Viviana Santovito
Abstract
A Way of the Cross among the Bombs in the Deafening Silence of God. The Tragedy of Air Strikes in Gert Ledig’s “Payback”
This study investigates the aesthetic of direct gaze and the tragedy of direct witness as expressed in Gert Ledig’s novel Payback (1956). Gert Ledig, a promise of the German post-war literary scene, shocked his audience with his second novel, in which the author recounts the horror of the air war, narrating with a disenchanted and hyper-realistic eye an hour of bombing raids on an undefined German city between the Rhine and the Elbe. The narration reflects the technique of the live documentary, following the tragic vicissitudes of the work’s protagonists. Marked by an extreme violence, the novel was received coldly upon its publication, halting its author’s career and plunging him into an oblivion that lasted almost forty years. Between the pages of Vergeltung, the reader perceives a deep sense of anguish, culminating in the realisation of the absence of God in the hell of a tragedy caused by the hand of humans themselves.
Disclaimer: questo articolo contiene citazioni che il lettore può considerare disturbanti. Se si è particolarmente sensibili alle immagini di violenza, si sconsiglia la lettura.
“Dedicato ad una morta che non ho mai visto da viva.
Ora Centrale Europea 13:01
Lasciate che i bambini vengano a me.
Quando cadde la prima bomba, lo spostamento d’aria scaraventò i bambini morti contro il muro. Erano soffocati due giorni prima in una cantina. Li avevano messi nel cimitero senza seppellirli perché i loro padri combattevano al fronte, e prima si dovevano cercare le loro madri.
Se ne trovò solo una. Ma lei era rimasta sfracellata sotto le rovine. Questo era il volto della rappresaglia.”
(Ledig 1999: 6-7)
È una lettura difficile, quella proposta in questo articolo. Nonostante l’argomento “guerra” sia di estrema attualità, anzi, più in vista che mai grazie alla presenza dei social network, si tende ad evitare il calarsi direttamente nel dolore estremo causato dalla violenza bellica. Un meccanismo di difesa spesso adottato è, paradossalmente, quello di prendere parte: se la guerra in questione, per differenti ragioni geopolitiche, non può essere ignorata, se ne elabora la scomoda presenza parteggiando. Gli uni sono eroi, gli altri assassini. Aggressori e aggrediti, usurpatori e patrioti prendono una forma precisa nella coscienza individuale e collettiva, in modo tale da riuscire a digerire, ovviamente a distanza, una realtà non solo indescrivibile, ma sull’orlo del baratro della follia a causa della sua inestricabile insensatezza.
Quello che propone Gert Ledig, con Vergeltung (“Rappresaglia”, 1956), suo secondo romanzo edito da Fischer Verlag e ancora non tradotto in italiano, è proprio questo: un viaggio in presa diretta nell’inferno di un bombardamento aereo in una città sconosciuta tra il Reno e l’Elba. Ledig, nato a Lipsia il 4 novembre 1921, è un autore che la guerra la conosce bene: arruolatosi nella Wehrmacht nel 1939, dopo due anni viene inviato sul fronte orientale, dove combatterà fino al 1942. Rispedito in patria a causa di due gravi ferite, Ledig si dedica allo studio, diventando ingegnere navale e stabilendosi in Baviera per lavoro. Ciò lo porterà a vivere l’esperienza bellica dall’altro lato, quello dei civili, sopravvivendo ai bombardamenti su Monaco. Le esperienze maturate sul campo di battaglia lo porteranno a pubblicare per la casa editrice Claassen Verlag, nel 1955, Die Stalinorgel (“L’organo di Stalin”), romanzo corale ambientato durante la Battaglia di Stalingrado. L’iniziale successo editoriale, prodromo di una brillante carriera, si trasformerà, tuttavia, rapidamente in gelo con la pubblicazione di Vergeltung. Messo ormai all’angolo dall’establishment culturale tedesco, Ledig darà alle stampe la sua ultima opera nel 1957, Faustrecht (“Il diritto del più forte”), per poi cadere in un oblio durato quasi fino alla sua morte avvenuta il primo giugno 1999 a Landsberg am Lech.
Cos’ha scatenato questa reazione così drastica nei confronti di un autore considerato una delle nuove voci della letteratura tedesca del dopoguerra?
Se si volesse trovare una risposta, bisognerebbe considerare il contesto psico-sociale degli anni Cinquanta della Germania post-bellica. Come già ampiamente notato da W.G. Sebald in Luftkrieg und Literatur (“Storia naturale della distruzione”, 1999), la ricostruzione della Germania si è basata su un silenzio pervasivo in relazione agli anni della guerra. Il trauma, il senso di colpa, il bisogno di ricominciare hanno affossato qualsiasi tipo di discussione pubblica sulla realtà delle sofferenze dei civili, relegando i pochi autori disposti ad esprimersi in materia ad un lungo oblio.
