“Sappiamo soffrire e raccontare come soffriamo”: il dolore femminile in “La guerra non ha un volto di donna”.

 

Eleonora Smania

 

Abstract

“We Can Suffer and We Know How to Tell It”: Female Pain in “The Unwomanly Face of War”

One of the most relevant figures in the international contemporary literary field is Svetlana Aleksievich. Belarusian journalist and writer, she is known for her ployphonic narration in her, such as Chernobyl’skaya molitva (“Chernobyl’s Prayer”, 1997), and for describing the hardships and sufferings people experienced during the Soviet and Postsoviet era. Her harsh critique towards all past and present forms of regime and her aim to provide the narration of historical facts devoid of any influence from the authorities made her a controversial character for the Soviet censorship and the Lukashenko’s Belarusian government. Aleksievich’s first literary publication, U voyne ne zhenskoe litso (“The Unwomanly Face of War: an Oral History in World War, 1985) is a unique depiction of the Second World War, as all the testimonies reported by the journalist are from women who took part in the conflict. The importance of this work not only resides the authentic portrait of the misery caused by the conflict, but also on introducing the main features of Aleksievich’s poetics. This article focuses on U voyne ne zhenskoe litso by analysing some specific excerpts in order to understand what makes it so unique and groundbreaking.


Se si dovessero elencare i nomi di coloro che hanno contribuito in maniera rilevante ad arricchire il panorama letterario contemporaneo internazionale attraverso le proprie pubblicazioni, non si potrebbe non includere il nome di Svetlana Aleksievič. Nata nel 1948 in Ucraina da padre bielorusso e madre ucraina, Aleksievič è una giornalista, scrittrice e cronista bielorussa vincitrice nel 2015 del premio Nobel per Letteratura e conosciuta per aver raccontato i momenti più drammatici della storia sovietica e russa contemporanea attraverso “i suoi scritti polifonici, monumento alla sofferenza e al coraggio dei nostri tempi”. Oltre alle sue pubblicazioni giornalistiche, di grande importanza è il ciclo di prosa documentale da lei chiamata Golosa Utopii (“Le voci dell’Utopia”), di cui fanno parte U vojne ne ženskoe lico (“La guerra non ha un volto di donna, l’epopea delle donne sovietiche nella Seconda guerra mondiale”, 1985), Poslednie svideteli (“Gli ultimi testimoni”, 1985), Cinkovie malčiki (“Ragazzi di zinco”, 1989), Začarovannye cmert’ju (“Incantati dalla morte. Romanzo documentario”, 1993), Černobyl’skaja molitva. Chronika buduščego (“Preghiera per Chernobyl’. Cronaca del futuro”, 1997) e Vremja sekond-hėnd (“Tempo di seconda mano”, 2013). Nel 2022 in Italia il ciclo è stato diviso a livello tematico, edito e pubblicato in lingua italiana dalla casa editrice Bompiani nei due volumi Opere. Guerre e Opere. Tornare al cuore dell’uomo.

L’aspra critica nei confronti dei regimi e la determinazione nell’offrire una narrazione libera da qualsiasi rielaborazione, hanno da sempre reso la giornalista un personaggio scomodo e controverso sia prima che dopo il crollo dell’Unione Sovietica. La sua forte opposizione al regime dittatoriale instaurato da Lukašenko le è infatti valsa la messa al bando dei suoi libri, le accuse di essere un agente straniero al servizio della CIA e il conseguente allontanamento dalla Bielorussia. Nonostante ciò, la volontà di raccontare la natura umana nella maniera più autentica e veritiera possibile non si è mai affievolito. Definita “donna-orecchio” durante il conferimento del premio Nobel, la cronista ha da sempre percepito la necessità di mettere su carta i racconti e le voci della gente comune, rifiutando qualsiasi manipolazione della narrazione da parte di qualsiasi fattore esterno – in particolare gli intenti propagandistici dei regimi, interessati a diffondere i lati della storia a loro più congeniali – che andasse a minarne la purezza e la genuinità.

