L’eccidio di Babij Jar fra testimonianza diretta e trauma generazionale: una comparazione tra Anatolij Kuznecov e Katja Petrowskaja

Fabio Mosco

 

Abstract

The Slaughter Of Babi Yar between Direct Testimony and Generational Trauma: A Comparison between Anatoly Kuznetsov and Katja Petrowskaja

The warfare between the Russian Federation and Ukraine has definitively shattered the fragile balance that supported the relations between the two countries, showing Europe how conflicts of this magnitude can still happen within its boundaries. Characterised by a complex and painful bond, the histories of the two countries have been shaped by traumas and fractures that have never been fully elaborated. In March 2022 a series of bombings, aimed at the Kyiv TV tower, hit the nearby monument commemorating the Jewish massacre of Babi Yar, occurred in September 1941, causing a widespread feeling of indignation. This very place, today unrecognisable compared to then, for many years has been a symbol of a so uncomfortable past to be condemned by both nations to an almost uninterrupted damnatio memoriae. The first memorial was erected in 1974, while a Jewish menorah was built only in 1991. By analysing Anatoly Kusnetsov’s Babi Yar. Roman-dokument (“Babi Yar: A Document in the Form of a Novel”, 1970) and Katja Petrowskaja’s Vielleicht Esther (“Maybe Esther”, 2014) this article attempts to compare two ways of experiencing this traumatic event and its consequences.


L’eccidio di Babij Jar, avvenuto fra il 29 e il 30 settembre 1941, fu pianificato dal comando tedesco come rappresaglia a seguito degli attentati, compiuti da partigiani sovietici ed esponenti del NKVD, che il 24 settembre distrussero buona parte del centro di Kyiv, i cui edifici erano stati occupati dalla Werhmacht. Il 28 settembre fu diffusa la seguente ordinanza: “Tutti gli ebrei di Kyiv e dintorni devono presentarsi lunedì 29 settembre 1941 alle 8 del mattino all’angolo fra via Mel’nikovskaja e Dochturovskaja (vicino ai cimiteri)”. Il decreto proseguiva esortando a portare denaro e vestiti, minacciando la fucilazione per coloro che non avessero adempiuto all’ordine. Le centinaia di persone che comparvero il giorno successivo nella convinzione di essere deportate furono spinte dalle truppe tedesche, coadiuvate della milizia collaborazionista ucraina, nella forra di Babij Jar, alla periferia nord della città, spogliate dei loro beni e fucilate. I documenti attestano come in soli due giorni furono uccise 33.771 persone fra cui donne, anziani e bambini. È tuttavia necessario evidenziare come le esecuzioni proseguirono fino alla liberazione della capitale nel 1943, per una stima di quasi 100.0000 vittime fra ebrei, rom, partigiani e oppositori politici.

 

Ordinanza del 28 settembre 1941.

 

 

Anatolij Kuznecov: una testimonianza diretta

 

Nato da madre ucraina e padre russo, Anatolij Kuznecov (1929-1979) ha vissuto in prima persona l’occupazione di Kyiv e rappresenta, forse, il testimone più importante dell’intera vicenda. La consapevolezza della drammaticità di quanto accaduto lo spinse a comporre l’omonimo testo, pubblicato nel 1966 dalla rivista sovietica Junost’ (“Giovinezza”) in forma massivamente censurata. Dopo l’espatrio in Gran Bretagna alla fine degli anni Sessanta, nel 1970 ripubblicò Babij Jar nella sua forma definitiva, reintegrando le parti censurate e aggiungendo alcuni passaggi inediti. “Tutto in questo libro è verità” afferma l’autore al principio dell’opera e continua dichiarando di scrivere “come se rilasciassi una deposizione sotto giuramento nel più alto e giusto dei tribunali – e mi assumo la responsabilità di ogni mia parola. In questo libro è raccontata soltanto la verità – TUTTO COSÌ COME È STATO” (Kuznecov 2019: 23-24).

