Tutte le “nostre” guerre: la guerra, i suoi protagonisti e le sue vittime visti da Maruša Krese

A cura di Laura Renesto

 

Abstract

All of “our” wars: war, its protagonists and victims seen by Maruša Krese

This paper proposes the translation of some excerpts from the book Vse moje vojne (“All My Wars”, 2009) by Maruša Krese. Poet, writer and journalist, Maruša Krese was born in Ljubljana in 1947. Since 1981 she lived in Germany and since 1990 as a freelance journalist and writer in Berlin, Ljubljana, Sarajevo, and Graz. In 1997 she was awarded the Cross of Merit of the Federal Republic of Germany for her humanitarian efforts during the war in Bosnia. The Italian version of this book still does not exist. The book is an exceptional collage of the author’s own memories, private letters and testimonies from other people who experienced the war. It is not a unified novel. Rather, it consists of multiple segments bound together by the main theme, the war. In the composition of the book they are interspersed with repeated, telegraphic, almost liturgical series of words. This linguistic device occurs in the other parts and seems to render rapid mental associations, instantaneous descriptions of what the author sees. Krese’s style is explicit and without turns of phrase. She does not sweeten what needs to be made clear to everyone.


Poetessa, scrittrice e giornalista, Maruša Krese nasce a Lubiana nel 1947. Dopo aver studiato letteratura, storia dell’arte e psicoterapia in Slovenia, Stati Uniti, Regno Unito e Paesi Bassi, ha lavorato come psicoterapeuta a Lubiana, Londra e Tubinga. Dal 1981 ha vissuto in Germania e dal 1990 come giornalista e scrittrice freelance a Berlino, Lubiana, Sarajevo e Graz. Nel 1997 è stata insignita della Croce al Merito della Repubblica Federale Tedesca per il suo impegno umanitario durante la guerra in Bosnia.

La sua produzione letteraria è per lo più poetica. Le opere in prosa più famose sono la raccolta di racconti brevi autobiografici Vsi moji božiči (“Tutti i miei natali”, 2006, tradotta in italiano da Lucia Gaja Scuteri nel 2021 per Besa Muci) e il romanzo Da me je strah? (“Paura io?”, Goga, 2012, tradotto in italiano da Scuteri nel 2023 per Besa Muci). In questo contributo si è deciso di tradurre degli estratti da Vse moje vojne (“Tutte le mie guerre”, 2009). L’opera, inedita in italiano, è una raccolta straordinaria di testimonianze dell’autrice, dialoghi con testimoni e vittime della guerra, riflessioni e lettere. Non si tratta di un romanzo unitario, bensì di diversi frammenti legati insieme dal tema della guerra e inframezzati da serie di parole ripetute e telegrafiche, quasi liturgiche; questo tipo di linguaggio sembra rendere rapide associazioni mentali, descrizioni istantanee di ciò che l’autrice vede. Krese è esplicita, non ci sono giri di parole. Non edulcora ciò che deve essere reso chiaro a tutti.

La guerra per l’autrice è un fil rouge che percorre tutta la sua vita, a partire dai genitori partigiani fino alle guerre jugoslave vissute in prima persona. I passi qui tradotti sono stati scelti per la loro intensità e si spera di riuscire a creare una finestra sulla vita dell’autrice, oltre a sottolineare – ancora una volta – l’insensatezza e la disumanità della guerra.

 

L’originale dell’estratto tradotto si trova in: Maruša Krese, Vse moje vojne, Ljubljana, Mladinska Knjiga, 2009, pp. 5-6, 16-20, 31, 54-55, 63-64, 72-73, 89. La traduzione e la pubblicazione sono state autorizzate dal figlio dell’autrice, Jakob Weidner.

 

 

[pp. 5-6]

Cipressi. Mare. Guerra. Salgo sugli scogli, raccolgo conchiglie e rosmarino per portare tutto nella città occupata. Guerra. Cipressi. Pace. Senzatetto. Occhi stanchi. La preghiera per una vita nuova. Campane.

