, musulmane, cattoliche, ortodosse, ebree e atee. Persone che si identificavano nelle varie etnie e confessioni religiose senza essenzializzare la soggettività in definizioni chiuse, perché non erano solo quelle, ma anche altro.
“Insieme a milioni di altri croati, sono stata inchiodata al muro della nazionalità, non solo dalla pressione esterna imposta dalla Serbia e dall’esercito federale, ma dal processo di omogeneizzazione nazionale interno alla Croazia. Ecco che cosa ci sta facendo la guerra, ci sta riducendo a una sola dimensione: la Nazione. Il guaio è che, prima, io ero definita dalla mia cultura, dal mio lavoro, dalle mie idee, dal mio carattere e, perché no, anche dalla mia nazionalità. Ora mi sento derubata di tutto questo. Non sono nessuno, perché non sono più una persona. Sono una di quattro milioni e mezzo di croati.” (Drakulić 1993: 61)
La Jugoslavia socialista del presidente Tito si fondava sul principio di bratstvo i jedinstvo (“fratellanza e unità”) fra i popoli delle varie repubbliche, garantendo loro autonomia decisionale e rappresentatività istituzionale. Tuttavia, i nazionalismi erano già diffusi e si inasprirono alla fine degli anni Ottanta – Tito morì nel 1980 –, al punto che alle prime elezioni multipartitiche tenutesi in Bosnia nel 1990 furono proprio i tre partiti nazionalisti a vincere, e già nel marzo 1991 il presidente croato Tudjman e serbo Milošević si incontrarono informalmente per accordarsi sulla spartizione della Bosnia. Nello stesso anno iniziò la guerra in Croazia, che si dichiarò indipendente dalla Jugoslavia il 25 giugno 1991 insieme alla Slovenia, a cui fece seguito la cosiddetta guerra dei dieci giorni. In Bosnia invece, tra il 29 febbraio e il 1° marzo 199l, la maggior parte della popolazione votò a favore dell’indipendenza al referendum indetto, mentre i serbi bosniaci lo boicottarono. Il 3 marzo 1992 il presidente bosniaco Alija Izetbegović dichiarò l’indipendenza della Repubblica di Bosnia ed Erzegovina e quasi un mese dopo, il 5 aprile, iniziarono la guerra, che si estese su tutto il paese, e l’assedio più lungo nella storia bellica moderna: Sarajevo rimase assediata per 1425 giorni, fino al 29 febbraio 1996.

“Noi a Sarajevo andammo a dormire con la pace e il giorno dopo ci svegliammo con la guerra” afferma in un’intervista Azra Nuhefendić, scrittrice e giornalista bosniaca,
“cominciarono a colpirci con le granate, a entrare nelle nostre case per ucciderci, per cacciarci e derubarci, per stuprarci, ci chiudevano l’acqua, ci privavano del cibo, ci lasciavano al freddo staccando il gas e l’elettricità, i cecchini ci freddavano per strada, ci rinchiudevano nei campi di concentramento. Allora capimmo che quella era la nostra guerra e che noi, gente comune e pacifica, eravamo i bersagli principali e le vittime più numerose.”
Con le prime granate iniziarono anche gli stupri di massa.
Non si hanno delle statistiche esatte sulle donne stuprate nel corso della guerra in Bosnia: il rapporto di Warburton della Comunità Europea, pubblicato nel gennaio 1993, parla di 20 mila vittime di stupro, mentre il governo bosniaco ritiene che il numero sia molto superiore, intorno ai 50 mila. Gli stupri di guerra sono una strategia militare che esiste da quando esistono le guerre:
“lo stupro non è diventato solo una prerogativa maschile, ma la principale arma contro la donna per esercitare il suo potere, il principale strumento della sua volontà contro la sua paura. Il violento ingresso nel suo corpo […] è diventato veicolo della conquista vittoriosa dell’essere della donna, la prova finale della sua forza superiore [dell’uomo], il trionfo della sua virilità.” (Brownmiller 1975: 14)
La giornalista Susan Brownmiller ha inteso la violenza sessuale sulle donne come arma per controllarle e manifestare la virilità e la supremazia dell’uomo su di loro. Gli stupri di guerra, in quanto arma, sono anche una strategia militare per castrare gli uomini avversari, incapaci di difendere le proprie donne (intese come proprietà), e per attaccare di conseguenza la morale e l’identità della società di cui fa parte la donna stessa. Il rapporto tra donne e società-nazione oscilla tra una “prospettiva che vede le donne come rappresentanti della nazione […] o al contrario come partecipanti ad essa” (De Petris 2005: 276). Avere il potere sul corpo delle donne, significa avere il potere sull’avversario e consolidare il dominio. Il corpo delle donne viene ridotto a un medium che veicola messaggi tra uomini, messaggi che informano della supremazia dello stupratore, e della nazione di cui fa parte, al nemico e al popolo avverso. In particolare, con la guerra in Bosnia e in Ruanda, si è iniziato a parlare di stupro etnico, cioè stupri su base etnica con l’intento di esprimere la suddetta supremazia di un popolo su un altro e avviare una sostituzione etnica per mezzo delle gravidanze forzate che mettono al mondo generazioni che diffondono l’etnia degli stupratori.
