Tra bianchi e rossi: le sfumature della guerra civile in “Broneparochody” di Aleksej Ivanov

 

Anna Sokolova

 

Abstract

Between Whites and Reds: The Shades of Civil War in Aleksej Ivanov’s “Broneparokhody”

In Broneparochody (“The Armoured Steamers”, 2013) Alexei Ivanov exposes the tragic and absurd nature of the Russian Civil War, a conflict that ruthlessly fractured the nation. The war compelled individuals to take sides, splitting society into two irreconcilable factions – the Whites and the Reds – each unwavering in its belief in its own righteousness. Amid this vortex of violence, countless people were swept into the struggle against their will, some even aboard ships that had once symbolized progress, unity, and cultural exchange but were now transformed into armored instruments of death. In the novel, these ships serve not only as a stark metaphor for war but also as a reflection of the people caught within it – shackled by the “armor” of circumstances, stripped of agency, and forced into submission. The individual ceases to exist as a person, losing independence and identity, becoming instead a faceless cog in the vast, impersonal machinery of war. This symbol of dehumanization underscores how aspirations and humanity are crushed beneath the weight of unrelenting violence, leaving no space for reflection, empathy, or resistance.


Nelle opere di Aleksej Ivanov, cresciuto sulle rive del fiume Kama in una famiglia di ingegneri navali, l’acqua emerge come un simbolo poliedrico, un elemento che pervade i suoi lavori, fungendo da cornice e, al contempo, da cuore delle narrazioni. Il fiume, infatti, non si limita a essere un mero elemento geografico, ma assume la forma di una forza vitale e inarrestabile che accompagna, sfida e trasforma i protagonisti delle sue storie: la presenza della natante in Korabli i galaktika (“Le navi e la galassia”, 1992), la zattera che trasporta il geografo Viktor Služkin e i suoi studenti in Geograf globus propil (“Il geografo si è bevuto il mappamondo”, 1995), la fragile barca su cui il principe Michail solca il cuore di Parma in Serdce Parmy (“Il cuore di Parma”, 2003), la campagna fluviale in Message: Čusavoja (“Message: Il fiume Čusovaja”, 2007), il tram fluviale sul Volga che si trasforma in una prigione per vampiri in Pišeblok (“Pišeblok: il campo estivo maledetto”, 2018), fino ai fiumi che fluiscono tra le pagine di Zoloto Bunta (“L’oro della rivolta”, 2005) e Tobol (“Tobol”, 2016-2018). L’acqua continua a circolare ininterrotta anche nel recente romanzo Broneparochody (“I piroscafi corazzati”, 2023), strettamente intrecciato al successivo lavoro documentario Rečflot (“La flottiglia fluviale”, 2024), in cui l’autore riscopre un’intera civiltà fluviale, sollevandola dal fondale della storia come un relitto sommerso.

In Broneparochody la narrazione si snoda lungo il fiume Volga e i suoi affluenti Kama e Oka, le cui correnti diventano testimoni silenziosi di una realtà in frantumi – tra Nižnij Novgorod, Kazan’, Samara, Perm’, Ufa, Omsk – destinata a dissolversi nell’inarrestabile fluire del tempo. Le imbarcazioni che solcano questi fiumi – piroscafi, chiatte, rimorchiatori, cannoniere e molte altre – hanno una loro vita: sono entità animate. Ciascuna di esse rivela la propria identità e personalità, che si manifestano nei loro nomi, nelle storie che portano con sé e nei ruoli che svolgono all’interno del romanzo. Sulle rive e nelle acque, queste imbarcazioni convivono con una moltitudine di personaggi, tanto immaginari quanto reali, tra cui figure storiche come lo zar Michail, Lev Trockij, Aleksandr Kolčak, Gavril Majsnikov. Insieme, contribuiscono a creare una struttura narrativa complessa e stratificata, che richiama opere quali Guerra e pace (1867) di Lev Tolstoj, Il placido Don (1928) di Michail Šolochov e lo stesso Tobol (2016-2018) di Aleksej Ivanov. Pur appartenendo a contesti sociali e ideologici diversi, condividono non solo lo stesso periodo storico – quello della guerra civile (1918-1922) – ma anche temi ad essa strettamente legati: il conflitto tra bianchi e rossi, il ruolo cruciale dell’ingegneria navale e della navigazione, lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi e la ricerca dell’oro zarista.

