Luca Baruffa
Una nuova traduzione de La principessa Brambilla (“Prinzessin Brambilla”, 1820) di E.T.A. Hoffmann, firmata Giulia Ferro Milone, approda presso L’orma Editore (2024) corredata da un ricco apparato paratestuale: le note a cura della traduttrice e il vivace apparato iconografico realizzato da Antonio Almeida, che riproduce le otto immagini commissionate dallo stesso Hoffmann all’artista Carl Friedrich Thiele come accompagnamento al testo, rendono questa edizione, ulteriormente impreziosita da uno scritto di Charles Baudelaire tradotto da Lorenzo Flabbi, unica nel suo genere. In copertina, Gian Farina e Francischina (1820), sempre di Thiele, apre il sipario a un Marionettentheater, per dirla con Mittner, dove le maschere della Commedia dell’arte prendono vita in una vorticosa realtà immaginifica.
Link al libro: https://www.lormaeditore.it/libro/9791254760727
Ad aprire il testo, un capriccio che si compone di otto capitoli e una premessa dell’autore, sono le note dell’Ave Maria, che non solo impostano sin da subito il tono dell’opera, pervasa e significata dall’elemento del suono, ma rivelano anche l’interesse e l’amore di Hoffmann per la musica: Ernst Theodor Wilhelm (Könisberg, 24 gennaio 1776 – Berlino, 25 giungo 1822), “che a partire dal 1804 assunse il terzo nome “Amadeus” in omaggio all’amato Mozart” (p. 7), fu musicista prima ancora che narratore, e ad oggi resta una delle figure più poliedriche del romanticismo tedesco.
“Potresti almeno toglierti il fazzoletto dalla testa per sentire la musica del giardino che incanta l’animo e dinnanzi alla quale ogni dolore terreno svanisce.” (p. 147)
Hoffmann incarnò perfettamente l’ideale dell’artista romantico, combinando in sé i talenti di musicista, scrittore, e pittore, a cui si aggiunse la carriera da giurista. La sua vocazione per la musica lo portò a lavorare come compositore e direttore d’orchestra in diverse città europee, come si legge dalla cronologia hoffmanniana curata da Matteo Galli e posta all’inizio del volume; tuttavia, è per la sua opera letteraria che viene principalmente ricordato. Le sue storie, intrise di elementi fantastici e grotteschi, esplorano i confini tra realtà e immaginazione, spesso con una vena ironica e critica della società del tempo, e le sue opere – tra cui ricordiamo i celeberrimi Fantasiestücke in Callots Manier (“Racconti fantastici alla maniera di Callot”, 1814-1815), il romanzo Die Elixiere des Teufels (“Gli elisir del diavolo”, 1815-1816) e la fiaba Der goldene Topf (“Il vaso d’oro”, composta nel 1813) – sono diventate pietre miliari della letteratura tout court. Infatti, l’influenza di Hoffmann, che fu anche un acuto osservatore delle contraddizioni umane e sociali, e che utilizzò il fantastico per riflettere sulle ansie e sulle paure della modernità nascente, andò ben oltre la letteratura tedesca, ispirando autori, compositori e artisti in tutta Europa e altrove, basti pensare al fascino che la sua opera esercitò su scrittori del calibro di Poe, Gogol’ e Dostoevskij. Morì prematuramente a quarantasei anni, lasciando un’eredità artistica che continua a essere studiata e celebrata: la sua capacità di fondere musica, arte e narrativa in un’unica visione creativa lo rende a tutti gli effetti un unicum nel panorama culturale dell’Ottocento.
