A cura di Vitkor Toth
Sergej Loznica, ad oggi, è uno dei più particolari cineasti dello scenario dell’Europa Orientale. Bielorusso di nascita, ucraino per propria autoidentificazione, ostracizzato dai connazionali per essersi posizionato contro il fenomeno della cancel culture nei confronti della cultura russa, è anche regista di Maidan (2014), importante opera che racconta la rivoluzione dell’Euromaidan del 2014, con uno stile sciatto e distaccato, proprio del suo cinema. Nel 2024, a Cannes, è stato presentato fuori concorso il suo documentario più recente, The Invasion, che raccoglie materiale girato nei due anni successivi al febbraio 2022 per raccontare l’effetto che ha avuto l’invasione russa dell’Ucraina sulla società del Paese, su tutti i livelli. Il film è stato appena presentato in anteprima nazionale italiana al Trieste Film Festival 2025. Abbiamo incontrato Sergej Loznica allo scorso Karlovy Vary Film Festival.
Viktor Toth: The Invasion viene accostato a Maidan, da molti descritto come un seguito spirituale del film del 2014. Lei condivide questa interpretazione? Si era già reso conto che sarebbe stato un seguito di Maidan durante le riprese?
Sergej Loznica: No, non me n’ero mai reso conto. Ho semplicemente continuato a descrivere quello che accadeva in Ucraina. Maidan è stato il primo film che ho girato nel Paese – voglio dire, il primo documentario, perché il mio film My Joy trattava lo spazio russo, ma è stato girato in Ucraina vicino al confine. Il secondo film che ho fatto in Ucraina nel 2018, Donbass, così come Maidan raccontava un momento significativo della nostra storia, così come lo è l’invasione in larga scala iniziata nel 2022. Mi sentivo obbligato a girare un documentario, essendo qualcosa che sono capace di fare, di riflettere e di mostrare come la gente cerca di mantenere una vita ordinaria in queste circostanze.
VT: Ho notato nei titoli di coda il nome di Piotr Pawlus come uno dei direttori della fotografia, co-regista di In Ukraine, insieme a Tomasz Wolski, con cui lei ha lavorato in passato. Dato che Wolski mi aveva raccontato di aver percepito la sua influenza lavorando su In Ukraine, mi chiedo se è stato altrettanto per lei con The Invasion?
SL: Si, ho visto In Ukraine dato che avevo già collaborato con Wolski precedentemente su The Kiev Trial e su Babi Yar. Context; lo avevo invitato a collaborare su quei film in quanto avevo visto le sue opere precedenti, basate su materiale d’archivio, e quindi siamo diventati amici. Perciò, dopo aver visto il suo lavoro in In Ukraine, ho chiesto a Piotr Pawlus di partecipare al film; lui è stato affiancato come direttore della fotografia da Evgenij Adamenko, un eccellente cameraman. C’è certamente una sorta di comunicazione tra il mio film e quello di Wolski e Pawlus, è così che funziona il cinema.
VT: In uno degli episodi più particolari del film, seguiamo il destino dei libri di “cultura russa” che vengono riportati dalle persone in libreria e poi smaltiti. Dato che ha parlato spesso del multiculturalismo dell’identità ucraina che al suo interno contiene anche la minoranza russa, come interpreta questo episodio che ci ha presentato?
SL: Io non interpreto. Nel mio privato ho la mia opinione, ma nel caso di un film voglio presentare semplicemente quello che accade, e in questo caso l’evento è un effetto di questa guerra, e quindi deve esserci nel film, perché è un problema, tra i tanti problemi che ci sono. Noi abbiamo una certa percezione sui libri, ma restano comunque solo dei libri. Il modo in cui li percepiamo dipende dal nostro vissuto culturale. Per me restano molto più forti gli episodi riguardanti le distruzioni, le persone ferite. Certo, è possibile accettare o comprendere perché le persone facciano questo, è una forma di reazione, una reazione psicologica. Tendiamo a ricordare che la stessa cosa è accaduta durante sia la Prima che la Seconda Guerra Mondiale, ed è uno dei segnali che si sta vivendo una Guerra Totale. Ed è così ora, si tratta di una guerra totale, dove non solo persone addestrate specificatamente, non solo i soldati e gli ufficiali dell’esercito sono partecipi, ma tutti. È qualcosa che non era mai successo prima del ventesimo secolo, è un fenomeno che ci è giunto insieme alla nuova civiltà industriale ed si è concretizzato con le prime due Guerre Mondiali, quando la distruzione di una città o di un edificio comportava la distruzione di tutto. Di questo ho trattato in Natural History of Destruction. E ora, ottant’anni dopo, dove le truppe russe si muovono, distruggono completamente intere città, interi villaggi. É un deserto. Il comportamento rimane lo stesso di allora, e noi in quanto umani non abbiamo niente che resiste o ci protegge da questo modo di partecipare alla guerra. E, di conseguenza, noi permettiamo a loro di fare questo, il mondo osserva questi orrori da due anni e mezzo, e per me questo è incredibile.
VT: Penso che sia in un certo senso un suo elemento stilistico chiave, cercare di tenersi a una distanza dal soggetto dei suoi film in modo tale da permettere una riflessione. È d’accordo?
SL: Cerco di tenermi a distanza da qualsiasi cosa io mostri. Certamente c’è un processo creativo, rifletto su che tipo di pensieri voglio scaturire, sulla sequenza degli episodi, ciascuna con il proprio significato, ma che insieme formano un metasignificato. Queste sono le mie risorse, il modo in cui adopero il linguaggio filmico e in cui lo uso per evocare le emozioni che io stesso provo in quei momenti. Posso dire che cerco di fare un cinema immersivo in questo senso.
VT: Lei spesso alterna nella sua carriera il cinema di finzione, il cinema documentario e il cinema d’archivio. Percepisce queste tre forme come separate tra loro, linguaggi diversi?
SL: Sono tre modi diversi in cui lavoro, ma ritengo che il linguaggio sia lo stesso. Quando adopero immagini d’archivio non posso scegliere io cosa riprendere, ma devo trovare un modo per esprimermi con possibilità limitate, il che è una sfida ancora più difficile. Quando sono io a riprendere, i limiti sono nel budget. Nel documentario hai questo oggetto che esiste a prescindere dalle tue intenzioni, ragione per cui devi essere connesso.
VT: L’anno scorso girava la voce che il suo prossimo progetto di finzione sarebbe stato un film ispirato al massacro di Babij Jar. È ancora in fase di sviluppo?
SL: Sto pensando di trasformare la sceneggiatura per farne un’installazione multimediale. È un altro linguaggio, un altro modo per raccontare la storia, attualmente è impossibile girare in Ucraina un film tradizionale.