In che modo le nuove generazioni sono il mezzo per la sostituzione etnica?
La risposta ha radici nella cultura patriarcale millenaria: nel De generatione animalium, Aristotele afferma che è il seme maschile la forma che attualizza la vita nella materia passiva, cioè il sangue femminile; da qui la spiegazione “dell’inferiorità anatomica, fisiologica ed etica della donna” (Mehmedović 2019: 86). L’uomo è quindi considerato causa formale ed efficiente dell’essere umano – della sua anima – mentre il principio femminile si esaurisce nel suo unico destino contenitore. Da Aristotele agli anni Novanta del secolo scorso sono passati più di due millenni, eppure il principio rimane sostanzialmente inalterato: è l’uomo che determina l’appartenenza etnica della persona che nascerà. Così in Bosnia i četnici (nazionalisti serbi) avevano il dovere sacro di cambiare la natura della donna – il suo sangue musulmano o non ortodosso – rendendola pregna di seme veramente fedele. È stata la stessa Chiesa ortodossa a sostenere apertamente Slobodan Milošević e l’idea di una Grande Serbia, appoggiando le azioni di pulizia etnica dei gruppi paramilitari.
In Bosnia, gli stupri etnici erano parte integrante della pulizia etnica, espressione che è andata diffondendosi proprio negli anni Novanta (traduzione letterale di etničko čišćenje in serbo-croato) e descrive la deportazione della gente croata e bosniaca dalle terre conquistate dall’esercito serbo-montenegrino. In questo senso, la pulizia etnica è uno degli atti che costituisce il genocidio. E se gli stupri di guerra, e gli stupri etnici in particolare, sono parte della pulizia etnica, allora anche gli stupri sono uno degli atti che costituisce il genocidio: per questo anche gli stupri di guerra vengono definiti genocidal rape (Salzman 1998), cioè stupro genocidario. In vista di questo fine, sono stati creati anche dei campi di stupro in cui donne e bambine (a volte anche ragazzi e uomini) venivano torturate sistematicamente fino alla morte o ingravidate forzatamente.
La giornalista Mona Eltahawy, nel suo manifesto Sette peccati necessari racconta di quando nel 2016 è stata ospite al Bookstan literature festival di Sarajevo. In quell’occasione, la giornalista bosniaca Nidžara Ahmetašević l’aveva accompagnata a visitare la città di Višegrad e lo spa hotel chiamato Vilina Vlas, un ex campo di stupro:
“Nel 1992, Vilina Vlas fu usata come quartier generale per omicidi e stupri da Milan Lukić, leader del gruppo paramilitare serbo delle Aquile bianche. Una sentenza del Tpij [Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia] ha confermato che l’hotel era stato usato come centro di stupro. Nidžara mi ha raccontato che lì furono ridotte in schiavitù sessuale duecento donne e ragazze, legate ai mobili nelle stanze dove le stupravano. Mi ha detto che, alla fine di ogni giornata, c’era uno stupro di massa nella piscina. Dopo uno di questi stupri di massa, una ragazza di quattordici anni si è uccisa saltando fuori dalla finestra della sua stanza.” (Eltahawy 2022: 230)
Durante la visita all’hotel da parte di Eltahawy, le persone ospiti andavano in giro in accappatoio dirette verso le sorgenti termali o sguazzavano nell’acqua della piscina.