L’opera di Ledig, tuttavia, è ben più complessa da affrontare: l’autore spiazza il suo pubblico con un romanzo dalla violenza brutale, senza risparmiare ai lettori atroci immagini di morte e menomazione. L’azione si apre alle ore 13:01 in una limpida giornata d’estate. All’improvviso, prima del suono delle sirene, compaiono nel cielo le macchine della morte, aerei bombardieri americani. È l’inizio della fine. Le bombe cadono incessanti e indifferenti su un’umanità che si scopre vulnerabile, dalla carne fragile e dalle ossa deboli, un mucchio di esseri facilmente schiacciabili e annientabili come insetti indesiderati. I differenti destini di una intera città si uniscono, fusi insieme dalla precarietà dell’esistenza e dalle atrocità più indescrivibili.
È agghiacciante come una buona parte dell’azione si svolga in un cimitero: questo è il primo luogo ad essere colpito dalle bombe, ma è anche la rappresentazione plastica della pace turbata. Lì, dove il riposo dovrebbe essere eterno e i conflitti sepolti, si scatena la furia assassina, andando a disturbare il sito trasversalmente più inviolabile per ogni cultura. La guerra ipertecnica ed ipermeccanizzata non conosce limes sacri, ma punta ad annientare l’Uomo nella sua interezza fisica, comunitaria e spirituale.
Le più di centocinquanta pagine del romanzo, intrise di sangue, fuoco ed urla, spiazzano il lettore sul finale, quando si scopre che è trascorsa soltanto poco più di un’ora dall’inizio dell’Apocalisse. Il sentimento di paralisi dopo aver assistito a tanta crudeltà è soverchiante. Soldati, bambini, donne anziane sono accomunati dall’impotenza di fronte alla tecnica della morte aerea. I corpi esplodono, si spezzano, rivelando l’anarchico movimento degli organi interni liberati dalla prigionia delle ossa, oppure si polverizzano all’istante, se centrati da un ordigno, lasciando come testimonianza della loro esistenza solo un arto o una macchia sull’asfalto rovente.
“Gli undici uomini nell’aereo sentirono come morì. Il suo laringofono trasmise l’accaduto fin dentro le loro orecchie. Piagnucolò per una frazione di secondo, come un bambino. Poi tacque.
La sua fu una morte semplice.” (Ledig 1999: 22)
La frammentarietà ed il senso di precarietà vissuto nel romanzo vengono magistralmente rappresentati da Ledig con una tecnica narrativa audace e sperimentale. Vergeltung manca di un protagonista così come di una trama unitaria. Al suo posto, il lettore è portato in medias res, come un giornalista in presa diretta, ad osservare, ogni minuto che passa e bomba che cade, le reazioni e gli atti di chi si è ritrovato, suo malgrado, costretto nell’inferno. Ledig costruisce un romanzo corale e polifonico, ritagliando alla voce narrante occasionalmente alcuni commenti da cui traspare un’ironia amarissima e tagliente. Nel caos dell’azione, è possibile identificare tredici sottotrame (lo stesso numero dei capitoli dell’opera), aventi come fulcro altrettanti personaggi principali. Si tratta di: Maria Erika Weinert, una giovane donna di circa vent’anni; Werner Friedrich Hartung, un insegnante; Alfred Rainer, un pensionato dalla vita semplice che troverà la morte schiacciato da una trave crollata nel rifugio antiaereo dove si era rifugiato con sua moglie; Nikolai Petrowitsch, un prigioniero di guerra russo, reso uno scheletro dalla fame, che vedrà i suoi compagni di prigionia polverizzati dalle bombe davanti ai suoi occhi ed implorerà di farsi uccidere da un soldato; Fischer, un cannoniere poco più che adolescente mandato a morire tra le fila della Flak, la cui madre trascorrerà gli ultimi anni della sua vita a cercarlo invano, convinta che sia sopravvissuto alla guerra; un prete; Viktor Lutz, allievo ufficiale dell’esercito tedesco; Hans Cheovski, un impiegato che ha perso entrambi i suoi figli in guerra; Maria Sommer, una vedova forte ed energica, avversa alla propaganda bellica poiché ha dovuto prendersi cura di suo marito tornato traumatizzato e gravemente ferito dalla Prima guerra mondiale; Heinrich Wieninger, tenente della Flak, un uomo coscienzioso e capace di guardare al di là delle ipocrisie ed illusioni delle gerarchie militari tanto da sfidare i suoi superiori, ma che non riuscirà a salvare il suo gruppo di ragazzi-soldato dalla morte; Jonathan Strenehen, pilota americano; Anna Katharina Gräfin Baudin, una nobildonna che ha perso suo figlio a causa di un tragico incidente in marina, cosa che la spingerà a dedicarsi al prossimo in attività di assistenza sanitaria; Egon Michael, medico sadico e brutale, figlio dell’alta borghesia tedesca, cresciuto con una formazione liberale e colta, ma nel quale, già da adolescente, trasparivano i germi del male, la stessa oscurità che lo renderà un fervente nazionalsocialista e che lo spingerà a provocare il linciaggio di Jonathan Strenehen.
