Olga Ferraro
Abstract
Anna Akhmatova’s “Requiem”: a “Whispered” Perspective of War.
This article discusses Anna Akhmatova’s poem Requiem (1963). The genesis of Requiem begins during the years of the Stalin purges, when her son Lev Gumilev was arrested. Due to the censorship of the time, it was initially memorised by the poet’s friends, who only typed it up twenty years later and published it in samizdat. The poem has a fragmentary structure and alternates prosaic tones with a biblical language: in its lines, Akhmatova honours the memory of the women who, for seventeen months, queued with her in front of the Leningrad Prison, and recalls the suffering that her people endured during the years of Stalinist terror. Even today, this work can be considered a great indictment of the Stalinist Terror and a metaphor for the word that refuses to be silenced, defeating war and censorship through memory and poetry.
Molte sono le vite di autori che sembrano incarnare la storia di una nazione o di un popolo, in particolare quella di Anna Andreevna Gorenko – più conosciuta con lo pseudonimo di Anna Achmatova – pare racchiudere in sé la miriade di cicatrici che la storia ha inflitto al popolo russo. Vissuta a cavallo della rivoluzione, l’esistenza della poetessa fu costellata di amori intensi e grandi successi, ma anche terribili affanni e dolori. Ammirata e amata dai contemporanei per la sua personalità complessa e a tratti difficile, e per il suo grande talento poetico, Anna fu senza dubbio una delle figure cardine della poesia russa del Novecento. Assieme a Osip Mandel’stam e a suo marito Nikolaj Gumilëv, è infatti una delle principali esponenti del movimento acmeista: la sua poesia abbracciò inizialmente una serie di motivi prevalentemente autobiografici e sentimentali, per poi approdare successivamente a temi civili e religiosi di ben più ampio respiro, tra i quali ricorreva spesso il motivo tragico del destino della Russia.
Nel 1921 la sua tragedia personale iniziò a intrecciarsi a quella storica, poiché suo marito Nikolaj Gumilëv venne accusato di operazioni controrivoluzionarie e conseguentemente fucilato. Anna fu allora costretta a subire il giogo della censura, che fino allo scoppio della guerra le impedì di pubblicare. Ella inizierà allora a guadagnarsi da vivere scrivendo e traducendo saggi, anche dall’italiano, e nel 1946 verrà espulsa dall’Unione scrittori per il suo “estetismo e disimpegno politico”, oltre che per la sua vita privata “immorale”, che le costò la famosa definizione di “metà monaca metà sgualdrina”. Verrà riabilitata solo nel 1953, alla morte di Stalin, quando le sue opere ricominciarono a circolare liberamente. La sensazione incombente di una vicina catastrofe e il senso quasi profetico di un incombente destino tragico per la sua nazione sembrano pervadere le raccolte Piantaggine del 1921 e Anno Domini MCMXXI, anticipando ciò che accadde tra il 1934 e il 1938, gli anni delle cosiddette ‘grandi purghe’ Staliniane. Fu allora che la macchina del terrore iniziò a reprimere e perseguitare qualsiasi forma di dissenso interno, servendosi principalmente di tre spietati strumenti: il Gulag, le deportazioni di massa e le fucilazioni sommarie tipiche degli anni del Grande Terrore, un vero e proprio progetto di epurazione dell’intera società sovietica che avrebbe avuto termine solo dopo un anno costellato di numerosissimi arresti, atroci condanne e fucilazioni indiscriminate.