Le guerre sono lontane. Molto lontane. Guardo la televisione. Nebbia. Neve. Ghiaccio. Montagne. Impronte sulla neve. Madri che con le ultime forze trasportano i bambini avvolti nei vestiti. La neve arriva alle ginocchia. Un ragazzo che posa la nonna su un giaciglio di ramoscelli e lo trascina sulla neve. Un vecchio che ancora una volta ha dormito sotto un cespuglio ricoperto di neve. Padri umiliati che cadono sotto i proiettili. Soffia il vento. È guerra. Diciamo pure che è distante. Là, in televisione. Nei film. Negli incubi notturni.         

Cipressi. Mare. Guerra. Squillo di tromba. Notte. Lacrime finite.

È guerra. Napoleone. Tolstoj. Guerra e pace. Profughi. In un turbine. Tedeschi e partigiani. Che Dio non voglia che arrivino i russi. I cinesi? Parate militari. Madri di eroi morti. Medaglie splendenti. Tombe di eroi ignoti. Accampamenti. Granate. Fame. Neve. Desiderio di felicità. Guerra. Soldati blu e rossi, neri e bianchi. Carrozzelle. Bandiere. Bambini in lacrime. Insalata che cresce sulle tombe accanto alla zona residenziale. Parco giochi. Spazzatura, gatti e cani. Ratti.  

Cipressi. Mare. Guerra. Persone che aspettano in fila per il pane. Una bomba. Pane. Sirene. Pianto senza lacrime. Silenzio.

 

Sono cresciuta nella convinzione che la mia generazione fosse quella fortunata, quella senza guerra, quella senza né fame né morte, quella senza sofferenza.

Tuttavia.

Una domenica mattina qualsiasi a Berlino, furiosa di essere così illusa e impotente, dico ai bambini: «Bambini, mi piacerebbe andare a Sarajevo». «E vai», dicono «però sarebbe bello che poi tornassi». Aspirine, antibiotici, cioccolato. Ma come si fanno le valige per la guerra? Delle calze invernali?

O, happiness is a warm gun.

Ci fermiamo a Lubiana da mia mamma. Dovrei dirglielo, che vado a Sarajevo? O non dovrei dirglielo? E se mi succedesse qualcosa? Mia madre, vecchia partigiana, si arrabbia: «Che ne sai di cos’è la guerra». «Anche tu una volta non lo sapevi», le rispondo. Mia sorella ci calma.

I know, you do not know,
what is war, yeah …
what is war, fuck …
I Beastly stroke da Sarajevo

Mia madre lavora a maglia. Fa delle calze di lana per Sarajevo. Mia madre racconta: «Nella mia brigata. Marciavamo nella neve. Faceva freddo. Il caposquadra era un bell’uomo, e dato che era un buon soldato il comandante gli ordinò: ‘tu guiderai l’attacco nella valle della Temenica’. Mi guardò in modo così triste. Oh, Dio, pensai, stanotte morirà. Mi è successo molte volte di vedere la morte negli occhi dei compagni. Avevo paura. Mi è successo molte volte di pensare: Non sopravviverà a questa battaglia». Mia madre lavora a maglia. Calze invernali per Sarajevo. Mia madre racconta.

 

[pp. 16-20]

Sono coricata in hotel e ascolto gli spari. Sono appena tornata a letto e ho chiuso a chiave la porta. Sono stata svegliata da grida e corse per il corridoio. Ho aperto la porta per vedere dei giornalisti mezzi nudi e sconvolti, in biancheria intima o in pigiama, che gridano in tutte le lingue possibili: «Bomba! Bomba!». Evidentemente qualcuno ha lanciato un lacrimogeno per le scale. Credo nel destino e mi sdraio a letto. Ascolto le voci irrequiete ancora per un po’. Qui non siamo in guerra, penso.