 

Foto ritraente Svetlana Aleksievič

 

Un primo esempio concreto di tale necessità è l’opera La guerra non ha un volto di donna, edita e pubblicata in italiano nel 2015 con la traduzione di Sergio Rapetti. In occasione della sua prima pubblicazione letteraria in prosa, la scrittrice ha raccolto le testimonianze di alcune donne sovietiche che hanno vissuto in prima persona la Seconda guerra mondiale. Il titolo menzionato rappresenta per diversi motivi un punto di svolta fondamentale nel percorso letterario di Aleksievič: oltre a costituire il punto di partenza del ciclo letterario Golosa Utopii e a narrare le vicende del secondo conflitto mondiale attraverso una prospettiva diversa da quella narrata, La guerra non ha volto di donna racchiude le principali caratteristiche della visione artistica di Aleksievič, che si riscontreranno nelle pubblicazioni a seguire. Lo scopo principale dell’articolo sarà quello di analizzare come la sua prima opera sia stata fondamentale nel delineare i principi essenziali alla base della sua poetica.

Il primo capitolo del ciclo Golosi Utopii viene definito dalla scrittrice stessa come roman golosov (“romanzo delle voci”). Il termine scelto non evidenzia solo la natura corale della pubblicazione, ma ne suggerisce in maniera implicita anche la struttura compositiva originale e al di fuori dei canoni della classica prosa narrativa; per questo motivo risulta erroneo considerare La guerra non ha un volto di donna un romanzo. Per comprendere l’opera di Aleksievič è importante contestualizzare l’evoluzione del genere esplorato dall’autrice. Nel suo articolo “La prosa documentale di Svetlana Aleksievič, tra reportage e memoir collettivo”, Iryna Shylnikova introduce una riflessione sul concetto di “prosa documentale” e mostra come nella storia della letteratura russa l’evoluzione del genere si sia basato sia sulla contrapposizione che sulla interrelazione tra fiction e realtà. Shylnikova sostiene che prima del Novecento con il termine dokumental’naja proza (“prosa documentale”) ci si riferiva alle memorie, agli appunti e diari di autori la cui produzione autobiografica veniva considerata rilevante non solo a livello contenutistico, ma “anche per l’intrinseco valore artistico” (Shylnikova 2023: 2). Fu durante il XX secolo, epoca di grandi sconvolgimenti sociali, culturali e storici, che questo genere letterario fu soggetto a una costante evoluzione. Nella produzione letteraria simbolista – i cui principali rappresentanti erano conosciuti per la loro necessità di sperimentare e la forte tendenza di rottora dalla tradizione letteraria precedente –, la vita biografica stessa costituiva un vero e proprio atto creativo in sé e fonte creatrice di fatti letterari; il principio della žiznetvorčestvo non si basava sulla contrapposizione del reale con il fittizio, tutt’altro. La vita era talmente straordinaria e al di fuori degli schemi al punto da essere riconosciuta come creazione artistica spontanea. Tuttavia, con le due guerre mondiali e l’ascesa dei soviet – quando la letteratura di regime divenne strumento propagandistico di affermazione (attenzione, non di descrizione o narrazione) della realtà instauratasi a seguito della Rivoluzione d’Ottobre – gli scrittori e scrittrici non affiliati al regime iniziarono sempre più a sfruttare il testo letterario per esprimere e testimoniare gli orrori, le sofferenze e le repressioni subite, dando maggiore centralità all’elemento documentale e al dato reale. La sperimentazione e la presenza dell’autore iniziavano a lasciare gradualmente spazio alla prospettiva della gente comune coinvolta nella stesura della pubblicazione. Questa nuova tendenza portò all’evoluzione della dokumental’naja proza nella literatura fakta, la letteratura del fatto. A partire dagli anni Settanta, autori come Ales’ Adamovič, Janka Bryl’ e Vladimir Kolesnik focalizzarono l’attenzione sulle testimonianze del popolo che aveva vissuto in prima persona i drammatici eventi legati ai due grandi conflitti mondiali del Novecento (Shylnikova 2023: 4), una narrazione in contrapposizione con quella dominante imposta dall’alto. Tale prosa, nella quale la parola viva veniva trasmessa tramite stralci di interviste, conversazioni, monologhi e aneddoti, è stata negli ultimi anni persino considerata appartenente a un sub-genere della literatura fakta, individuato attraverso diverse denominazioni, come il dokumental’nyj monolog (“monologo documentale”), la svidetel’skaja literatura (“letteratura testimoniale”) oppure con la denominazione di oral’naja istorija (“storia orale”) (Shylnikova 2023: 5). Sarà in seguito Aleksievič che, ispirata dalle opere di Adamovič e Bryl’, assimilerà e rielaborerà i principi alla base della literatura fakta nella propria produzione attraverso la propria prospettiva.