Fu in questo contesto, nel 1938, che Lev, il figlio della Achmatova, colpevole probabilmente solo di portare un cognome controverso, venne arrestato e rinchiuso nelle carceri Kresty a Leningrado. A proposito di quegli anni scriverà la stessa Anna:
“Nei terribili anni della ‘Ežovščina’ ho trascorso diciassette mesi a fare la coda presso le carceri di Leningrado. Una volta un tale mi ‘riconobbe’. Allora una donna dalle labbra bluastre che stava dietro di me, e che, certamente, non aveva mai udito il mio nome, si ridestò dal torpore proprio a noi tutti e mi domandò all’orecchio (lì tutti parlavano sussurrando): «Ma lei può descrivere questo?» E io dissi: «Posso». Allora una specie di sorriso scivolò per quello che una volta era stato il suo volto.” (Achmatova 1993: 12)
È dunque una testimonianza diretta, posta in luogo di introduzione a dare inizio a Rekviem (“Requiem”, 1963). Requiem, ciclo di poesie che segnò in quel periodo doloroso la ripresa dell’attività poetica di Anna Achmatova. Per diciassette mesi, quasi tutte le mattine la poetessa si recava davanti alle carceri, dove le madri dei detenuti attendevano loro notizie o aspettavano di poter consegnare un pacco con generi alimentari. Consegnare il pacco era un modo indiretto per avere ulteriori notizie sullo stato di salute dei propri cari, poiché se veniva respinto, era possibile dedurre che il detenuto aveva perso la vita. Non solo l’introduzione, ma tutto il ciclo di poesie si configura dunque come una lunga testimonianza di un periodo storico, in cui la poesia diventa l’unico balsamo capace di lenire il profondo dolore infertole dagli orrori della guerra. Ed è proprio la laconicità racchiusa nella prima persona di quel “posso” a conferire ulteriore solennità all’intento dell’intero poema: la capacità di Achmatova non solo di vedere, ma anche descrivere tutto l’orrore provato durante le lunghe ore di attesa davanti alle carceri la investe di un ruolo quasi sacrale, conferendole il compito di raccontare non solo la sofferenza delle donne in fila davanti alle carceri, ma il martirio di un popolo intero.
Pur non descrivendo esplicitamente scene di guerra ed essendo ambientato ben lontano dalla distruzione dei campi di battaglia, Requiem incarna perfettamente la devastazione psicologica di chi non partecipa in prima persona al conflitto, ma delle cui conseguenze si fa carico e decide di agire con gli unici strumenti a propria disposizione: nel caso della poetessa, si tratterà proprio della parola, che, sebbene sussurrata e, in alcuni versi, sublimata, sancirà per sempre nella memoria dei posteri il tremendo ricordo di quegli anni. Memoria e sussurro furono dunque elementi indispensabili per la genesi di questo componimento: le poesie composte da Anna Achmatova non vennero difatti pubblicate per molti anni, ma furono memorizzate dalle sue migliori amiche, Nadežda Mandel’štam, Emma Gerštein e Lidija Čukovskaja, che a tal proposito scrisse:
“Anna Andreevna, quando veniva a trovarmi, mi leggeva versi di Requiem in un sussurro, ma a casa sua, alla casa sulla Fontanka, non si risolveva neppure a sussurrare; d’un tratto, nel bel mezzo del discorso, si interrompeva e, indicandomi con gli occhi il soffitto e le pareti, prendeva un pezzetto di carta e una matita; poi diceva ad alta voce qualcosa di molto frivolo: «Volete del te?», oppure: «Come siete abbronzata!», scriveva velocemente fino a riempire il foglietto e me lo porgeva. Io leggevo i versi e, quando li avevo impressi nella memoria, glieli restituivo in silenzio. «L’autunno è venuto così presto» diceva Anna Andreevna ad alta voce e, acceso un fiammifero, bruciava il foglietto in un posacenere.” (Čukovskaja 1990: 20)
Sebbene Achmatova rifiutò di metterlo per iscritto per vent’anni, il poema si diffuse istantaneamente in tutto il Paese non appena poté essere scritto e divenne una delle opere poetiche più famose dell’editoria clandestina degli anni Sessanta: fu infatti grazie al Samizdat e a rudimentali macchine da scrivere che i versi di Requiem riuscirono a sfuggire al Terrore e alla censura del tempo. Nemmeno la prospettiva di essere messi tacere per sempre in un gulag riuscì a silenziare la voce di chi aveva deciso di farne circolare i versi: ciascuno di coloro i quali nell’inverno del 1962-1963 ricopiò a macchina Requiem, aveva infatti rischiato la perquisizione e l’arresto. “Tutti ne eravamo consapevoli. Eppure, tutti continuavamo a battere sui tasti nel silenzio della notte” (Gorbanevskaja 2003: 15), ricorda Natalia Gorbanevskaja, che in una testimonianza diretta racconta:
“In una stupenda giornata di dicembre del 1962 fui partecipe di un avvenimento che ritengo straordinariamente importante: mentre ero in visita da Anna Achmatova, in uno degli appartamenti di Mosca dove veniva ospitata, io, come molti altri a quei tempi, ebbi il permesso di trascrivere il suo Requiem. Quel ciclo di versi (o poema, se vogliamo: sul suo genere letterario esistono opinioni divergenti, ma non è questo il punto) fu scritto negli anni 1935 – 1940, mentre infuriava il ‘grande terrore staliniano’. Per molti anni lo si poté ascoltare solo in una scelta cerchia di amici dell’autrice, che per la maggior parte imparavano i versi a memoria. Né la stessa Achmatova, né il suo numeroso pubblico affidò mai Requiem alla carta. Ma dopo che, nel 1962, “Novyj Mir” ebbe pubblicato Una giornata di Ivan Denisovič, l’Achmatova pensò che forse era giunto il momento anche per Requiem. E in realtà era giunto, ma non nel senso che potesse essere pubblicato in Unione Sovietica, dove dopo il consueto temporaneo disgelo iniziarono presto nuovi geli. Era invece giunto il momento che Requiem uscisse nel samizdat. Porgendomi una penna a sfera, Anna Andreevna disse: – Prima di lei con questa matitina ha copiato Requiem Solženicyn. Ma oltre a me e a Solženicyn, a casa dell’Achmatova, con quella ‘matitina’, Requiem era stato copiato da decine di persone. E naturalmente tutti, o quasi tutti, tornando a casa, si erano messi alla macchina da scrivere. Io stessa l’ho ricopiato, probabilmente una ventina di volte, ogni volta in quattro copie. Diffondendo Requiem tra gli amici e i conoscenti, facevo sempre una semplice richiesta: – Ricopiatelo, e poi restituitemene una copia –. E così ricominciava il giro. In questo modo, solo dalle mie mani, uscirono e si diffusero centinaia di copie di Requiem, ma la sua tiratura complessiva nel Samizdat raggiunse almeno qualche migliaio di copie.” (Gorbanevskaja 2003: 77)
L’opera vide dunque la luce in Occidente per la prima volta nel 1963, ma fu uno dei primi testi a circolare secondo la modalità clandestina del Samizdat e ad alimentare le coscienze del movimento della resistenza e del dissenso.
Dal punto di vista formale, Requiem è formato da una Epigrafe, una Premessa in prosa, una Dedica, una Introduzione, dieci poesie e un Epilogo. Le prime sei poesie e la nona non hanno titolo, mentre la settima è intitolata Prigovor (“La Sentenza”), l’ottava K Smerti (“Alla morte”) e la decima Raspjatie (“La crocifissione”).
Una delle letture più interessanti del poema è quella fatta da Maria Luisa Dodero, che paragona la struttura dell’opera al calvario di Cristo: Requiem condivide infatti del calvario e dei Vangeli il lessico, il tono asciutto e solenne e l’andamento frammentario. La frammentarietà è in un certo senso anche ciò che conferisce unitarietà all’opera, poiché è rintracciabile nella struttura, nell’andamento della narrazione, nell’alternanza tra toni biblici e prosastici e nella dualità dei protagonisti dell’opera. Sono infatti madre e figlio, alternativamente, a percorrere insieme il loro personale calvario inflitto dalla guerra.
Come si seduce da La crocifissione:
Maddalena si disperava e singhiozzava,
Il discepolo prediletto era impietrito,
E là dove in silenzio stava la Madre
Nessuno osava neppure volgere lo sguardo.
(Achmatova 1993:23)
In Requiem lo sguardo della poetessa sul mondo muta. Terminato il tempo della gloria, delle passioni e dei vivaci scambi tra artisti e intellettuali e trascorso quello dell’anonimato e della solitudine, Anna assume i connotati di una moderna Maddalena, voce narrante del suo popolo e al contempo madre fra le madri, figlia tra le figlie, donna tra tante altre anonime e sconosciute, da cui ottiene una sorta di ufficiale investitura per divenire loro cantore. Ciò implica anche il mutamento dell’interlocutore nei suoi componimenti: Achmatova non si rivolge più, come in molte delle precedenti raccolte, alla persona amata, ma rende protagonista del suo canto la sofferenza di chi vive e con lei quotidianamente condivide il calvario di una straziante attesa:
No, non sono io, è qualcun altro che soffre.