Si trattava di un periodo di trasformazioni radicali; la vita subì un cambiamento profondo, anche se non tutti ebbero il tempo o la possibilità di comprenderne appieno la portata. Le industrie civili vennero riorganizzate secondo le nuove direttive delle autorità sovietiche, e le persone furono costrette a adattarsi a una realtà in continua evoluzione, che mutava sotto la spinta di forze politiche ed economiche. L’8 febbraio 1918 Lenin firmò un decreto che sanciva la nazionalizzazione dell’intera flotta. Con questo atto, tutte le imprese di navigazione – incluse le società per azioni, le società in nome collettivo, le case commerciali e le proprietà dei grandi imprenditori, nonché quelle dei proprietari di navi marittime e fluviali impiegate nel trasporto di merci e passeggeri – insieme a tutti i beni mobili e immobili ad esse legati, furono dichiarate proprietà nazionale: “Dopo la nazionalizzazione, il traffico passeggeri sul Kama cessò quasi del tutto, ma né la campagna né la città potevano sopravvivere senza il commercio” (Ivanov 2023: 13).

L’interruzione del regolare scambio commerciale e dei trasporti, causata dalla riorganizzazione della flotta, mise in evidenza la contraddizione fondamentale del periodo: mentre il controllo statale veniva progressivamente imposto, l’economia nazionale versava in gravi difficoltà, peggiorate successivamente dalle conseguenze della guerra: “Nell’estate del 1918, una rivoluzione mortale si sollevò lentamente dalle rovine della sua vita precedente, come un mostro orribile che emergeva dalle macerie di un naufragio” (Ivanov 2023: 7). Le risorse, i mezzi di trasporto e l’accesso ai mercati furono riorganizzati, mentre, parallelamente, vennero progressivamente annullati i beni e lo status di molte persone, travolte da un cambiamento che distrusse ciò che sembrava eterno. Le solide strutture sociali e le certezze economiche crollarono in un istante, lasciando al loro posto un vuoto colmo di incertezze e paure. Se alcuni si trovarono di fronte a un punto di non ritorno, incapaci di adattarsi alla nuova realtà, altri approfittarono degli errori altrui, cogliendo ogni opportunità offerta dalla situazione. Si agiva con un opportunismo che sfiorava il cinismo, sfruttando la guerra come una possibilità per perseguire i propri fini personali, trasformando quella che doveva essere una lotta ideologica tra bianchi e rossi in una corsa spietata per il potere e il profitto:

“«La Shell le sta facendo un’offerta, signora Stakcheeva, disse Golding con un sorriso sottile. Dopo tutte le denazionalizzazioni a Samara e Baku, i nostri commissari e i rappresentanti delle borse valori valuteranno il nuovo valore della società Po Volga in base alle navi rimaste, e quindi concorderemo di scambiare la sua partecipazione nella società con una pari partecipazione nella Russkij Groznyj standart. Perderà molto, ma per colpa dei bolscevichi, non nostra. Tuttavia, in seguito, le sue proprietà e i suoi dividendi saranno protetti dalla piena forza dell’Impero britannico […]»

«Cosa significa tutto questo?», Ksenia Alekseevna era confusa.

«Stiamo vendendo la nostra compagnia di navigazione a ‘Shell’» spiegò Innokentij.

«È giusto?», chiese ingenuamente Ksenia Alekseevna.

«I bolscevichi hanno ucciso la nostra attività, mamma. La Shell ci sta facendo un favore. Ora non saremo più una compagnia di navigazione russa, ma produttori di petrolio britannici. […]

Gentile Ksenija Alekseevna, la società Po Volga appartiene già formalmente alla Shell. Nel 1912, la Shell acquisì la società Mazut, e due anni dopo, suo defunto marito unì la sua compagnia con Mazut. Sarebbe estremamente vantaggioso per voi scambiare le vostre azioni della Po Volga con quelle della Standard. La Standard probabilmente recupererà presto i suoi profitti […], mentre la vostra compagnia di navigazione si riprenderà solo dopo che i bolscevichi saranno stati scacciati dal Volga».” (Ivanov 2023: 97)

