Erika Stragapede
Anna Nerkagi è una delle voci letterarie più note della comunità indigena dei nenec, una popolazione semi-nomade che abita nell’asprezza della tundra artica russa. I suoi romanzi sono in corso di pubblicazione nel catalogo di Utopia Editore che ha già portato sugli scaffali italiani due titoli, Aniko (2022) e Muschio bianco (2024).
Pubblicato originariamente nel 1996 e giunto in Italia nella delicata e accurata traduzione di Nadia Cicognini, Muschio Bianco è un romanzo o, meglio, un “racconto lungo-romanzo breve” – a voler tradurre il senso di povest’ russa –, in cuil’autrice prosegue l’esplorazione dell’universo nenec cominciata in Aniko, permettendo così di aprire un’ulteriore finestra su questo popolo straordinario e scoprirne non solo gli aspetti culturali più affascinanti, ma anche le problematiche più dolorose.
Link al libro: https://utopiaeditore.com/prodotto/muschio-bianco/
Se è vero ciò che affermava Plauto, che nel cognome delle persone è indicato il loro destino, questo è senz’altro il caso di Anna Nerkagi, scrittrice appartenente alla comunità indigena dei nenec, una popolazione semi-nomade che abita le aspre regioni della tundra artica russa. Nerkagi in lingua nenec significa “inflessibile” ed è proprio con ostinazione e fermezza di spirito che la scrittrice si batte da anni per salvaguardare l’unicità culturale del suo popolo dalla morsa stringente della modernità e dalla minaccia di una completa russificazione.
L’inflessibilità di Nerkagi nella preservazione delle radici e dei costumi ancestrali dei nenec emerge tanto nelle sue scelte di vita quanto nella sua produzione letteraria. Dopo la laurea in geologia e l’acclamato esordio letterario con Aniko, Nerkagi è tornata infatti a vivere nella sua comunità d’origine nella tundra della penisola di Jamal, dove ha fondato e tuttora gestisce una scuola per giovani nenec. Nei suoi romanzi affida questo ruolo sociale ai personaggi più anziani, custodi del sapere e responsabili della trasmissione alle nuove generazioni.
La continuità culturale tra le generazioni, particolarmente labile e conflittuale nella contemporaneità dei nenec, è infatti un tema centrale e ricorrente nelle opere della scrittrice, in particolare in Muschio Bianco.
Ciascuno dei personaggi del libro si trova ad affrontare sfide che, tuttavia, sorgono da una condizione comune: l’allontanamento, proprio o delle persone care, dalle radici e, quindi, dal modo di vivere nenec. Ne emerge un coro di voci piene di dolore che Nerkagi dirige sapientemente.
La prima voce è quella del vecchio Petko, rimasto solo dopo la morte di sua moglie Lamdo e la perdita di sua figlia Ilne che, al pari delle sorelle, ha scelto di trasferirsi nel villaggio, abbandonando per sempre la vita nomade e condannando il padre a vivere come ospite dell’amico Vanu e sua moglie presso il loro čum, la dimora tradizionale nenec.
La partenza di Ilne è motivo di sofferenza anche per il giovane Alëška che continua a vivere nel ricordo di un amore non corrisposto e ormai lontano, affrontando l’alienazione di chi ha scelto di restare, ma si sente “straniero tra i propri”. Diversamente da molti suoi coetanei, Alëška non ha infatti ceduto alla tentazione di fuggire dalla tundra, dove conduce una vita “dura e noiosa” per sostenere la famiglia rimasta senza padre e sposa, su insistenza della madre, una donna che non ama. Le prime pagine del romanzo si sviluppano proprio intorno alle immagini dello sposalizio che, più che di una festa, ha le sembianze di un funerale. Esso si svolge, peraltro, senza alcun rito, nella totale violazione delle leggi che regolano la cultura nenec. Il rifiuto di Alëška di accettare il matrimonio genera altre voci di dolore, quella della moglie, umiliata dall’indifferenza del marito, e quella dell’inflessibile madre che non comprende le pene amorose del figlio e non accetta la sua assenza di responsabilità nei confronti dei doveri coniugali.
Incomprensibile e doloroso è anche il comportamento dei figli del vecchio Chasava che, come “figli-corvi”, tornano al proprio nido solo per reclamare l’eredità che spetta loro, lasciando il povero padre alla stregua di “una pernice spennata”. Se in Aniko la protagonista torna all’accampamento d’origine, seppure per un breve periodo, con il nobile intento di salutare la madre defunta e l’anziano padre, in Muschio bianco il ritorno al focolare natio è motivato soltanto da interessi materiali.
Sorge dunque una questione, ovvero se in Muschio bianco sia possibile scoprire un antidoto a tanta sofferenza; una possibilità per i personaggi di riscattare il proprio destino; una voce fuori dal coro che non sia di dolore, ma di speranza. La risposta è rintracciabile già nella primissima pagina del romanzo, in un monito che Nerkagi sembra rivolgere a chiunque si appresti alla lettura:
“Nessun dolore, neppure il più atroce, dovrebbe impedire all’esistenza di scorrere, proprio come un masso, scagliato in un fiume, non può invertirne il corso. L’acqua lo aggirerà e di nuovo riprenderà a fluire com’è stabilito che sia.” (p. 7)
L’unico rimedio al dolore che gli uomini si provocano l’un l’altro nel corso delle loro travagliate esistenze risiede nel ritorno alla natura, alla contemplazione dei suoi tempi e ritmi, sembra suggerire l’autrice.