Un elemento comune in tutti i romanzi appartenenti al ciclo è infatti la commistione tra la struttura del romanzo e quella del reportage, tra l’aspetto letterario e il dato documentale e – soprattutto – tra la narrazione dell’autrice con quella delle donne coinvolte.

Attraverso la sua scrittura efficace e brillante, le riflessioni dell’autrice s’intrecciano con le voci intervistate; il letterario e il reale sono entità che coesistono una in funzione dell’altra, in quanto la bellezza estetica e contenutistica dell’elemento letterario scaturisce dalla semplicità del fatto reale riportato. Più la persona è genuina e schietta, maggiore è la sua forza espressiva e la scrittrice è positivamente stimolata.

Ho avuto il modo di constatare che le persone più sincere sono quelle semplici: infermiere, cuoche, lavandaie… Per spiegarlo in modo più preciso: le parole per raccontare le trovano in sé stesse e non in giornali o nel libro che hanno letto – non presso altri. Le traggono esclusivamente dalle proprie sofferenze e vicissitudini.” (Aleksievič 2015: 11)

È proprio tale forza espressiva delle umili donne che affascina la giornalista, la quale ascolta – senza mai esprimere alcun giudizio valutativo, non essendo quello l’obiettivo – e riflette. Questa forza espressiva, che dona anche maggiore efficacia alla narrazione polifonica, è dovuta anche al forte desiderio di condividere e comunicare. Tale desiderio è ben radicato nei valori comunitari con i quali le donne sovietiche sono cresciute, che fossero russe, ucraine, bielorusse, tagike, ossia “gente comunitaria, propensa a condividere sia la felicità che le lacrime” (Aleksievič 2015: 12), che ha imparato a soffrire e a raccontare la propria sofferenza. Il dolore è parte integrante della vita, semplifica e riduce tutto all’osso. Se si soffre, si è in grado di vedere l’essenza degli eventi e di raccontare senza basarsi su complesse strutture mentali o ideologie raffazzonate.

Osservando dalla prospettiva femminile gli eventi della Seconda guerra mondiale, il risultato è una visione del fenomeno storico più sfaccettata e complessa rispetto alla narrazione ufficiale sovietica e quella di stampo patriarcale viene messa in secondo piano o deliberatamente ignorata.

La guerra raccontata dalle donne non è costellata di battaglie epiche, strategie vincenti o individui straordinari. Non appare alcuna celebrazione delle soldatesse e tiratrici che si distinsero durante il conflitto e nemmeno inneggi alla forza dell’invincibile armata sovietica pronta a morire per difendere la patria dagli invasori nazisti; non si parla di “quello che è successo davanti a Mosca o davanti a Stalingrado, la descrizione delle operazioni belliche, i nomi dimenticati di quote e alture conquistate” (Aleksievič 2015: 63). Il ritratto che ne emerge è profondamente diverso. A tal proposito, l’autrice stessa precisa nelle pagine introduttive al romanzo che cosa vuole raccontare e da cosa invece vuole assolutamente prendere distanze. Le primissime pagine del libro si aprono infatti con una moltitudine di dettagli storici e dati statistici snocciolati inerenti alla partecipazione delle donne alla guerra nel corso della Storia, tratti da una conversazione con uno storico non specificato. Nel breve estratto riportato, si può notare una implicita associazione tra il coinvolgimento attivo della popolazione femminile negli eventi bellici del Novecento con l’affermazione dell’indipendenza femminile. La popolazione femminile riesce a entrare e a dominare un campo prettamente dominato dalla controparte maschile.

Nell’esercito sovietico quasi un milione di donne ha prestato servizio nelle varie specialità, comprese quelle più ‘maschili’. È anche emerso un problema linguistico: per termini come ‘carrista’, ‘soldato di fanteria’, ‘mitragliere’ non esisteva ancora il corrispondente genere femminile, perché si trattava di attività che mai prima di allora avevano coinvoltole donne. Così le parole femminili erano nate allora, in guerra…” (Aleksievič 2015: 6)