Così, il conflitto che avrebbe dovuto plasmare il futuro della nazione si trasformò, in realtà, in un terreno fertile per numerosi interessi economici, politici e geopolitici. Un esempio emblematico di questa dinamica fu quello della Branobel, una delle più grandi compagnie petrolifere dell’epoca. Fondata dai fratelli Nobel tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, la Branobel si affermò come uno dei colossi industriali che trasformarono l’economia russa, proiettando il paese sulla scena internazionale. Le sue raffinerie e i pozzi a Baku, Chazar e Groznyj non erano solo una risorsa economica vitale, ma anche un punto strategico di potere. Tuttavia, con il crollo dell’impero zarista e l’ascesa dei bolscevichi, la compagnia dovette affrontare non solo l’ostilità delle nuove autorità sovietiche, determinati a nazionalizzare tutte le risorse e a rompere il potere economico delle vecchie élite, ma anche la concorrenza di potenze straniere desiderose di controllare il mercato petrolifero. La guerra civile, con la sua discontinuità, alleanze mutevoli e battaglie incessanti, rendeva la situazione ancora più incerta. In tale contesto, il petrolio diventava non solo una risorsa, ma un obiettivo strategico per tutti gli schieramenti in lotta. Alla fine, la Branobel fu nazionalizzata, sancendo la fine di un’era per l’industria privata del petrolio in Russia e segnando l’inizio di un controllo statale che avrebbe trasformato per sempre il settore energetico del paese.

Gli impianti della Società per Azioni per la Produzione di Petrolio dei Fratelli Nobel, nota come Branobel, situati a Baku. La fotografia, risalente al 1903, fa parte della collezione del chimico svedese Albert Werner Cronquist.

 

Mentre le grandi potenze si scagliavano in una lotta feroce per difendere e ampliare i propri benefici economici, politici e geopolitici, la popolazione comune si trovava ad affrontare una fame implacabile che si abbatté lentamente ma inesorabilmente, raggiungendo il suo culmine tra il 1921 e il 1923 e provocando 5 milioni di vittime. La situazione peggiorava di giorno in giorno: le epidemie si diffondevano, le terre erano devastate dalla guerra civile, dalla siccità e da fattori climatici avversi, mentre le tasse e altre difficoltà economiche impedivano la produzione di risorse sufficienti per sfamare la popolazione. In questo contesto, la mancanza di cibo divenne una questione di sopravvivenza non solo per le famiglie, ma per l’intera nazione, minacciando la stabilità dello Stato. Nel 1918, Lenin ordinò l’invio di marinai, soldati e operai rivoluzionari sulle rive del Volga e del Kama, con l’obiettivo di sottrarre con la forza il grano ai contadini. Senza quel grano, la macchina da guerra sovietica non sarebbe riuscita a proseguire, né l’industria avrebbe potuto sopravvivere, né tantomeno le grandi città, che dipendevano dai rifornimenti alimentari per non collassare. La requisizione forzata che, alla fine, si trasformò in una violenza incontrollata: “Fu allora che a Gan’ka venne un’idea: utilizzare pontoni, rimorchiatori e piroscafi […] per creare una flottiglia della Čeka. Una flottiglia […] con sbarchi, mitragliatrici e cannoni, sarebbe in grado di raccogliere tutto il pane necessario per un intero esercito.” (Ivanov 2023: 72)

Così, la lotta per la sopravvivenza – da un lato contro la fame, dall’altro per difendere gli interessi – divenne il contesto in cui si consumava la guerra. Una guerra in cui Ivanov non traccia confini netti tra giusto e sbagliato, evitando di idealizzare o demonizzare le forze in gioco. Al contrario, l’autore narra una realtà complessa, sfaccettata e ambigua, dove le motivazioni individuali sono molteplici e sfumate. I personaggi, che si trovano a combattere sia dalla parte dei rossi che dei bianchi, non sono figure monolitiche, ma uomini e donne spinti da ragioni diverse, spesso in conflitto tra loro, e talvolta persino discordanti.