È chiaro come l’indicibile violenza espressa nelle pagine di Vergeltung sia abbastanza disturbante da allontanare la maggioranza dei lettori. La categoria del cosiddetto splatter però non è adeguata a descrivere questo romanzo. La brutalità di Ledig, infatti, non si sofferma sul piano del fisico, ma scende nel profondo, andando ad investigare le reazioni, le emozioni, le immense paure di esseri umani piccoli come mosche messi di fronte ad un dramma più grande di loro. Nessuno ne è escluso: il lettore assiste impotente all’abbattimento dell’aereo di Jonathan Strenehen, il pilota americano convinto di salvare degli esseri umani sganciando bombe sul cimitero e divenuto vittima dei caccia del suo paese. Nessun senso di pietà da parte di chi legge potrà salvarlo dall’umiliazione derivante dal suo destino, quello di vagare, ferito e mezzo nudo, per la città ostile, chiedendo amore a chi lo percuoterà fino alla morte. Il lettore assiste al dramma di Werner Friedrich Hartung, insegnante pacifista e padre disperato di un bambino piccolissimo, che lui proverà invano a salvare dagli attacchi aerei contro la stazione, da dove sarebbero dovuti partire i convogli carichi di donne e infanti in fuga. Lo strazio raggiunge il suo culmine alla lettura della vicenda di Maria Erika Weinert, la ragazza che sognava l’amore e che morirà a causa delle ferite di uno stupro compiuto da un suo conoscente. Il lettore entra nel salotto dei coniugi Cheovski, coppia appartenente all’alta borghesia tedesca, proprio quando, sotto le bombe che colpiscono l’abitazione, Dessy, la signora di casa, vuole lasciarsi morire, perché la vita senza i suoi figli caduti invano in battaglia non vale più la pena di essere vissuta. Il lettore osserva poi interdetto la fuga di Hans Cheovski, un atto di vitalismo velleitario e codardo, di un marito che lascia la sua sposa, dopo una vita insieme, ad affrontare una morte imminente. Ognuno è messo di fronte al baratro della propria disperazione, in un contesto nel quale le bombe rappresentano, in fondo, un pretesto per dare adito al lato più oscuro della propria personalità. Quando la morte viene meccanizzata e spersonalizzata, si sfumano i confini tra l’aggressore e l’aggredito, tra il buono e il cattivo. Tutti sono carnefici, ma ognuno è vittima della follia imperscrutabile che cade dal cielo e trasforma la città in un uragano di fuoco. A garantire un barlume di individualità e pietà umana, sono presenti gli incipit di ogni capitolo, dove la narrazione si ferma per dare spazio ai personaggi di esprimersi in prima persona.
“Io, Viktor Lutz, nato il 24 novembre 1921, allievo ufficiale in un’unità speciale, ho sparato e ucciso la mia prima persona sulla pista di un aeroporto tra Čudovo e Novoselje, un chilometro dopo Čudovo. Da Čudovo a Novoselje sono sei chilometri. Erano quaranta prigionieri. Non riuscivano più ad andare avanti ed io ero solo.
Siccome non c’era una lingua nella quale potessimo intenderci, puntarono in silenzio il loro indice sul petto. Così quel gesto divenne un’istigazione all’omicidio. A Novoselje ne portai solo uno. Quello confermò che io avessi ucciso gli altri.
Poi dovetti ucciderlo dietro un’abitazione. Aveva un braccio legato in un cappio. Fu l’inizio della mia carriera. Patria, eroismo, tradizione, onore sono solo frasi fatte.
Con delle frasi fatte mi hanno spedito sulla pista dell’aeroporto di Novoselje.” (Ledig 1999: 92)
Lettore e protagonisti si avvicinano, mettendo in crisi i giudizi morali di chi legge questo romanzo in un’epoca di pace. Al di fuori di questo contesto, la narrazione segue le linee del documentario in presa diretta, passando bruscamente da una sottotrama all’altra, seguendo le azioni (e le morti, in alcuni casi) delle vittime dell’attacco.