L’associazione delle donne vittime di guerra ha lottato per avere una targa commemorativa sul muro di Vilina Vlas, ma l’hotel è amministrato dal comune di Višegrad, situato nella Republika Srpska, per cui non c’è alcun monumento commemorativo, alcun memoriale che riconosca l’orrore che donne e ragazze hanno subito, come avviene invece con il memoriale per gli uomini e ragazzi massacrati a Srebrenica. Nell’agosto del 2020, l’economista sarajevese Amela Trokić ha lanciato una petizione affinché l’hotel venisse rimosso dall’elenco delle destinazioni turistiche da Google Maps e Google search (Cfr. Aleotti 2020).
Le vicende di Vilina Vlas sono raccontate dettagliatamente anche nel rapporto stilato da una commissione di persone esperte istituita con la risoluzione 780 dell’Onu nel 1992. Una storia simile a quella di Vilina Vlas è il locale Sonja, a Vogošća, un sobborgo di Sarajevo. Le donne sopravvissute hanno testimoniato che il locale era frequentato anche dai caschi blu dell’Unprofor:
“I caschi blu sapevano che si trattava di donne bosniache costrette a subire violenza sessuale. Il giornalista britannico John Burns ha scritto per il New York Times che ‘lo stesso comandante delle forze internazionali in Bosnia, il generale canadese Lewis MacKenzie, ha abusato delle donne bosniache tenute prigioniere nel bordello locale Sonja’.” (Cfr. Nuhefendić 2009)
Come anticipato, i campi di stupro servivano anche per ingravidare le donne e tenerle prigioniere fino a quando non sarebbe stato più possibile fare un aborto sicuro.
Molte donne tentarono di abortire da sole perché non avevano accesso ai servizi sanitari, oppure portarono a termine la gravidanza per poi affidare i bambini e le bambine agli orfanotrofi, o fecero finta che il nascituro appartenesse al compagno per evitare di essere respinte e ostracizzate dalla comunità, dalla società o dalla famiglia. E per quelle donne che riuscirono a rivolgersi alle cliniche mediche, non sempre trovavano personale disposto a praticare l’aborto, anche se era a conoscenza degli stupri. Nonostante le condizioni, nel 1992 – a pochi mesi dall’inizio della guerra – la clinica di Sarajevo aveva riportato che il numero degli aborti effettuati erano più che raddoppiati tra i mesi di settembre e novembre (400-500 al mese) rispetto al periodo immediatamente precedente la guerra.
Le donne venivano violentate con l’obiettivo di “distruggere il tessuto sociale e familiare di una realtà in cui la vittima dello stupro si sentiva spesso ‘colpevole’ e come tale era trattata” (Pirjevec 2014: 154-155). La cosiddetta vittimizzazione secondaria non si riferisce solo alla messa in discussione della testimonianza della vittima di aggressioni sessuali in sedi processuali, ma comprende anche l’ostracismo sociale. In molti casi, le donne vittime di stupro vengono isolate dalla comunità di appartenenza, escluse in quanto portatrici di una violenza innominabile e immorale. Invece di tutelarle e supportarle, la società le guarda con sospetto e le considera responsabili, impure e contaminate. Donne portatrici di “figli d’odio” (Cfr. Doni – Valentini 1993), figli e figlie nati da una violenza che ha macchiato la vita delle madri e, per eredità, anche la loro. “La violenza sessuale traumatizza e spezza famiglie e intere comunità per generazioni, cambiando la struttura demografica di un territorio” (Oksanen 2024: 18).
La vittimizzazione secondaria delle donne che hanno subito torture, violenze e stupri sistematici, ha portato alla cosiddetta “congiura del silenzio” definita da Slavenka Drakulić nel romanzo Kao da me nema (“Come se io non ci fossi”, 1999):
“La gente si chiede: e a questa cosa le sarà capitato? Le donne stesse se lo chiedono l’una dell’altra, guardandosi con la stessa domanda negli occhi. Ma non ne parlano. Tacciono. […] È una congiura del silenzio. Sono convinte, così, di nascondere la vergogna, di difendere il proprio onore? Oppure pensano che la loro esperienza non può essere condivisa con nessuno, nemmeno con quelle che l’hanno vissuta? Il silenzio ci difende, ma difende anche i violentatori, pensa S., incerta tuttavia se lei stessa sarebbe disposta a parlarne.” (Drakulić 2000: 167-168)
Il silenzio che avvolge gli stupri di guerra ha permesso da una parte la sussistenza dell’egemonia maschile sulla narrazione e denuncia dei crimini di guerra, dall’altra ha consentito alle istituzioni di ignorare completamente le vittime di guerra.