Io non potrei esser così, ma quel che è successo
Neri drappi lo ricoprano,
E portino via le lanterne…
(Achmatova 1993: 14)
Anche il dolore, in questo poema, assomiglia a un sussurro: con l’elegante laconicità tipica della sua poesia, nei versi del poema la sofferenza viene resa in maniera scarna e piena di dignità. Requiem si configura dunque come la potenza della parola che non accetta di essere silenziata e di cedere al Terrore di quegli anni ed è la vittoria del sussurro, della resistenza sotterranea, di cui si fa portatrice la tragica e solenne voce di Achmatova, nell’Epilogo finale simile al coro responsoriale o di quello della tragedia greca.
Ho appreso come s’infossino i volti,
Come di sotto alle palpebre s’affacci la paura,
Come dure pagine di scrittura cuneiforme
Il dolore tracci sulle guance,
Come i riccioli da cinerei e neri
D’un tratto si facciano d’argento,
Il sorriso appassisca sulle labbra rassegnate,
E in un ghigno arido tremi lo spavento.
E non per me sola prego,
Ma per tutti coloro che erano con me, laggiù,
Nel freddo spietato, nell’afa di luglio,
Sotto la rossa muraglia abbacinata.
(Achmatova 1993: 24)
Con quest’opera, Anna Achmatova, poeta – come lei stessa amava essere definita – dell’amore, appare trasfigurata in poeta del dolore: è allora che la sua poesia diventa adulta e tocca un’ampiezza di respiro mai raggiunta prima. E sebbene questo poema nasca ben lontano dagli spari, dai campi di battaglia e dal sangue, degli orrori della guerra rimane tuttora una delle testimonianze più evocative e potenti. Requiem è al contempo atto d’accusa e coraggio, testimonianza storica e monumento letterario senza tempo. La voce di Achmatova, sottile come un sospiro, ma forte come una tempesta, davvero costrinse il regime a “scavalcarla, aggirarla e tenere conto della sua presenza” (Romano 1995: 23), riuscendo magistralmente a esprimere ciò che sembrava impossibile raccontare: la sua eredità risuona oggi infatti attuale più che mai e assomiglia non ad un grido, ma ad un lieve sussurro che eternamente sfida il silenzio della repressione.
Bibliografia:
Anna Achmatova, Poema senza eroe e altre poesie. Torino, Einaudi, 1993. Traduzione di Carlo Riccio.
Lidja Čukovskaja, Incontri con Anna Achmatova, 1938-1941. Milano, Adelphi, 1990. Traduzione di Giovanna Moracci.
Elena Dundovich, “L’Achmatova e il terrore Staliniano” in DEP, Deportate, Esuli e Profughe, Rivista telematica di studi sulla memoria femminile. No. 22, maggio 2013, pp. 69-101.
Natalija Gorbanevskaja, “Aria rubata. Il Requiem di Anna Achmatova e le riviste poetiche giovanili degli anni Sessanta”, in Storie di uomini giusti nel gulag, Milano, Mondadori, 2004.
Sergio Romano, Prefazione al testo di Anna Achmatova, Io sono la vostra voce, op. cit., pp. XXII – XXIII., 1995.
Sitografia:
Anselmo Palini, Anna Achmatova, la forza disarmata della poesia contro il terrore Staliniano: https://www.cislscuola.it/uploads/media/AnnaAchmatova.pdf (ultima consultazione: 02/11/2024).
Apparato iconografico:
Immagine 1: https://amnestyunibogg089bologna.wordpress.com/requiem-1935-1940-anna-achmatova/
Immagine 2 e immagine di copertina: https://potlatch.it/poesia/la-poesia-della-settimana/anna-achmatova-strinsi-le-mani-sotto-il-velo-oscuro/