Angelus Novus, direzione Berlino. “Piccole morti” di Ivana Sajko

Richárd Janczer

 

Sul treno che mi porta a Berlino il tempo non esiste, sebbene io viaggi in avanti, vado indietro”. (p. 33)

Ivana Sajko (Zagabria, 1975) è scrittrice, drammaturga e regista teatrale croata residente a Berlino. Piccole morti (“Male smrti”, 2021), edito da Voland, con la traduzione di Elisa Copetti e a cura di Alice Parmeggiani, è il suo quarto romanzo e il secondo edito in Italia dopo Rio bar (per i tipi di Excelsior 1881 nel 2008). Sajko vanta anche un’importante carriera teatrale a partire dal 1998 e il suo Rose is a rose is a rose is a rose, prima pièce della cosiddetta “Trilogia della disobbedienza”, ha debuttato in Italia il 20 ottobre 2015 con regia di Tommaso Tuzzoli presso il Teatro Lo Spazio di Roma, con la traduzione del testo drammaturgico di Elisa Copetti.

Link al libro: https://www.voland.it/libro/9788862435536


Scrivere un libro che racchiuda la propria vita alla fine di un amore culminato con una crisi depressiva è l’impellente compito con cui il narratore-protagonista di Piccole morti intraprende il viaggio da una città della costa dalmata a Berlino, la grande capitale cosmopolita approdo di innumerevoli destini migratori. Un tragitto ferroviario la cui solitudine è interrotta dai ricordi e il cui isolamento è intersecato da continue divagazioni politiche: è qui interamente racchiuso l’esile intreccio del breve romanzo di Sajko.

Una narrazione dal titolo semplice, persino banale, che non esita ad attraversare situazioni stereotipiche, animate da un corteo di evanescenti figure anonime quali l’amico, l’ex-compagna e la voce narrante stessa, nominata solo in un’occasione come mio caro Iv.” (p. 20). Appellativo che rivela l’abile mossa scrittoria con cui Ivana Sajko mette a nudo il carattere fittizio e arbitrario del narratore, lasciandone intendere il carattere di maschera teatrale. In un mondo traboccante di retorica la sua letteratura non ha bisogno di sorreggersi sull’artificio né di rincorrere l’originalità tipica di una società della performance. Non è costretta a comporre il grande romanzo mitteleuropeo, a fuggire dall’insignificanza di una vita come tante facendo di un uomo annichilito e auto-annichilitosi un eroe. La sua scrittura è un semplice dialogo mancato con l’Altro nel momento in cui cala il sipario: vorrei che mi chiedesse cosa sto scrivendo e vorrei dirle che scrivo della morte dell’amore, fingendo di scrivere della morte di mio padre, della morte di mia madre, della morte dell’Europa” (p. 55-56).

L’intero libro potrebbe essere riassumibile con la celebre ecfrasi elaborata da Benjamin in Tesi di filosofia della storia (1940): C’è un quadro di Klee che s’intitola ‘Angelus Novus’. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato.” (Walter Benjamin, Angelus Novus, Torino, Einaudi, 1999, p. 80) Tutto è già avvenuto: l’emigrazione del protagonista non comporta alcuna illusione positiva sull’avvenire, ogni favola è già stata smentita e quello che potrebbe diventare un “in medias res” del romanzo sembra ridursi a un resoconto di quanto già accaduto. Il viaggio fisico in avanti si svolge all’insegna dell’analessi e dell’anafora, non fa che andare a ritroso, a un tempo perduto che solo nel momento della scrittura viene compreso: una prolessi che più avanza più ritorna sui suoi passi. Da ciò non risulta alcuna finzione romanzesca, bensì un limitarsi a raccogliere i cocci della propria persona, quello che si potrebbe definire “giornalismo del sé”, in cui lo sguardo è rivolto al recupero documentaristico del proprio vissuto. L’orizzonte su cui è proiettato questo viaggio non è l’arrivo, ma il percorso che ha portato allo smarrimento, riflettendo sul passato senza il quale non sarebbe possibile comprendere il presente e il futuro prossimo.

Un percorso non più capace di rintracciare le briciole lungo il sentiero, infatti il passato ha smesso di essere una fotografia, perché non mostra quasi più nulla, i colori sono sbiaditi, le persone somigliano a spiriti, hanno appena un accenno di mano o occhio, luogo o momento, bisogna sostituire le macchie dovute all’ossidazione con una storia che forse sarà anche inventata” (p. 80).

Nel clima di sfiducia politica, di favole e sogni traditi, anche il linguaggio letterario diventa incapace di sorreggere – o si rifiuta di farlo – la propria finzione: ad esempio la rievocazione che il narratore fa del rapporto con il fratello, figura centrale dei ricordi d’infanzia, si rivela per sua stessa ammissione più una favola raccontata per consolarsi che un resoconto fedele.