Il ricordo e la memoria sono così a servizio del potere dominante – cioè patriarcale, che trascende le etnie e le religioni – che attraverso il controllo sessista delle informazioni rimuove il genere, esclude simbolicamente e concretamente le donne dalla storia e dai centri di potere.
L’egemonia maschile, oltre a perpetuare l’esclusione dei corpi estranei dalla memoria storica, assolve anche i criminali di guerra. Il 22 febbraio 2001 per la prima volta lo stupro viene condannato come crimine contro l’umanità da una sentenza del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia. La sentenza ha avuto una grande importanza giuridica ma non ha trovato sempre riscontro in sede processuale; un esempio è il caso di A., una donna che è stata ripetutamente stuprata nel 1993 da un soldato dell’esercito della Republika Srpska in un paese vicino a Sarajevo.
A. si è rivolta alla corte di Bosnia ed Erzegovina già nel 2014 per denunciare gli stupri, dopo che ha sentito un’altra donna parlare della stessa esperienza; il processo si è concluso con una sentenza che richiedeva un risarcimento economico da parte dello stupratore e la sua reclusione per otto anni. Nella comunicazione indirizzata al comitato, A. ha riferito che ha dovuto abortire e che nel 2008 le erano stati diagnosticati sintomi da permanente disturbo della personalità e da cronico stress post-traumatico, che l’avevano portata a sottoporsi a trattamenti psichiatrici. Tuttavia, il condannato aveva dichiarato di non avere soldi né beni per poter risarcire la donna. Nel 2017, tre anni dopo la denuncia, la donna aveva iniziato a presentare un aggravamento dello stato psichico, dovuto anche allo stress durante il processo. A. ha dovuto fare ricorso e il Comitato contro la tortura ha dichiarato che è compito dello Stato adottare misure – economiche e di cura – per combattere l’impunità per le violazioni dei diritti umani. In questa sede, il Comitato ha anche deciso di istituire un piano nazionale di risarcimento dei crimini di guerra che tuttavia non ha avuto un riscontro effettivo nella realtà: molte vittime di stupro vivono oggi dentro la Republika Srpska, un’entità nata da un regime criminale legittimata dall’accordo di Dayton del 1995 che ha riconosciuto a tale regime i diritti politici sul 49% della Bosnia ed Erzegovina, il che ha
“determinato conseguenze nefaste per ciò che riguarda il perseguimento dei crimini di stupro […]. La frammentazione etnico politica e l’ostruzionismo istituzionale hanno fatto sì che, ad oggi, appena il 5% delle donne abbia ottenuto sussidi statali quale forma di riconoscimento delle disabilità riportate. In tutto questo, la Republika Srpska non concede il sussidio a tutte quelle donne che non siano state riconosciute ‘vittime civili di guerra’, il che a sua volta significa che, per vedersi riconosciuto tale status, devono dimostrare di avere un alto grado di disabilità fisica.” (Mehmedović 2019: 92)
La Bosnia, come la Croazia e la Serbia, conosce un alto tasso di assoluzioni, di sentenze ridotte in appello, rinvii a giudizio e criminali di guerra latitanti. Per lungo tempo, le sopravvissute non hanno avuto accesso al sostegno sociale, a cure mediche gratuite, a servizi di riabilitazione sociale e non è stato loro riconosciuto lo status di vittime di guerra. Alcune di queste donne hanno confessato ad Amnesty International di aver dovuto cambiare residenza per accedere a una pensione mensile minima (260 euro). Inoltre, a partire dal 2006 il Tribunale internazionale ha cominciato a trasferire i processi alle corti locali: ciò significa che appena l’1% dei casi di stupri di guerra è arrivato in tribunale (Cfr. Neimarlija 2020).