L’approccio asettico e puramente storiografico riportato come introduzione al romanzo non considera le implicazioni e le conseguenze dei fenomeni descritti sulla quotidianità, trasmettendo una visione riduttiva della Storia. Ci furono molte donne che divennero tiratrici scelte e che si arruolarono nei ranghi dell’esercito sovietico come aviatrici, carriste e soldatesse; tuttavia, nei racconti e negli aneddoti raccolti dalla cronista bielorussa, la guerra non viene mai descritta come un momento di liberazione e di riscatto da una società profondamente patriarcale. Non viene narrata solo la guerra vissuta in prima linea, ma anche quella vissuta dalle infermiere, dattilografe, radiotelegrafiste, cuciniere e da chi attendeva i mariti e i figli a casa e tentava di sopravvivere ai morsi della fame e alla distruzione dilagante. Scopo principale di Aleksievič è seguire le tracce “della vita interiore”, comprendere che cosa le sue intervistate hanno veramente visto e compreso in quegli anni, che cosa hanno scoperto della vita e della morte, dare finalmente spazio alle loro testimonianze.

Voglio parlare! Parlare! Vuotare il sacco! Finalmente vogliono ascoltare anche noi. Abbiamo taciuto per così tanti anni, perfino tra le pareti di casa. Per decenni. Il primo anno dopo essere tornata dalla guerra parlavo e parlavo. Ma nessuno mi ascoltava. Così ho smesso… Hai fatto bene a venire. L’ho sempre aspettato… prima o poi, ne ero certa… qualcuno doveva venire.” (Aleksievič 2015: 65)

Con lo scoppiare della Grande guerra patriottica, si era creata una dimensione alternativa, una “quotidianità altra” dove il terrore, l’orrore e la crudeltà umana diventavano nuove costanti. Il desiderio di difendere la propria casa e le persone care, alimentata dalla pervasiva propaganda che invitava i cittadini e le cittadine sovietiche a prestare servizio al fronte e a contribuire alla causa, si scontrava con i brutali scenari di morte e disperazione. Come racconta Elena Pavlova Jakolevleva, ai tempi infermiera, c’era chi – come lei – non riusciva a sopportale tale vista:

Era la fine del 1941… Non solo gli ospedali, ma anche le scuole e i circoli ricreativi erano stracolmi di feriti. In febbraio ho lasciato l’ospedale, anzi sono scappata, ho disertato, è questa la parola. Senza documenti, senza niente, ho preso il volo su un convoglio sanitario. Ho lasciato un biglietto: ‘Oggi sono di turno ma non aspettatemi. Parto per il fronte.’ E nient’altro…” (Aleksievič 2015: 71)

Un elemento onnipresente nei racconti riportati è il dolore esperito. La vita è indissolubilmente legata al dolore ed è proprio durante la guerra che l’essere umano si mette completamente a nudo, in quanto le sofferenze e gli orrori vengono amplificati maggiormente. In questa nuova quotidianità, luogo di frontiera tra l’umano e l’inumano, gli uomini e le donne convivono con il male, abituandosi gradualmente alla sua presenza. Marija Ivanovna Morozova, ai tempi tiratrice e caporale, racconta di quando uccise per la prima volta un uomo durante una missione e di come dovette scendere a patti con la nuova realtà che si era posta dinnanzi a lei:

E dentro di me qualcosa si opponeva. Mi impediva di agire. Ma poi ho ripreso il controllo e ho tirato il grilletto… Lui ha agitato le braccia nell’aria ed è caduto. Forse morto o forse ferito, non saprei. Ma subito dopo sono stata presa da un tremito ancora più violento e un terrore non più indefinito: quello di aver ucciso. Io, ho potuto uccidere un essere umano?! Eppure dovevo abituarmi a quell’idea. Sì… in poche parole, fare l’abitudine all’orrore!” (Aleksievič 2015: 51)

La nuova quotidianità porta gli esseri umani a desensibilizzarsi al male, la possibilità di togliere la vita a un altro uomo diventa un’azione automatica, quasi meccanica.