Fin dalle prime pagine, i rossi vengono rappresentati come bestie, un’immagine che suggerisce un parallelismo con l’opera di Marija Stepanova Vojna zverej i životnych (“La guerra delle bestie e degli animali”, 2015): creature brutali, prive di scrupoli, che agiscono con una violenza irrazionale e infrenabile, spinti dal fuoco della guerra. Sebbene questa violenza possa sembrare cieca e senza motivo, trova una spiegazione – seppur non una giustificazione – nel contesto sociale da cui scaturisce: il proletariato, una classe lavoratrice che finalmente ottenne l’opportunità di prendere il potere e realizzare i propri sogni di libertà e giustizia, dopo aver a lungo vissuto nell’oppressione. Non erano intellettuali né scienziati, ma uomini e donne comuni, spesso privi di istruzione, spinti da un’ideologia che consideravano l’unica via percorribile per cambiare un ordine sociale che per loro era sbagliato. Le azioni urgenti e frenetiche non facevano altro che confermare la pressione di un’epoca che sembrava sull’orlo di esaurirsi, come se temessero di essere ricondotti di nuovo a una condizione di subordinazione e sfruttamento, permeata dal sudore, dalla povertà e dalla vergogna del passato. Questo sentimento di urgenza si trasformò, alla fine, in una ferocia devastante e inarrestabile, che travolgeva tutto e tutti. Nel caso di Gan’ka, personaggio ispirato a Gavril Mjasnikov, operaio e rivoluzionario, questa brutalità divenne l’unico strumento per affermarsi e rivendicare il potere, il diritto di determinare non solo il destino di Michail, membro della famiglia reale zarista, ma quello dell’intera società:

Neanche Gan’ka riusciva a capire perché desiderasse tanto uccidere il Grande Zar. Non provava disprezzo per Michail, né alcun odio di classe sociale. Probabilmente, era perché Gan’ka aveva sempre desiderato essere speciale.

Ma (ciò) era difficile. Alle ragazze non piaceva: sembrava uno zingaro e non sapeva suonare l’armonica. Alla scuola di artigianato studiava con impegno e allegria, ma essendo sciattone, non era ben visto. Gan’ka entrò nella fabbrica di fucili d’acciaio come fabbro nell’officina dei proiettili, dove i capisquadra erano considerati figure speciali […]. Tuttavia, Gan’ka non ebbe mai abbastanza pazienza per svolgere un lavoro accurato e meticoloso

In fabbrica incontrò dei bolscevichi e capì finalmente come diventare speciale senza troppa fatica. I bolscevichi stavano preparando una rivoluzione mondiale, organizzando scioperi, accumulando armi, stampando proclami e venivano imprigionati. Ma la prigione non spaventava Gan’ka […].

Al momento della rivoluzione, era già considerato un combattente esperto del partito. […] lo trasferirono al Comitato esecutivo centrale panrusso, ai vertici del potere sovietico. Tuttavia, durante l’affollato congresso nel Palazzo di Tauride, Gan’ka si rese conto che, anche in quel contesto, era solo uno dei tanti. E per lui, l’uguaglianza era sempre stata qualcosa di controcorrente. Come farsi notare in mezzo alla grigia folla di deputati […]? La fervida immaginazione di Gan’ka trovò subito una soluzione. A Perm’, in esilio, il Grande Zar Michail moriva di noia. Bisognava assassinarlo.” (Ivanov 2023: 28-29)

Tuttavia, anche i bianchi non si presentarono come nobili difensori della patria. Dietro il loro ruolo di oppositori della rivoluzione, si celavano individui che, ben lontani dall’incarnare i valori dell’onore e della tradizione, si rivelarono violenti, opportunisti e pronti a sfruttare la confusione del momento per consolidare il proprio potere. Sebbene la loro lotta sembrasse a prima vista orientata a preservare l’ordine e la stabilità, essa si rivelò essere altrettanto corrotta e spietata come quella dei rossi. Così, la guerra, in tutte le sue manifestazioni, si presentava come un processo di deumanizzazione universale, dove entrambi gli schieramenti erano intrappolati in un ciclo di violenza e distruzione che trascese le ragioni ideologiche e morali.