 

Quella che si può definire di diritto l’opera di una vita, rappresenta per Kuznecov la realizzazione di un imperativo morale, un atto di testimonianza affinché “le grida di migliaia di persone messe a morte” (Kuznecov 2019: 454) non cadano nell’oblio. Il compito di cui l’autore si fa carico nel denunciare “qualsiasi violenza, qualsiasi assassinio, qualsiasi mancanza di rispetto e qualsiasi oltraggio nei confronti dell’uomo” (Kuznecov 2019: 28) è dunque quello di preservare e tramandare la memoria del passato, non tanto della sua dimensione individuale quanto di quella collettiva, di una comunità che per estensione si fa umanità tutta, perché la cenere di Babij Jar è una cenere dove “tutto si era rimescolato: una sorta di cenere internazionale” (Kuznecov 2019: 26). A tale fine, il testo combina due possibilità antitetiche, ma complementari: da un lato si configura come la cronaca obbiettiva della Storia secondo un approccio impersonale, mentre dall’altro fa riemergere quanto accaduto attingendo alla biografia dell’autore focalizzandosi interamente sull’esperienza del soggetto narrante (Baldicyn 2018: 139-140). A questa doppia prospettiva si aggiungono i racconti di alcuni sopravvissuti dell’eccidio e materiali d’archivio come resoconti, articoli di giornale e comunicati ufficiali. L’opera si presenta in definitiva come una sintesi di queste istanze, una polifonia di voci e registri, un “romanzo-documento” appunto, che in un costante rimando reciproco rivela tanto il destino dei singoli quanto quello della collettività.

 

Attraverso la scrittura la realtà della guerra viene rappresentata in tutta la sua brutalità. La quotidianità si configura come una lotta per cercare di sopravvivere nello spazio ostile della capitale divenuta irriconoscibile, dove le vie sono disseminate di sporcizia, le vetrine sono in frantumi e i tram giacciono abbandonati lungo le linee mentre a dominare è il costante crepitio della mitragliatrice nella forra. In poco più di due anni, il dodicenne Tolja si trova costretto ad affrontare numerose esperienze drammatiche che trasformano la sua visione del mondo in maniera radicale. Divenuto partecipante attivo di questa realtà estrema, dove i rapporti umani sembrano avere perduto ogni valore, le vicissitudini profondamente traumatiche affrontate dal protagonista divengono un percorso iniziatico verso la consapevolezza del male, del cinismo dell’uomo e dell’assurdità di ogni regime totalitario.

 

Se al principio l’arrivo dell’esercito tedesco viene festeggiato dal nonno dell’autore come una benedizione, “Signore, gloria a te per averci fatto uscire vivi da questa prova, da questa peste bolscevica!” (Kuznecov 2019: 67), atteggiamento del resto condiviso da molta parte della popolazione e dovuto alla carestia indotta e alla politica di repressione attuata dall’URSS nel periodo prebellico (motivo per cui molti ucraini collaborarono con l’esercito occupante), presto il nuovo regime si rivela tutt’altro che pacifico. Agli articoli di giornali collaborazionisti che celebrano l’operato della Germania, esaltandone le vittorie e promuovendone i principi, si affiancano avvisi sul coprifuoco obbligatorio, sulla confisca dei beni e sull’obbligatorietà di denunciare gli ebrei o qualunque persona sia sospettata di sabotaggio. In questo clima di repressione e violenza, il giovane protagonista riflette sulle due dittature, quella nazista e quella sovietica, confrontandone i rispettivi “umanesimi”, termine con cui sarcasticamente ne definisce i sistemi di pensiero, arrivando alla conclusione che al mondo di “umanesimi” “ce ne sono tanti quanti sono gli assassini. E ogni assassino ha il suo proprio umanesimo” che “comincia dai Babij Jar e con essi finisce” (Kuznecov 2019: 216). Sono pagine concitate quelle che, seguendo quanto accaduto a Dina Proničeva, ebrea salvatasi dell’eccidio, mostrano a chi legge quanto avvenuto in quei giorni di fine settembre a poca distanza dalla casa dell’autore. La folla interminabile di “bambini urlanti, con i vecchi e i malati, piangendo e battibeccando” (Kuznecov 2019: 95) che si trascina al luogo indicato, mentre ovunque risuonano le domande: “Dove ci porteranno, come ci faranno viaggiare?” (Kuznecov 2019: 96). La risposta giunge irrevocabile e improvvisa dalla mitraglia: “Spari pacati, tranquilli, ritmici, come durante un addestramento” (Kuznecov 2019: 97) infrangono l’ultima illusione delle vittime innocenti.