Sajko compone un romanzo ferroviario contemporaneo, una confessione a posteriori, una fuga da colpe irreparabili che per scenario e brevità può ricordare Sonata a Kreutzer ma che è programmaticamente impossibilitata a raggiungerne la drammaticità. Sono quattro i treni di questo romanzo: quello che porta il narratore a Berlino; quello preso a sassate a Tovarnik, cittadina al confine tra Serbia e Croazia e luogo di intense repressioni politiche, con persone migranti bloccate al suo interno il treno del film Europa (1991) di Lars von Trier – suggestione carica di valenze oniriche e simboliche che traghetta il viaggio del narratore in una dimensione al contempo personale, collettiva e politica – e infine il treno su cui sale la madre del protagonista per diventare Gastarbeiter.

Il treno, luogo e motore della narrazione, amplifica quella condizione preesistente di straniero che caratterizza la voce narrante. Una condizione che non è solo uno status politico certificato a un valico di frontiera, luogo che la sancisce ma che non la inizia, ma che si radica già nell’estraneità progressiva che il narratore prova nel legame sentimentale o nell’alienazione dai genitori in vita e post-mortem. A risaltare è il rapporto col fratello che è fuggito all’estero ed è diventato padre di un bambino a cui si rivolge in una lingua straniera. Attraverso un uomo diventato straniero a se stesso, il quadro che si dipinge è quello di un’intera famiglia dissolta in individui atomistici.


Nel continuo parallelismo e reciproco rispecchiamento tra pubblico e privato, la disgregazione famigliare riecheggia nella dissoluzione della famiglia “Europa” e del sogno europeo tout court. Un mito reso con i tratti del meraviglioso, come l’attesa messianica della madre che torna dalla Germania dove i negozi erano pieni di articoli […], brillava e profumava, era così affascinante e perfetta, e così irraggiungibile che la odiavamo dal profondo del cuore” (p. 69), in cui l’Occidente assume l’aspetto di un paese della cuccagna da cui si torna carichi di doni ma che pretende il sacrificio di una separazione irrimarginabile. La favola “Europa” è denudata fino a risultare vuota retorica e accusata di parlare solo per i suoi migliori cittadini, quelli occidentali, come quando dimentica la guerra nei Balcani, una di quelle che in ottanta e rotti anni di pace europea non si sarebbe per così dire mai verificata” (p. 74), quel “disastro” che nella narrazione è uno sfondo poco connotato e che riecheggia, in danza perpetua tra individuale e collettivo, nella scena di un coatto fight club tra fratelli imposto dal padre alcolizzato.

Quella che nell’intenzione narrativa avrebbe dovuto essere un’analisi autobiografica devia sovente verso la testimonianza di come l’Europa sia “morta” a Tovarnik:

“[L]’Europa riusciva a mantenere la reputazione del male minore, era oggetto di amore e di fede, perfino quando produceva scientemente masse ignoranti, affamate e disperate che si vendicavano di noi alle elezioni perché non potevano accettare l’ottimismo e la speranza, che non erano edibili, contro la loro incredulità si ergevano le nostre metafore e concetti disfunzionali come i valori europei, facevamo riferimento al successo della civiltà in settant’anni di pace sul suolo europeo, un’evidente menzogna” (p. 24).

Del sogno europeo non sembra rimanere altro che l’indifferenza davanti al dolore degli altri: nessuno reagisce, che si tratti di una molestia sessuale in un luogo pubblico o dell’ecatombe nel Mediterraneo, una storia che fa parte di un piano premeditato di cui un giorno ci vergogneremo” (p. 59).

Un’inchiesta sull’indifferenza che non lascia tregua soprattutto a chi è solito porre domande, l’intervistatore stesso è chiamato a rispondere:

che cosa abbiamo fatto in tutti questi anni per la nostra comunità?” (p. 12).

“… elaboravamo strategie per uscire dalla crisi della democrazia e conducevamo dibattiti di ore su temi dubbi, ad esempio sull’unità dell’Europa, sebbene già allora la coesione europea si intravedesse appena, la sua umanità era per lo più a parole, per poi scomparire anche dal dibattito come un concetto senza significato, era assolutamente chiaro che ogni idea di salvezza collettiva sarebbe stata sovrastata sempre dall’istinto di ciascuno a salvare sé stesso a ogni costo, del tutto naturalmente, del tutto umanamente, così si stringe nelle spalle, si nasconde tra quattro mura, abbassa le tapparelle alle finestre, spegne il computer, impara a perdonarsi per non aver salvato il mondo e fugge dentro la propria testa così come ora io fuggo dentro il mio taccuino.” (p. 23)