È solo attraverso una ritrovata armonia con il tempo naturale, scandito dal ciclico avvicendarsi dei fenomeni e delle stagioni, che l’animo dei nenec può riappacificarsi e riconciliarsi con se stesso. Ne è l’esempio il vecchio Petko che, osservando il sorgere del sole, non a caso in una giornata di primavera, sente l’ardente desiderio di congedarsi dal passato e il bisogno di ricongiungersi agli abitanti dell’accampamento come a una nuova grande famiglia; o Alëška che, soffermando lo sguardo su una coppia di alberi slanciati e rigogliosi, inizia a vedere se stesso con occhi nuovi. Alla vergogna per aver vissuto come “una bestia vile e ripugnante” sulle fragili spalle della madre e della moglie, subentra la volontà di vivere come si conviene a un nenec: apertamente, senza ipocrisia e finzioni. Si decide così ad entrare nel čumdove sua madre e sua moglie siedono “come le sponde immutabili di un fiume” ai lati del fuoco, quel fuoco che lui ha cercato di spegnere, e inizia la nuova vita che aveva ostinatamente negato a se stesso.
Tuttavia, questa catarsi dal dolore non è totale perché riconcilia gli uomini col proprio destino solo mediante l’accettazione dello stato delle cose che, come i cicli della natura, forse non si possono cambiare. È in questa rivelazione che si intravede la dimensione tragica dei personaggi del romanzo, in questo ineluttabile compromesso che sono collettivamente costretti a stipulare tra il proprio desiderio individuale e le leggi del mondo in cui vivono. È solo il tempo, la comprensione e, in definitiva, l’accettazione di queste leggi che porterà Alëška a convincersi dell’inutilità di opporsi a un ordine di vita collaudato nei secoli.
Per i lettori occidentali diventa quasi impossibile sottrarsi a un confronto culturale con questo mondo lontano, forse incomprensibile nella sua rigidità ma di certo affascinante, in cui gli elementi naturali ridiventano manifestazione mistica del divino, si riappropriano di una primordiale connotazione magica e ultraterrena, e nel quale gli uomini e le donne non hanno ancora dimenticato come comunicare con gli spiriti che dimorano nell’acqua, negli alberi, nel fuoco. Nella cultura nenec, il fuoco è il grande principio della vita, e chiunque lo minacci mette a repentaglio la vita stessa: il čum, la famiglia, la stirpe. Per questo motivo la madre di Alëška conclude il suo dialogo con il fuoco asserendo: “Se mio figlio ti augurerà la morte…brucialo!” (p. 38).
È proprio alla donna, infatti, che spetta il diritto di conversare con il fuoco e cogliere attraverso i suoi crepitii e le sue fiammate, i messaggi che esso rivela. Il fuoco stesso è donna. Dove c’è una donna, c’è un focolare, l’una non può esistere senza l’altro. A questa legge mai si sottraggono alcuni personaggi femminili di Muschio Bianco: la mamma di Alëška che per anni, anche a costo di grandi sacrifici, ha tenuto il fuoco acceso nel čum; e sua nuora che, nonostante l’indifferenza e l’umiliazione subita da Alëška, non lascia che questo fuoco si spenga. Sono loro a incarnare l’essenza del vivere alla maniera nenec, in autentica comunione con la natura tanto che, alla fine del romanzo, vengono comparate a “due ruscelli” che confluiscono in un unico fiume.
Diverso cammino intraprendono Ilne, le sue sorelle e i figli di Chasava che violano la legge della tundra non facendo più ritorno all’accampamento o tornando da avvoltoi, lasciando i loro padri senza čum e senza la “tavola della vita”, quella “tavola” che richiede mani gentili e un’anima buona perché il pane sia vero nutrimento e non sembri di pietra. Sarà il vecchio Vanu a intervenire in soccorso di Petko e Chasava non potendo rassegnarsi all’idea che essi rimangano soli.
Nel piccolo universo raccontato in Muschio Bianco alla base delle relazioni tra gli anziani vi sono comprensione, empatia e aiuto reciproco; mentre nei giovani, affascinati e corrotti dalle promesse e dalle tentazioni della vita moderna, prevalgono incomprensione, rifiuto e disinteresse per le vite degli altri. Il conflitto intergenerazionale presente in Aniko viene quindi ripreso in questo secondo libro che narra nuovamente di padri abbandonati, incapaci di accettare un mondo che cambia intorno a loro e di figli che non ritornano mai per davvero; di destini di donne segnate da leggi che non si possono mutare ma solo accettare o rifiutare integralmente; di figure archetipiche stagliate nel bianco di una natura potente, antica e remota ma che si trasfigurano nella loro universalità e nelle quali ciascun lettore è destinato a ritrovare qualcosa di sé, della sua vita e del suo mondo.
Apparato iconografico:
Immagine di copertina: https://kulturomania.mirtesen.ru/blog/43537232136/Knigi-Annyi-Nerkagi-perevedut-na-italyanskiy-i-kitayskiy-yazyiki