Come si può condurre una vita normale con le persone che si ama quando ci si trova in un mondo dove gli uomini e le donne devono commettere atti atroci per sopravvivere? Questo è il dilemma che sorge nella narrazione delle figlie, sorelle, mogli e madri che s’aggrappano all’affetto e all’amore verso le persone a loro care per riuscire ad andare avanti. C’era chi, come la capopilota aviatrice Antonina Grigor’evna Bondarëva, cercava di barcamenarsi tra gli obblighi militari e i doveri materni verso la figlia a suo carico in seguito alla scomparsa del marito:

La mattina la chiudevo in baracca, le lasciavo una scodella di semolino da mangiare e alle quattro stavo già volando. Rientravo verso sera e la trovavo – che avesse mangiato o no – tutta impastricciata di kaša. Non piangeva neanche più, e mi guardava solo in silenzio. Aveva gli occhi grandi grandi, come quelli di mio marito…” (Aleksievič 2015: 74)

Alcune donne, come Ljubov’ Arkad’evan Čarnaja racconta, arrivavano al punto di abortire nonostante fosse ritenuta una pratica illegale. Non riuscivano a portare avanti la gravidanza, come potevano d’altronde “dare la vita in mezzo alla morte?” (Aleksievič 2015: 85). Altre si ritrovavano a crescere i propri figli in condizioni estreme. Di grande impatto è la testimonianza della staffetta Marija Timofeevna Savickaja-Radjukevič, che racconta della sua tribolata vita da madre partigiana in zone occupate da soldati tedeschi:

Nel 1943 ho messo al mondo mia figlia…[…] Ho partorito in una zona paludosa, su una lettiera di fieno. Asciugavo i suoi pannolini lavati riponendoli in seno, poi glieli rimettevo intiepiditi dal calore del mio corpo. Attorno era tutto un incendio, bruciavano i villaggi insieme alla gente che ci viveva.” (Aleksievič 2015: 89)

Un’altra battaglia interiore che accomunava gran parte delle donne in quegli anni era quella per il mantenere il proprio corpo integro. Nelle numerose interviste condotte, l’elemento corporeo è un punto tematico centrale; bisogna infatti ricordare che moltissime ragazze che si arruolarono erano giovanissime, tra i 16 e i 18 anni. Alcune di loro assistettero per la prima volta all’arrivo del menarca nel campo di battaglia. Tante giovani videro il proprio corpo crescere, cambiare, soccombere alla fatica e venire ferito e mutilato. La guerra aveva avuto ripercussioni concrete nella loro vita, cambiandone irreversibilmente la mente, il corpo e lo spirito.

A diciannove anni sono stata decorata ‘al valore’. A diciannove anni avevo i capelli bianchi. A diciannove anni, durante quella che sarebbe stata per me l’ultima battaglia, ho avuto entrambi i polmoni perforati dalle pallottole, e una è passata tra le due vertebre paralizzandomi le gambe.” (Aleksievič 2015: 80)

La Grande guerra patriottica raccontata in La guerra non ha volto di donna non è fatta di trofei e medaglie, ma di fango, sangue, sporcizia, biancheria intima, pidocchi e carestia. Questo ne è il volto autentico che Svetlana Aleksievič è riuscita a ritrarre attraverso le voci delle sue atipiche protagoniste, ignorando le richieste dei censori di edulcorare ed eliminare gli estratti più scomodi e scabrosi.

Quest’opera corale è, in conclusione, fondamentale in quanto racchiude i punti focali della poetica della scrittrice, primo fra tutti la visione della Storia come un fenomeno corale nel quale l’individuo costituisce una delle molteplici voci che partecipano attivamente, l’importanza del ruolo svolto dal dolore nel rendere efficace la narrazione e la sua interconnessione con la natura femminile.

 

 

Bibliografia:

Iryna Shylnikova, “La prosa documentale di Svetlana Aleksievič, tra reportage e memoir collettivo”, in Polono Italica Fabrica Literarum, Vol. 6, No. 2, 2023, pp. 1-8.

Svetlana Aleksievič, La guerra non ha volto di donna, Bergamo, 2015. Traduzione di Sergio Rapetti.

Sitografia:

“Svetlana Aleksievič, l’umiltà e il raccontare la vita”, intervista di Martina Napolitano all’autrice:

https://www.balcanicaucaso.org/aree/Ucraina/Svetlana-Aleksievic-l-umilta-e-il-raccontare-la-vita-196808 (ultima consultazione 19/11/2024),

Nobel Prize Literature in 2015, sezione dedicata a Svetlana Aleksievič:

https://www.nobelprize.org/prizes/literature/2015/summary/ (ultima consultazione 25/11/2024).

 

Apparato iconografico:

Immagine 1 e immagine di copertina: https://www.internazionale.it/notizie/2015/10/08/svetlana-aleksievic-nobel-letteratura