Gli avvisi e gli articoli della propaganda nazista contro gli ebrei e i russi pubblicati giornalmente dalle principali testate giornalistiche portano Kuznecov a riflettere sull’identità propria e altrui come quando, leggendo un manifesto che definisce i giudei, i ljachi (polacchi) e i moskali (moscoviti) “i più feroci nemici dell’Ucraina” (Kuznecov 2019: 72), si interroga sulla propria origine e su quella delle persone che lo circondano:

Davanti a quel manifesto, per la prima volta in vita mia mi domandai chi ero veramente. Mia madre era ucraina, mio padre russo. Metà ucraino, metà moskal’, ero dunque nemico di me stesso. E poi di male in peggio. I miei migliori amici erano Šurka Matzah, per metà ebreo, cioè giudeo, e Bolik Kaminskij, per metà polacco, cioè ljach. Un dannato guazzabuglio.” (Kuznecov 2019: 72)

In mezzo a questo “guazzabuglio” non si può fare altro se non ammettere l’insensatezza dell’agire umano in un mondo divenuto un gigantesco Babij Jar dove i legami tra individui, e i valori che ne regolano i rapporti, non esistono più:

Allora mi guardai intorno stupito, e dal mondo cadde definitivamente il velo, polveroso e grigio. Vidi che mio nonno, ammiratore dei tedeschi, era uno sciocco. Che sulla terra non c’erano né intelligenza, né bene, né buon senso, solo violenza. […]. Che non c’era alcuna speranza […]. Non c’era da attendersela in nessun luogo e da parte di nessuno, intorno era un unico, immenso Babij Jar.” (Kuznecov 2019: 197-198)

Babij Jar, dunque, come simbolo dell’insensato male assoluto a cui viene negata giustizia e memoria anche dopo la fine del conflitto: indifferente a quei pochi che chiesero di erigere un monumento alle vittime, il Comitato centrale non ritenne opportuno costruire alcunché. Pressoché totalmente incentrato sull’esaltazione dell’eroismo sovietico contro l’invasore, il ricordo della guerra non lasciava spazio alcuno per commemorare le singole tragedie etniche e nazionali, in aggiunta al fatto che onorare le vittime dell’antisemitismo nazista avrebbe discordato con le politiche repressive antisemite attuate nella stessa URSS sul finire degli anni Quaranta. All’opposto furono ideati progetti per cancellare definitivamente il sito dell’eccidio. Se si esclude il tentativo condotto dall’esercito tedesco di cancellare ogni prova di quanto avvenuto tramite la riesumazione e la cremazione dei corpi nell’estate del 1943, furono due gli sforzi compiuti dalla politica sovietica per sopprimere il passato. Il primo attraverso la trasformazione della forra in un bacino idrico tramite la costruzione di una diga il cui crollo, nel 1961, causò la distruzione dei quartieri limitrofi. Il secondo fu il riempimento di quanto rimasto con del terreno sopra cui vennero edificati i nuovi studi televisivi della città. Solamente a trent’anni di distanza un primo monumento venne eretto in memoria dei cittadini sovietici, mentre con la dissoluzione dell’Unione, a cinquant’anni di distanza, fu possibile l’istallazione di una struttura commemorativa, una menorah, in ricordo delle vittime di etnia ebraica.

Le conseguenze psicologiche delle terribili esperienze di cui Kuznecov è stato protagonista e testimone hanno continuato a condizionarlo per il resto della vita come rivelato alla fine della narrazione: “Non riuscivo a dormire. Di notte, in sogno, sentivo gridare […], e io aspettavo sempre che succedesse qualcosa […]. Quest’incubo mi perseguitava, non era né sogno né realtà” (Kuznecov 2019: 454). Osservando come questa non sia storia, ma il presente che sempre e costantemente si rinnova, l’autore si chiede che cosa sarà del domani:

Quali nuovi Jar, Majdanek, Hiroshima, Kolyma e Pot’ma – in quali luoghi e in quali nuove, perfezionate forme – sono ancora celati nel non essere, in attesa del loro momento? […]. Capiremo mai che la cosa più preziosa al mondo è la vita dell’uomo e la sua libertà? O ci attende ancora la barbarie?” (Kuznecov 2019: 454)

Domande, queste, che risultano più che mai attuali e che suonano come un’esortazione e un monito a dare valore a ciò che solo conta veramente: la vita e la dignità umana.