“Le sirene erano ammutolite, il Figlio di Dio non riusciva a muoversi” (Ledig 1999: 12). La drammaticità del senso di angoscia presente in Vergeltung non si limita all’estrema cattiveria umana di cui le pagine del romanzo sono testimoni. Il tema che accomuna tutta l’opera, dal suo inizio alle ultime pagine, è l’assenza di Dio. Puntellato di citazioni dal Nuovo Testamento, ogni capitolo di Vergeltung costituisce il progredire di una atroce Via Crucis, davanti alla quale, però, Dio non può rispondere. L’assordante silenzio di Dio stride contro il fragore della morte inutile e roboante dei suoi figli, lasciati soli a se stessi in un inferno creato dalla loro perversione. Anche il Cristo scende dalla sua croce, ma non per un atto di volontà, essendo sbalzato via dallo scoppio di una granata su una chiesa.
“Ora Centrale Europea 14:10
Dio è con noi.
Ma lui era anche con gli altri. Nei settanta minuti dell’attacco, le macchine impegnate nella terza ondata sganciarono quaranta mine.
Pietre schizzarono verso il cielo come razzi. Le croci di legno nel cimitero erano già state distrutte dal fuoco. Nella sala d’attesa ridotta in rovine della stazione, bambini sanguinanti strisciavano lungo la scalinata; le bombe strapparono via il Cristo dalla croce in una chiesa, la pelle morbida dalla testa dei neonati in una clinica ostetrica, da qualche parte le mani giunte di una donna e nel recinto dello zoo alcune scimmie dagli alberi dove si erano rifugiate.
L’immagine di una Madonna si staccò dalla cornice, la firma di un santo fu dispersa dal vento e la gamba di un vivente si bruciò.
Il progresso annientava passato e futuro.” (Ledig 1999: 174)
Chi prova a cercare una morte cristiana, attendendo il dispiegarsi del Regno dei Cieli, non trova altro che urla atroci e l’indifferenza di un cielo dal quale piove solo la morte.
“Non si riusciva più a distinguere il prete dagli altri. Giaceva a terra. Le gambe spappolate sotto una trave di ferro.
Non sentiva niente. Il suo dolore rimase insensibile. In non più di cinque minuti sarebbe bruciato vivo. Pensò: questa è la ricompensa per il mio zelo.
La sua voce si disperse nel fumo come nella nebbia. Non aveva nessuna esperienza nell’urlare. Mettersi a pregare in quel momento gli sembrava insensato.
Pensò: in fondo non mi sente nessuno. Gli vennero in mente i suoi peccati. Dovette riderci su. Una risata rumorosa e disperata.
Giaceva sul selciato come una vecchia. La veste gli si era spostata, sotto portava dei pantaloni.
Se sono un santo, avrò una camicia, pensò.
All’improvviso divenne ingenuo come un bambino. Si ricordò della croce. Voleva morire nel fuoco con la croce in mano. Un santo muore secondo i precetti. Pensò: Se c’è un Dio, deve mostrarsi adesso. Forse dalle fiamme. Una voce paterna piena di amore.
Il prete tese l’orecchio nell’incendio. Il legno scricchiolava. Non c’era altro.
Riprese ad urlare. Questa volta gridava per l’angoscia, lo faceva soltanto per calmarsi. Una volta aveva sperato di non dover morire da solo.
Al prete si gonfiarono le vene sulla fronte, continuò ad urlare.
Ebbe per quattro volte sessanta secondi di tempo. Stabilì un record di durata delle urla. Prima di morire bruciato vivo.” (Ledig 1999: 74)
Dedicato ai morti senza nome e senza storia dell’atrocità della guerra, Vergeltung rappresenta un macabro monito e al tempo stesso un requiem per chi ha perso la sua vita invano nella follia bellica.
“In un’ora, dei bambini persero le loro madri e Maria Erika Weinert la vita.
Non ricevette una medaglia per questo. Qualcuno lo trovò ingiusto. Per questo una madre, che cercava suo figlio scomparso per sempre, ricevette in quest’ora la sua croce. Cercò suo figlio per dieci anni, poi morì. Una settimana dopo, un religioso fece visita alla famiglia Strenehen presso la loro pompa di benzina tra Dallas e Fort Worth. L’uomo osservò: «Dio dà e toglie secondo il suo piacimento.» Inoltre, tutto sarebbe volto per il meglio. Coloro di cui sentiamo la mancanza non sono ancora morti.
Dopo quest’ora mancarono circa trecento persone. Di queste, furono trovate dodici. […]
Dopo il settantesimo minuto le bombe continuarono a cadere. La rappresaglia eseguì il suo compito. Era inarrestabile. Solo il Giudizio universale. Questo non lo era.” (Ledig 1999: 174-175)
A prescindere dagli schieramenti, sembra dire Gert Ledig, si è tutti vittime di un male che sfugge alla comprensione umana. Ai lettori il compito di trovare il coraggio per non voltarsi dall’altra parte e scendere nell’abisso senza Dio del male dell’Uomo.
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