La sera sono stata con gli abitanti serbi del Kosovo a Pristina, la capitale del Kosovo. «Abbiamo difeso l’Europa dai turchi, che hanno quasi massacrato tutto il nostro popolo, poi sono arrivati questi maledetti albanesi e si sono insediati proprio nel cuore della nostra terra».

E la mattina con gli albanesi per un caffè. «Abbiamo salvato l’Europa dai turchi e adesso i serbi ci vogliono estirpare». Quand’è che mi diranno di cosa si tratta davvero?! Quando parte il primo aereo verso casa? È una guerra questa? Qui si spara ai bambini e agli animali. Agli anziani. Guerra?

Al pozzo del villaggio un ragazzo piange su un asino morto. Gli abitanti si vogliono vendicare del poliziotto serbo che ha ucciso l’animale. Un giornalista della BBC dice indignato: «Ma dove siamo, che fanno un tale circo per un asino». «Qui un asino vale più di una persona», gli rispondo scortese, e mi sorprendo di me stessa. Con calma sarà necessario abituarsi alla scortesia. Non so. Evidentemente questa è già guerra. Guerra.

Siedo in un caffè a Pristina. Caffè turco. I serbi e gli albanesi hanno in comune almeno questo. E io? Sono stanca dei racconti sulla storia e sulle ingiustizie. Ma cosa sta succedendo qui? È sul serio una guerra questa? Da dov’è iniziato tutto? Questo non è il mio mondo. Oppure sì? Ascolto entrambe le parti e concordo con tutti. Ma penso sul serio a come far funzionare le cose. Mi sento persa. Come a Gerusalemme. Come in Israele. Come in Palestina.

In un mercato arabo a Gerusalemme, un padre con cinque bambini e un’enorme mitragliatrice. Penso si chiami mitragliatrice. La madre dei bambini cammina dietro di loro e si preme il naso con un fazzoletto. Bianco, con i merletti. Le venditrici palestinesi di verdura devono puzzare troppo per lei. O cosa?

Un giovane palestinese con un orologio costoso, che mi spiega in un serbo-croato molto meglio del mio di come abbia studiato da qualche parte in Bosnia in una scuola militare e sappia tutto dettagliatamente sugli armamenti jugoslavi e sulla morte di Tito. Penso che preferirei non accettare un altro invito a prendere un tè.

Dei ragazzi israeliani sul Mar Rosso che hanno ricevuto per la prima volta il permesso del kibbutz, distante solo una cinquantina di chilometri, di andare “per il mondo”. Non sapevano come si usano i soldi veri, e ancora peggio: non sapevano cosa farne del tempo. Erano convinti che fossi una palestinese. Quando fra due settimane avranno finito di godersi la vita, li aspetteranno tre anni di servizio militare.

Un vecchio venditore di Gerusalemme che mi invita a bere il tè mi spiega che Hitler era buono, un eroe in effetti, solo che non ha portato a termine il suo lavoro. E una stanca palestinese, che non mi fa pagare il bagno perché è appena morto Tito. E Tito…           

Nel caffè, cinque palestinesi con un solo fucile. Lo porta il più vecchio. Gli altri sono fieri di lui. Dietro l’angolo, ragazzi con dei sassi in mano. Un giornalista della BBC è con loro. Israeliani che gli sparano addosso. Un inglese che getta la fotocamera a terra, prova a difendere i ragazzi con il proprio corpo e urla «Siete dei nazisti!».

Me ne vado da Israele, me ne vado dal Kosovo. Me ne vado. Dove?