 

Proprietà personali confiscate, Babij Jar, Kyiv, Ucraina, 1941.

 

Katja Petrowskaja e il trauma generazionale

Di origini ebraiche, Katja Petrowskaja è nata a Kyiv nel 1970. A sedici anni si è trasferita a Mosca con la famiglia dove si è laureata nel 1998. L’anno successivo si è stabilita in Germania dove ha iniziato la sua carriera professionale come collaboratrice presso alcuni quotidiani nazionali, tra cui Neue Zücher Zeitung e Frankfurter Allgemeine Zeitung. L’incontro con la cultura germanica si è rivelato decisivo nella sua formazione tanto da condurla alla decisione di impiegare il tedesco quale lingua letteraria. Nel 2014 pubblica Vielleicht Esther (“Forse Esther”), vincitore di alcuni dei più importanti premi letterari europei. Mescolando elementi autobiografici e finzione narrativa, l’opera affronta alcuni temi centrali del dibattito culturale contemporaneo spesso ricorrenti nella sua produzione: la consapevolezza della propria identità, il rapporto fra storia privata e storia collettiva e l’importanza della memoria.

Narrato in prima persona, il testo sfugge a una classificazione specifica del suo genere in quanto combina al suo interno differenti tipologie di scrittura: dalla memorialistica, al racconto di viaggio, alla prosa autobiografica, il tutto costruito sulla tenue linea che separa la realtà dall’artificio. Se la narrazione riguarda infatti persone e fatti reali, la creatività di Petrowskaja ricopre un ruolo centrale nell’economia dell’opera poiché, come lei stessa afferma in una delle prime pagine, “chi non mente non può volare” (Petrowskaja 2014: 15). Composto da sei capitoli, Forse Esther si presenta come il resoconto del viaggio dell’autrice attraverso lo spazio e il tempo europeo per riscoprire la storia della propria famiglia in un percorso che, partendo dalla fine del XIX secolo, giunge fino alla contemporaneità. Ricostruendo le vite di alcune delle personalità chiave del proprio albero genealogico mediante ricordi, aneddoti e documenti tramandati nell’ambiente domestico o conservati in archivi, condivide le riflessioni suscitate dagli interrogativi e dalle scoperte che periodicamente le si presentano durante il suo itinerario. Questa modalità di scrittura, basata sul frammento più che sulla linearità e arricchita dall’inserimento di alcune immagini fotografiche, fa sì che il testo venga a situarsi in quello spazio tra autobiografia, memoriale e romanzo che, se da un lato tende alla ricostruzione della storia personale, dall’altro è caratterizzato dal tentativo di ricollocare quest’ultima nel quadro più ampio della storiografia ufficialmente riconosciuta.

Ciò che muove Petrowskaja nella sua ricerca, il profondo senso di vuoto e il conseguente bisogno di riconnettersi con la propria storia, può essere compreso se si considerano le innumerevoli catastrofi che la famiglia dell’autrice, come del resto molte altre nei paesi dell’Europa orientale, ha dovuto affrontare. La maggiore di queste è rappresentata dal Secondo conflitto mondiale e, in particolare, dall’Olocausto: alcuni dei suoi familiari furono difatti vittime dell’eccidio di Babij Jar. Questa circostanza costituisce l’imprescindibile punto di riferimento del racconto in quanto avvenimento generatore del trauma familiare la cui ombra ossessiva “dai tratti mitici” (Petrowskaja 2014: 167) pervade l’intero testo, la ferita attorno a cui sono venuti a concentrarsi i silenzi di coloro che l’hanno preceduta determinando la sua intima sofferenza. A differenza di Kuznecov, tuttavia, il rapporto di Petrowskaja, ultimo anello della catena generazionale, con quanto avvenuto risulta mediato e compromesso in triplice forma: dal tempo trascorso, dai vincoli familiari e soprattutto dalla rimozione attuata dalla politica sovietica generatrice del punto cieco tanto nella memoria familiare (Ortner 2017: 47), quanto sociale. Da qui la difficoltà insita nella ricerca dell’autrice e, di conseguenza, nell’accessibilità semantica del testo stesso.