A fine luglio 2023 il Parlamento della Federazione di Bosnia-Erzegovina ha approvato la legge sulla tutela delle vittime civili di guerra che indica le modalità di erogazione delle indennità, riconoscendo così le donne e chi è nato dagli stupri come vittime di guerra. La legge è stata accolta con favore soprattutto dall’Ong di Sarajevo Zaboravljena Djeca Rata (“Figli dimenticati dalla guerra”), fondata da chi è nato dagli stupri di guerra, che, insieme ad altre associazioni partner che rappresentano le vittime civili di guerra, hanno avviato e guidato la battaglia per il riconoscimento sociale e giuridico di queste persone. Prima di questa legge, i nati dalla guerra non potevano chiedere sussidi o fare domanda per una borsa di studio in quanto nei documenti ufficiali non era presente il nome del padre (ovvero dello stupratore). Tuttavia, le attuali tensioni politiche in Bosnia, e in particolare il permanere dei nazionalismi che amplificano le divisioni su base etnica del paese, continuano a mettere a rischio e lasciare nell’incertezza l’effettiva applicazione della legge. Si tratta di una stortura che si inserisce in un contesto in cui i reati rischiano di cadere nel dimenticatoio, i processi avvengono senza una copertura mediatica che corrisponde a un dibattito assente, un confronto con il passato silenziato e negato e una sostanziale passività da parte delle autorità: ciò fa sì che, per esempio, Croazia e Serbia, grazie alle leggi sulla cittadinanza e al rifiuto di estradare i propri cittadini, sono diventate il rifugio dei criminali di guerra.

Le donne sono bersaglio al di là della guerra e della pace, oggetto di dominio e controllo da parte degli uomini, siano essi caschi blu o gruppi (para)militari. La virilità trova nei corpi delle donne – e nelle loro immagini diffuse – il suo banco di prova: una relazione di Amnesty International e un reportage dell’organo diocesano di Vienna, “Die Furche”, hanno denunciato come alcune videocassette dei Servizi segreti serbi con riprese di stupri, torture e assassinii, di cui sarebbero state vittime donne e ragazze musulmane, siano apparse sul mercato pornografico nordamericano (Pirjevec 2014: 254).
Angela Davis ha definito lo stupro come “arma di terrorismo politico di massa” istituzionalizzata, una pratica di controllo e assoggettamento attuata dagli imperi coloniali, in cui “lo stupro era un’arma di dominio, un’arma di repressione, il cui fine nascosto era la distruzione della volontà di resistere delle schiave, demoralizzando al tempo stesso i loro uomini” (Davis 2020: 53). Cambiano gli anni, il contesto e la geografia, ma quanto affermato in Donne, razza, classe nel 1981 vale anche per la Bosnia e, in generale, per le donne uccise dagli stupri di guerra o che sopravvivono a tale crimine contro l’umanità.
Bibliografia:
Pierre Bourdieu, Il dominio maschile, Feltrinelli, Milano 2020. Traduzione di Alessandro Serra.
Susan Brownmiller, Against our will. Men, women and rape, Fawcett Books, New York 1975. La traduzione degli estratti è stata fatta per l’occasione da me A. R.
Angela Davis, Donne, razza e classe, Alegre, Roma 2020. Traduzione di Marie Moïse, Alberto Prunetti.
Stefania De Petris, “Tra ‘agency’ e differenze. Percorsi del femminismo postcoloniale”, in Studi culturali, Rivista quadrimestrale, No. 2, 2005, pp. 259-290.
Slavenka Drakulić, Balkan express, Il Saggiatore, Milano 1993. Traduzione di Isabella Vay.
Slavenka Drakulić, Come se io non ci fossi, Rizzoli, Milano 2000. Traduzione di Maria Rita Leto.
Elena Doni, Chiara Valentini, L’arma dello stupro. Voci di donne della Bosnia, La Luna, Palermo 1993.
Mona Eltahawy, Sette peccati necessari. Manifesto contro il patriarcato, le plurali, 2022. Traduzione di Beatrice Gnassi.
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Mirza Mehmedović, Tempo e sangue. Totalitarismo, genocidio e stupro in Bosnia ed Erzegovina, Mimesis, Milano-Udine 2019.
Simona Meriano, Stupro etnico e rimozione di Genere, Edizioni Altravista, Milano 2015.
Sofi Oksanen, Contro le donne. Lo stupro come arma di guerra, Einaudi, Torino 2024. Traduzione di Nicola Rainò.
Jože Pirjevec, Le guerre jugoslave 1991-1999, Einaudi, Torino 2014.
Todd A. Salzman, “Rape Camps as a Means of Ethnic Cleansing: Religious, Cultural, and Ethical Responses to Rape Victims in the Former Yugoslavia”, in Human Rights Quarterly, Vol. 20, No. 2, 1998, pp. 348-378.
Sitografia:
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Apparato iconografico:
Immagine 1: https://it.wikipedia.org/wiki/File:Sarajevo_Siege_Part_III.jpg
Immagine 2 e immagine di copertina: https://www.facebook.com/photo/?fbid=498788192252859&set=a.498788152252863
Immagine 3: foto scattata dall’autrice dell’articolo