Già da tre giorni siamo alla radio Zid di Sarajevo. Ascoltiamo le richieste di soccorso di un radiotelegrafista da Srebrenica. Circa una cinquantina di persone tacciono nel piccolo studio radiofonico. Com’è che si dice? Si sarebbe sentito uno spillo cadere. «Sono alle porte di Srebrenica! Fate qualcosa! Qualcuno mi sente?». Guardo le facce attorno a me. Sono ancora più pallide di quando sono arrivata in città la prima vota. «Sono al confine della città!». E contemporaneamente alla radio un addetto stampa della NATO o delle Nazioni Unite. Non lo so più, ma ormai non ha molta importanza. «è ancora troppo presto per attaccarli. Gli abbiamo dato un ultimatum». Quanti ultimatum sono stati dati in tutti questi anni e non ne ricordo nemmeno uno che abbia portato a qualcosa di buono. Dal quartier generale dell’esercito bosniaco, che è nella casa accanto, vicino a radio Zid, arriva il generale, si siede per terra e ascolta. Lo guardiamo. «Non chiedete nulla», dice bianco in viso. Una volta era sommozzatore per la marina jugoslava e mi rivolgevo sempre a lui per ricevere aiuto quando le batterie della mia Sony erano scariche. «Sono in città! È la fine», urla il radiotelegrafista. E il rappresentante NATO o ONU spiega con voce calma che ora la NATO non attaccherà, perché l’esercito serbo è in città e le bombe Nato sono troppo pericolose per i civili. Ricordo una vecchia intervista con un pilota inglese di un bombardiere che nella Seconda guerra mondiale ha volato sopra Auschwitz. Abbiamo visto, abbiamo visto, ma era troppo pericoloso per i prigionieri. E un detenuto ebreo sopravvissuto ad Auschwitz: «Abbiamo visto il bombardiere in cielo e abbiamo pregato Dio che sganciasse qualche bomba sul campo, per far finire quell’inferno in terra».

[p. 31]

Nicaragua, luglio 2004

Hola Mamita! Ti penso. Sono rimasto qui qualche giorno in più per aspettare i festeggiamenti per il centenario della rivoluzione, perché nel mio villaggio mi hanno detto che Ortega avrebbe tenuto un discorso e che ci sarebbe stato anche Fidel Castro, e che se avessi voluto essere ancora dei loro (ovviamente è stato detto in tono scherzoso) avrei dovuto esserci anch’io. E poi, ovviamente, ero curioso.

Mamma, sono stato accanto alle madri degli eroi che guardavano radiose Ortega e hanno ascoltato ore e ore i suoi oratori. Non ho osato esprimere la mia delusione. Penso che sia sulla strada giusta per diventare dittatore, se solo vincesse le prossime elezioni.

Fidel non c’era. Le madri lo hanno aspettato. Mamma, dimmi, perché tutte le rivoluzioni devono finire così?

Leggo la mail di mio figlio e ricordo una celebrazione partigiana ai tempi in cui ancora non andavo a scuola. Da qualche parte nel profondo delle foreste della Bassa Carniola. Mio padre mi portò con sé, forse perché avevo fatto la brava. Tutti si abbracciavano, sorridevano, piangevano. Suonava la banda e in mezzo a quell’allegra baldoria mio padre mi prese per mano e disse: «Vieni con me a conoscere una persona». Ad un tavolo sedeva una vecchia donna che si asciugava le lacrime. «Lei è una madre partigiana», disse mio padre. «Ha perso cinque figli». Le detti la mano, mi accarezzò i capelli, ma avevo paura di guardarla negli occhi.

 

[pp. 54-55]

«Piano, piano», frenava i suoi lavoratori Violeta, il capo del gruppo sminatori, quando una mina antiuomo le strappò via una gamba. «Speriamo che gli sminatori siano tutti così esperti quando accade un incidente, di solito regna sempre un caos generale. Le persone perdono la testa», spiega il capo dell’organizzazione non governativa di sminatori danesi, che ripulisce i campi minati in Albania.

«Prima, Violeta ci ha comunicato tramite la radio portatile che nel suo gruppo era successo un incidente, solo in seguito è crollata, ma ha comunque avuto abbastanza forza da indirizzare i suoi lavoratori. Quando l’ho visitata per la prima volta in ospedale, dopo che le avevano amputato la gamba, si è confusamente scusata perché il suo gruppo aveva commesso un errore sotto la sua direzione».