In particolare, le problematicità principali emergono nel capitolo quinto in cui viene rievocato quanto avvenuto ai suoi familiari durante l’occupazione. Nella prima parte l’autrice, tornata a Kyiv, si reca a Babij Jar alla ricerca di indizi che possano aiutarla a ricostruire il passato. In questa prima sezione, a dominare la narrazione sono le sensazioni e le considerazioni di Petrowskaja, cosciente tanto del fatto che “Babij Jar è parte della mia storia” quanto che “ogni essere umano ha qualcuno in questo luogo” (Petrowskaja 2014: 156). Giunta sul sito e stupita da quanto esso sia permeato dal “solito metabolismo urbano” (Petrowskaja 2014: 155) l’autrice si chiede:

Rimane un luogo lo stesso luogo, se lì si uccide e poi si sotterra, se si fanno esplodere mine, si scava, si brucia, si tritura, si disperde, si tace, si pianta, si mente, si scarica immondizia, si inonda, si cementifica, si tace di nuovo, si sbarrano gli accessi, si arresta la gente in lutto, e quindi si ergono dieci memoriali, si commemorano una volta all’anno le proprie vittime, oppure si pensa di non avere nulla a che fare con tutto ciò?” (Petrowskaja 2014: 156)

Forra di Babij Jar, Kyiv, Ucraina, 1° ottobre 1941.

 

Del luogo originario, il cui significato era indissolubilmente legato alla sua topografia, la forra quale ferita fisica e simbolica nell’anima delle vittime, dei loro parenti e nella storia del paese, non rimane più nulla poiché: “Se oggi vado alla ricerca di quell’immensa forra – lunga, prima della guerra, due chilometri e mezzo, profonda sessanta metri, e molto ripida –, non mi è possibile trovarla” (Petrowskaja 2014: 160). Oggi sono solamente i numerosi monumenti commemorativi sparsi per il parco a ricordare il passato, innumerevoli simulacri di senso nessuno dei quali, però, è detentore di un ricordo che possa dirsi realmente condiviso: “A mancarmi qui è la parola uomo. A chi appartengono queste vittime? Sono orfane della nostra memoria fallita? Oppure sono tutte… nostre?” (Petrowskaja 2014: 162-163). La portata morale di questa domanda, alla quale non viene data risposta e che suona come un ammonimento verso ognuno a considerare le proprie responsabilità, è tale da valicare il vincolo tematico dell’episodio in discussione per adattarsi pienamente alla contemporaneità e ai crimini che tutt’oggi avvengono nel mondo.

La seconda parte del capitolo è incentrata sulla memoria familiare. Attraverso una scrittura densa di tensione emotiva Petrowskaja tenta di ricostruire le vicende dei propri cari mescolando certezze e congetture: dalla bisnonna materna Anna, uccisa insieme alla figlia Ljolja nella forra, alla bisnonna paterna il cui nome era forse Esther perché da tutti chiamata sempre e solo affettuosamente babuška. Soffrendo di disturbi deambulatori, nella convinzione che non avrebbe potuto sostenere la fuga, la famiglia lasciò Esther a Kyiv sicura del fatto che si sarebbero rivisti presto. Una volta sola, venuta a conoscenza dell’ordinanza, decise di recarsi sul luogo indicato nonostante i tentativi di dissuasione dei vicini: “E così scese le scale. Il resto della casa non si mosse. Come di preciso sia scesa, la storia non ce lo dice. Anzi, no. I vicini l’avranno pure aiutata, come sarebbe riuscita altrimenti?” (Petrowskaja 2014: 179). Una volta giunta sulla strada deserta, forse Esther si avvicinò a una pattuglia tedesca per chiedere indicazioni:

Cherr Offizehr, cominciò babuška […], signor ufficiale, sia così gentile, mi dica che cosa devo fare? Ho visto gli avvisi con le ‘instruktzies’ per gli ebrei, ma fatico a camminare […]. Le risposero con una rivoltellata: la noncuranza d’un atto di routine – senza interrompere la conversazione, senza voltarsi del tutto, così, incidentalmente.” (Petrowskaja 2014: 186)