Nonostante questa paradossale condizione che rappresenta il trauma transnazionale di intere generazioni sospese tra il primo e il secondo mondo (concezioni alquanto problematiche e antiquate qui utilizzate solo a fine orientativo), il narratore è conscio che sia un privilegio poter scrivere che ogni partenza è una piccola morte” (p. 86), un gesto silenzioso, nulla di eclatante quando si è seduti comodi con biglietto e documenti validi. È conscio di vivere la propria identità politica quasi come fosse un hobby borghese, un impegno che non riesce mai a travalicare il carattere meramente verbale del giornalismo: … mi sono ricoperto con una campana di vetro e faccio brillare il mio stile al massimo del luccichio, combatto per un mondo migliore con parole raffinate, credo di essere un brav’uomo con buone intenzioni, spero che lo vedano anche gli altri e chiamo questa speranza attivismo, sono consapevole di non cambiare il mondo…” (p. 27)

Infatti, è al di là della vuota coltre retorica che va identificato il vero auto-giornalismo di un sé che nella dimensione privata risulta fragile, segnato da ferite insanabili, depresso e conscio di aver fatto naufragare la propria relazione. Il narratore stesso compone il ritratto autoironico di un uomo che si crogiola nel dolore e che predica dal pulpito senza essere all’altezza della caratura morale delle proprie parole. La sua condizione potrebbe essere definita con il contraddittorio “privilegio nella subalternità e subalternità del privilegio”. Il suo privilegio è quello di vivere una condizione altra rispetto a quella della madre e dei migranti perché per nascita gli è stata concessa la libertà di aggirare agevolmente barriere linguistiche e frontiere nazionali. D’altra parte, il suo privilegio rimane però comunque subalterno agli abitanti autoctoni del primo mondo. “[N]on sono tutti come lei” (p. 42) sono le parole emblematiche che gli rivolge un’anziana tedesca. Infatti, nonostante venga distinto da altri migranti, egli è e rimane uno straniero sottoposto a interrogatori alla dogana, uno che lascia la patria voltandole le spalle e perciò sempre “altro” rispetto a quell’immaginario “noi” degli autoctoni.

Alla crisi collettiva di una società dell’indifferenza, xenofoba e neoliberista, viene a sommarsi una crisi individuale che il protagonista non riesce a metabolizzare se non con la partenza. La colpa, l’incapacità di essere radicalmente diversi da chi precede, di comunicare e di arginare un’alienazione progressiva tra sé e gli altri e il non saper accettare, quando è rivolta a sé, quella verità che si predica sul mondo esterno, sono i tratti di questa crisi. Quanto emerge è il ritratto di un uomo incapace di difendere la partner da una molestia ma che non esita a schiaffeggiarla quando lei pone fine alla relazione dicendogli la propria verità. È solo quando si distacca dal cliché patriarcale e dalle sue lacrime di coccodrillo per volgere lo sguardo all’esterno che ritrova un’identità coesa e dimostra un’autentica coscienza politica.

Piccole morti è pertanto la messa in scena della perenne tensione tra introflessione ed estroflessione, come ammette lo stesso narratore: “… non doveva essere una storia su questo treno con cui andrò a Berlino, ma piuttosto sul treno preso a sassate a Tovarnik…” (p. 94). È quel fondamento di ogni etica politica, di ogni “vita activa”, che prende avvio da una lucida analisi e presa di coscienza di sé, dal guardarsi allo specchio prima di sondare gli abissi del mondo. Quello a Berlino, dunque, non è un arrivo, ma l’approdo a uno spaesamento in un non-luogo a cui l’essere umano spogliato di senso non riuscirà subito a dare impronta. È nell’acclimatarsi a queste nuove mura che corrisponde lo spazio della scrittura: adattarsi all’estraneità. L’“homo sajkensis” è un essere in cammino e Piccole morti un percorso volto all’agnizione di sé, al riconoscimento delle proprie responsabilità e al contempo un’uscita dalla stasi, quel primo passo verso un po’ di quel possibile deleuziano che permette di non soffocare.

 

Sitografia:

Migranti, Croazia chiude tutti i valichi di frontiera con la Serbia: “Siamo saturi”

https://www.rainews.it/archivio-rainews/articoli/Migranti-Croazia-chiude-tutti-i-valichi-di-frontiera-con-la-Serbia-Siamo-saturi-79230c0a-473e-42c4-9361-918a65ade548.html(ultima consultazione 22/01/25)

 

Apparato iconografico:

Immagine di copertina e immagine 2:  https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/0/07/IvanaSajkoEssen2018.jpg/1280px-IvanaSajkoEssen2018.jpg