Violeta prima della guerra aveva studiato matematica. Quando con la sorella e la madre tornò dalla fuga in Albania, dove si erano rifugiate durante la guerra nel Kosovo, si ritrovarono le mine in giardino. Lei e la sorella le tolsero da sole e si candidarono per il lavoro da sminatrici.

«Lili, l’anno scorso, lavorava da noi come donna delle pulizie. Puliva davvero male, glielo facevo notare continuamente, ma non serviva. Non volevo assumerla di nuovo. Quando mi ha descritto la sua situazione famigliare, le ho consigliato di fare il corso per sminatori. È una delle migliori. Guadagna seicento euro al mese. Le sminatrici, otto da noi, disinnescano mine per i soldi e per l’adrenalina. La mina è un oggetto pericoloso. Aspetta sottoterra per venti, cinquanta o anche ottant’anni. Le donne kosovare la vedono come un’avventura. Guidano le Jeep e così migliorano anche il loro status sociale. Tutti vedono che possono lavorare come gli uomini. Lo sminamento è un lavoro machista e loro lo svolgono forse anche meglio dei loro colleghi maschi. Le sminatrici sono molto rispettate in società e questo, forse, è un bene anche per le altre donne».

Quando hanno ripulito il Kosovo dalle mine, non hanno ripulito anche l’Albania. Quando gli sminatori sono arrivati al confine albanese hanno dovuto fermarsi, perché in Albania ufficialmente non c’erano mine.

 

[pp. 63-64]

Mia sorella ritorna stanca dalla Palestina. O da Israele? Questa volta ha visitato un ospedale a Gaza. I medici le hanno chiesto di non fotografare l’armadio delle medicine vuoto. Mia sorella trattiene le lacrime. Mia sorella comincia a raccontare. «Ci hanno promesso che riceveremo qualcosa, per cui è meglio che non facciate foto, perché per gli israeliani sarebbe una scusa per un’altra provocazione», le ha detto il medico dell’ospedale di Shifa, il più grande sul territorio palestinese. «La luce rossa lampeggia molto velocemente. Dovremmo fermarci finché non finisce tutto? È totalmente indifferente chi ha vinto le elezioni. È stato violato un principio base: il sentimento di umanità non può dipendere dalla politica! La vittoria di Hamas alle elezioni ha sorpreso il partito leader Fatah, Israele, chi conosce la situazione da questa parte del mondo e addirittura gli stessi leader di Hamas. La fiducia nel movimento islamico ha fruttato molto male ai palestinesi: gli israeliani hanno immediatamente interrotto la tassa da milioni di dollari che dovevano pagare all’amministrazione palestinese ogni mese, e quando Hamas ha occupato gli uffici governativi, gli USA e l’Europa hanno fermato gli aiuti dicendo che Hamas rifiutava di riconoscere lo stato di Israele. Per molti mesi hanno bloccato la consegna di medicinali, dispositivi medici, e ci mancano addirittura le cose più semplici, come gli aghi e i detergenti. Sarebbe una soluzione, questa? È cambiato qualcosa adesso, quando i pazienti ci muoiono davanti agli occhi?». Gli trema la voce.

 

[pp. 72-73]

Belfast. Una ragazza che legge la Bibbia e trema per i fratelli ed il padre che stanno davanti al giudice. La madre pensa a come potranno sopravvivere.

Una radiogiornalista da Belfast: Cara Maruša, da quando te ne sei andata, qui la situazione è orribile. Con le ultime forze ho terminato la trasmissione radio Bomb beats, che ti mando tramite John. Se a breve non riceverai da me altri messaggi, significa che ho perso la testa. Dico sul serio. So che capirai.