La rievocazione dell’episodio, tuttavia, non può definirsi compiutamente vera in quanto non vi è resoconto certo su cui l’autrice possa fare affidamento: i possibili testimoni, i “passanti, le commesse del fornaio […] e i vicini di casa dietro le tende” (Petrowskaja 2014: 188), non hanno mai rivelato quanto effettivamente avvenuto. Il capitolo si chiude con l’evocazione dell’anonima schiera di testimoni muti, dei cittadini e dei governanti, una folla senza volto che avrebbe potuto raccontare la verità su Babij Jar ma che, al contrario, ha scelto il silenzio. Dovendo fronteggiare la mancanza di connessioni empiriche con il passato e di conseguenza impossibilitata a ricomporre in maniera oggettiva la fine della bisnonna, l’autrice si affida alle potenzialità del proprio investimento creativo grazie al quale riesce a osservare la scena “come fossi Dio, dalla finestra della casa dirimpetto” (Petrowskaja 2014: 186). Tuttavia, nonostante questo presunto punto di vista onnisciente, il vero accaduto, nucleo del trauma familiare, rimane inattingibile: “Per quanto mi sforzi di guardarli in volto, […] e tenda tutti i muscoli della mia memoria, della mia fantasia e della mia intuizione – non funziona proprio. Non vedo i volti, non capisco, e i libri di storia tacciono” (Petrowskaja 2014: 186-187): la storia familiare non può essere completamente ripristinata se non tramite frammentarie accumulazioni di narrazioni e supposizioni su cosa sarebbe potuto accadere (Ortner 2017: 48-49). Eppure, il viaggio dell’autrice non può dirsi un completo fallimento poiché, se è vero che il trauma familiare non può essere totalmente elaborato e la Storia oggettivamente ripristinata, il tentativo di fare luce su quanto accaduto invita chi legge a uscire da Sé per condividere un punto di vista diverso, per immedesimarsi nell’Altro e accogliere un frammento di passato europeo troppo spesso dimenticato (Ortner 2017: 50).

 

Conclusioni

Nonostante l’evento storico alla base dei due testi sia il medesimo, l’intervallo temporale esistente fra i due autori fa sì che la prospettiva e la sensibilità impiegate da ciascuno influenzino e determinino necessariamente le rispettive narrazioni. Mentre Kuznezov attinge direttamente alla sua esperienza personale per testimoniare, attraverso simboli, immagini e documenti reali uno degli episodi più significativi della storia europea e ucraina, disvelando gli orrori e le contraddizioni dei totalitarismi del XX secolo (Baldyzin 2018: 144), Petrowskaja guarda al passato da un punto di vista contemporaneo. Nata anni dopo l’eccidio, l’autrice percepisce la profonda frattura che ha compromesso il legame fra il presente e il passato. Divisa tra l’urgenza di riscoprire quanto accaduto per sanare le ferite della propria storia familiare e le insormontabili difficoltà dell’impresa, l’autrice decide comunque di affrontare il complicato groviglio di sofferenza e colpa evitando di semplificare la storia (Ortner 2017: 52). Le due opere, ognuna nella propria specificità, oltre che fare luce su un episodio cardine del passato si interrogano sull’insensatezza della guerra e sull’importanza della memoria per il futuro, per affermare con irriducibile convinzione l’inviolabilità dell’essere umano.

 

 

Bibliografia:

Anatolij Kuznecov, Babij Jar, Milano, Adelphi Edizioni, 2019. Traduzione di Emanuela Guercetti.

Jessica Ortner, “The reconfiguration of the European Archive in contemporary German-Jewish migrant-literature”, in Scandinavian Jewish Studies 28, Vol. 1, 2017, pp. 38-54.

Katja Petrowskaja, Forse Esther, Milano, Adelphi Edizioni, 2014. Traduzione di Ada Vigliani.

Pavel Baldicyn, “Obraz avtora i polifonija v dokumental’nom romane Anatolija Kuznecova ‘Babij Jar’”, in Filologija i Kul’tura 53, No. 3, 2018, pp. 139-144.

 

Apparato iconografico:

Immagine 1: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Big-babijar14.jpg

Immagine 2 e immagine di copertina: Johannes Hähle PhotographsWW2DBhttps://ww2db.com › photo

Immagine 3: Johannes Hähle PhotographsWW2DBhttps://ww2db.com › photo