La violenza, la brutalità e la distruzione divennero elementi costanti e inevitabili; tuttavia, come osservato da Ivanov: “[…] le persone spogliate finiscono per essere semplicemente persone: né bianche né rosse” (Ivanov 2023: 28-29). Questa riflessione mette in evidenza la disillusione che accompagna ogni conflitto, dove le divisioni ideologiche e politiche che sembrano giustificare la lotta si dissolvono di fronte alla sofferenza. Alla fine, ogni soldato, privato della propria identità politica e dei propri valori, si riduce a un essere umano semplice e vulnerabile.

Eppure, la guerra civile, come ogni conflitto armato, non lasciava agli individui la possibilità di rimanere neutrali o di sfuggire al proprio destino; al contrario, li obbligava a schierarsi. Sebbene la guerra fosse presentata come una causa patriottica o una lotta per nobili ideali, la realtà per molti era ben diversi. Alcuni ambivano alla gloria, a rapidi avanzamenti di carriera e a riconoscimenti sociali, mentre altri vedevano nel conflitto un’opportunità per soddisfare desideri più oscuri, come il saccheggio e la violenza impuniti. La maggior parte dei soldati, tuttavia, non aveva alcuna possibilità di decidere: erano trascinati in un conflitto che non avevano scelto, imposti a una lotta che non avevano voluto, privati della loro autonomia. Reclutati spesso contro la propria volontà, assegnati a un comando e inviati al fronte – a bordo di navi che li trasportavano lontano dalle loro terre – erano costretti a obbedire a ordini che non ammettevano né esitazioni né alternative. Le navi, un tempo simboli di connessione, di movimento e di scambio tra popoli e terre lontane, si trasformarono così in relitti, diventando vere e proprie metafore di un processo di disumanizzazione. Non erano più semplici strumenti di commercio o trasporto, ma mezzi ridotti alla loro funzione più cruda e meccanica, privati della loro anima originaria. La guerra ridusse gli uomini allo stesso modo, li spogliò della loro individualità, li costrinse a vestirsi di armature che li annullavano, trasformandoli in semplici pedine al servizio di narrazioni collettive e di poteri ciechi e inumani. Il rimorchiatore “Lёvšino”, comandato dal capitano Ivan Nerechtin, diventa il simbolo di questa trasformazione: un mezzo un tempo pacifico, ridotto ora a strumento di morte:

Le sovrastrutture furono blindate a galla. Ivan Diodorovič osservò il suo rimorchiatore trasformarsi in un relitto grigio e arrugginito, come se fosse scolpito nella pietra; sembrava che il ‘Lёvšino’ fosse stato murato vivo. Gli archi di traino a poppa furono tagliati, i ponti rimossi temporaneamente per rinforzare la struttura con travi aggiuntive sotto i longheroni. I ponti furono quindi riposizionati e vennero costruite piattaforme girevoli per i due cannoni, a poppa e a prua. Le carrozze e i semitorri smussati furono montati sulle piattaforme. Le barbette delle mitragliatrici furono installate davanti alla tuga e ai lati dei passaruota. Il pacifico rimorchiatore ‘Lёvšin’ si trasformò in un piroscafo corazzato.” (Ivanov 2023: 142)

Nerechtin osservava la trasformazione in silenzio, senza proferire parola. Ogni gesto, ogni movimento della nave sembrava parlare per lui, come un grido muto di un’anima piegata dal peso di una sconfitta che non era solo fisica, ma che si insinuava nel profondo del suo essere. Un’implosione interiore causata da una guerra che non risparmiava nessuno, che non faceva distinzioni tra vittima e carnefice. Non si trattava solo della devastazione dei corpi, ma di un conflitto che sbriciolava ogni cosa, dagli affetti più intimi ai legami familiari, mettendo figlio contro padre, fratello contro fratello, amico contro amico: “Ogni persona è un po’ bianca e un po’ rossa nel cuore, e la guerra civile lacera senza pietà l’anima. Se non lasci che la guerra ti faccia a pezzi e ti distrugga, allora ti ritrovi contro il mondo intero. E così, devi combattere da solo” (Ivanov 2023: 44). La violenza non si esauriva sul campo di battaglia, ma si infilava nei cuori delle persone, dissolvendo ogni relazione che un tempo aveva avuto un senso. Valori, gesti e speranze venivano distrutti, lasciando al loro posto solo macerie, rovine di un mondo che non avrebbe mai più potuto essere ricostruito:

Il piroscafo corazzato ‘Caricyn’ giaceva già sul fondale costiero. La poppa era affondata fino alla torretta dei cannoni, da cui usciva vapore attraverso il tubo inclinato. Le strette fessure di osservazione della sovrastruttura fumavano silenziosamente: l’equipaggio era riuscito a domare l’incendio. I marinai, ricoperti di fuliggine, […] si ammassavano sul tetto, vicino ai deflettori, e sul ponte, intorno alla timoneria, aspettavano il soccorso che li avrebbe portati via.” (Ivanov 2023: 346)

Ogni decisione, nel contesto della guerra, non era più guidata da un’aspirazione al bene, ma si trasformava in una lotta incessante per il male, dove i principi di giustizia e verità, un tempo saldi e indiscussi, venivano cancellati dalla violenza inarrestabile del conflitto. Un conflitto che non solo devastava le vite, ma alterava profondamente la percezione della realtà, imponendo una visione distorta e alienante, in cui l’unica via di salvezza sembrava consistere nel cedere senza speranza alla logica della distruzione totale:

Il proiettile colpì il Vanja sul bordo ed esplose da qualche parte nella stiva, facendo saltare il coperchio del portello. Dall’apertura buia uscì del fumo, seguito da fiamme: l’olio combustibile stava bruciando. Mamedov udì il rumore dell’acqua che penetrava dalla fessura. La poppa era avvolta da un vapore torbido e dalla nebbia nera del carburante in fiamme. Eppure, il Vanja continuava ad avanzare in un giro infinito e disorientato, come se fosse stato colpito da una commozione cerebrale. Mamedov capì che il piroscafo aveva perso il controllo. Questo significava che il Vanja stava morendo.” (Ivanov 2023: 395)

Il piroscafo stava morendo, come un essere umano, frantumato e smarrito, emettendo gli ultimi respiri sotto il peso di un conflitto che lo aveva consumato. Un tempo simbolo di forza e determinazione, ora giaceva agonizzante, distrutto e destinato a essere dimenticato. Le acque che un tempo solcava con fiducia lo inghiottivano lentamente. Le onde, solite a portare speranza e progresso, ora trascinavano via ogni ricordo di un passato migliore, mentre il silenzio che seguiva il suo affondamento risuonava più forte di qualsiasi esplosione, amplificando l’irrevocabilità di una fine:

La guerra, che da lontano poteva sembrare un conflitto tra idee e forze sociali, si rivelava, da vicino, un caos brutale di colpi spietati che spezzavano, mutilavano e sfiguravano tutto ciò che non aveva nulla a che fare con quelle idee e quelle forze. Era come un gigante ubriaco, ormai smarrito, incapace di ricordare il motivo per cui si era ubriacato.” (Ivanov 2023: 627)

Il piroscafo, ridotto a un pezzo di ferro arrugginito, incarna non solo la fine di un’epoca, ma l’ineluttabilità di un evento tragico che si ripete in una realtà invariabile nel tempo: una condizione universale e immutabile. Una condizione che trascende ogni confine geografico, linguistico e culturale, fondendo tutti i conflitti in un’unica, amara verità fatta di paradossi, ipocrisie e falsità. Le vite spezzate dalla guerra si scontrano con l’indifferenza di quei fortunati che osservano il dramma come se fosse uno spettacolo teatrale, comodamente seduti su palchi dorati e lontani, concentrati esclusivamente sui propri interessi, come già evidenziato nei Racconti di Sebastopoli (1855) di Lev Tolstoj. Così come Tolstoj, anche Ivanov spoglia la guerra di ogni illusione di eroismo, patriottismo o idealizzazione, lasciando emergere una narrazione cruda e spietata, dove non esistono né vinti né vincitori, solo una lenta e silenziosa disillusione, in cui la sofferenza e la morte non trovano alcuna giustificazione, se non la conferma della futilità del conflitto stesso.

 

 

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Apparato iconografico:

Immagine 1: https://www.litres.ru/book/aleksey-ivanov/broneparohody-69468499/

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Immagine 3: https://histrf.ru/read/articles/velikiy-golod-1921-1923-gg

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