 

Mamita, un messaggio veloce, così sai che sono vivo. Oaxaca è abbastanza tranquilla, così ora sono a Puebla da amici. Il sei agosto inizio a lavorare in Guatemala come accompagnatore dei testimoni della guerra civile. I processi sono iniziati e i testimoni letteralmente scompaiono nel tragitto dalla casa al tribunale. A breve ne saprai di più.

Ti abbraccio, Č.

P.S.: spero che presto riuscirò a scrivere qualcos’altro su Oaxaca.

Cipressi. Niente mare. Guerra. Facce pallide, sguardi scuri e senza speranza, taniche di acqua, persone che frugano fra la spazzatura, invalidi che mendicano agli angoli, cani senza padroni e innumerevoli auto delle organizzazioni umanitarie che si occupano principalmente di loro stesse … Guerra.

Guardo le facce che portano la libertà e la democrazia. guardo le facce che negli ultimi anni stanno “liberando” il mondo. Liberano l’umanità. O almeno così vengono lodati nei media. Guardo le facce della gente che ‘prende d’assalto’ i palazzi parlamentari. Negli ultimi anni. Non ha importanza dove. A Belgrado, in Georgia, a Mosca, a Kiev, in Cecenia, a Pristina. E le facce dei velocemente proclamati nuovi “capi democratici” sono tutte stranamente simili. Tutti questi nuovi stati “democratici” non li conosco nemmeno per nome. Rivoluzioni di velluto o rivoluzioni morbide o qualcosa del genere, che ne so. Nuovi governi? Sono questi i nuovi difensori dei diritti umani? La loro vita ricorda la biografia dei milionari da favola americani. Da lavapiatti a milionario, dall’orfanotrofio a magnate della nafta, dalla strada al palazzo. Davvero, la democrazia è qualcosa di bello. Come una favola su cui preferirei dormire.

 

[p. 89]

La mia giovinezza è piena di immagini di guerra. Trionfanti. Ogni tanto però ho sentito dai vicini qualcosa di diverso. A volte abbiamo avuto paura dei russi e a volte dell’America, ma Tito ha sempre affermato di credere nel proprio popolo.

Mi ricordo dei turisti in riva al lago che mi dettero delle caramelle. Mio padre alzò la voce con me per la prima volta e fui costretta a riportarle indietro. I turisti, infatti, erano tedeschi. Ma come facevo io a saperlo? E poi avevano le caramelle!

Mi ricordo i primi incontri con le forze di pace tedesche all’inizio dei tumulti in Jugoslavia. E in poco tempo si è visto che i più ferventi pacifisti erano proprio i figli dei nazisti. Se solo mio padre mi avesse visto! Non elencherò i nomi. Fu difficile perché richiedevano da noi un’infinita comprensione dei nazionalismi nei Balcani, e difficilissimo perché non si poteva criticare Israele. Lentamente mi sono stancata di loro. Del loro ripulirsi la coscienza con la faccenda balcanica.

 

 

Bibliografia:

Maruša Krese, Vse moje vojne, Ljubljana, Mladinska Knjiga, 2009.

Maruša Krese, Tutti i miei natali, Besa Muci, 2020. Traduzione di Gaja Scuteri.

Maruša Krese, Paura io?, Besa Muci, 2023. Traduzione di Gaja Scuteri.

Sitografia:

Maruša Krese: https://www.goga.si/avtorji/krese-marusa/ (ultima consultazione: 06/12/2024).

Martin Lissiak, Fascinantno življenje Maruše Krese, 14/12/2019: https://www.primorski.eu/kultura/fascinantno-zivljenje-maruse-krese-EF412622. (ultima consultazione: 06/12/2024).

Maruša Krese: https://sl.wikipedia.org/wiki/Maru%C5%A1a_Krese (ultima consultazione: 06/12/2024).

 

Apparato iconografico:

Immagine 1 e immagine di copertina: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Henri_Rousseau,_La_Guerre_%28The_War%29,_1895,_NGA_39156.jpg