“[I]l riso causato dal grottesco ha in sé qualcosa di profondo, di assiomatico e di primitivo che si avvicina molto di più alla vita innocente e alla gioia assoluta rispetto al riso provocato dal comico dei costumi. […] Il comico assoluto [il grottesco] è essenzialmente «alto», il che lo rende appannaggio di quegli artisti superiori che posseggono una sufficiente capacità di assimilare una qualsiasi idea assoluta. Così l’uomo che finora ha meglio percepito queste idee e ne ha implementato una parte in opere di pura estetica, e al tempo stesso di creazione, è Theodor Hoffmann.” (pp. 183-184)
La realizzazione, nella propria opera, del binomio costituito da estetica e creazione, o creatività, è, secondo Baudelaire, una delle cifre distintive della piuma hoffmanniana. Attraverso l’uso di quello che il poeta francese definisce “comico assoluto”, cioè il grottesco – elemento deformato/re di raccordo tra fantasia e realtà, che di queste due dimensione svela il connubio e il rapporto autodistruttivo –, Hoffmann sarebbe stato in grado non solo di unire orazianamente l’utile al dilettevole, “[coprendo] di forme poetiche la profondità del suo sapere scientifico, come un saggio che si esprima attraverso apologhi e parabole” (p. 185), ma anche di provocare il riso a partire da un grottesco che per definizione ignora se stesso, fatta eccezione per chi ha scelto di fare del comico il proprio mestiere: gli artisti, infatti, consapevoli “che l’essenza di questo comico è fingere di ignorarsi” (p. 186), lo creano intenzionalmente, e così facendo si sdoppiano, indicando dunque per primi l’esistenza, nell’essere umano, “di una dualità permanente, la capacità di essere contemporaneamente sé e altro da sé. […] [L]’artista può dirsi tale solo a condizione di essere duplice, e di non ignorare nessun fenomeno di questa sua duplice natura.” (p. 186)
Le parole di Baudelaire echeggiano familiari più di cinquant’anni dopo nel saggio di Sigmund Freud Das Unheimliche (1919) sul concetto di “perturbante”, della cui manifestazione estetica il padre della psicanalisi indicò Hoffmann come il maestro. La definizione che ne diede Freud – “quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo” (p. 270) – suggerisce che il termine tedesco unheimlich, letteralmente “non familiare”, contiene paradossalmente il suo contrario, ciò che è heimlich, “familiare”. Riferendosi in particolare alla definizione che Schelling dà di unheimlich – “tutto ciò che dovrebbe restar… segreto, nascosto, e che è invece affiorato” (p. 275) –, Freud giunge alla conclusione che unheimlich è in qualche modo una sorta di heimlich nella misura in cui esso implica una negazione di ciò che è segreto e nascosto, e non indica una mancanza di familiarità, ma piuttosto una mancanza di segretezza, riconducendo heimlich al campo semantico di ciò che è segreto, in tedesco geheim, ovvero “nascosto” o “rimosso”.
Ecco, dunque, che proprio nella riemersione del rimosso dalle profondità dell’inconscio, e nella sua persistente reiterazione, si manifesta il perturbante freudiano, che trova affinità con il grottesco per via della di quest’ultimo artificiosità e natura ossimorica, manifeste specialmente in quelle dinamiche che vedono la fantasia onirica riversarsi e riemergere episodicamente in e da una realtà che ne funge da cornice, ma con la quale a poco a poco si consuma e infine si annienta.
Nell’opera di Hoffmann, le osservazioni baudelairiane e freudiane convergono non solo nelle dinamiche d’azione, ma anche e soprattutto nei momenti di riflessione e nelle dichiarazioni di poetica dell’autore disseminati lungo il testo. La principessa Brambilla, con le sue apostrofi al lettore, ne rappresenta un esempio eloquente:
“[B]isognerebbe rendere onore a chi ha inventato il sogno. Non quel sogno che sorge dal nostro intimo quando ci troviamo sotto la morbida coltre del sonno, no, quell’altro, vale a dire il sogno che sogniamo nel corso di tutta la vita, il sogno che spesso prende sulle proprie ali il peso opprimente dell’esistenza terrena, e dinnanzi al quale ammutolisce ogni amara sofferenza, ogni sconsolato lamento per le speranze deluse, poiché esso stesso, raggio celeste sfuggito al nostro petto, ci promette insieme all’infinito struggimento anche il suo pieno compimento.” (p. 92)
Un connubio di capriccio e fiaba (p. 91), questo testo hoffmanniano esalta il sogno come manifestazione e riflusso del mondo interiore dell’essere umano nella realtà; così, sia il personaggio che il lettore si ritrovano divisi tra queste due dimensioni, sperimentando un dualismo mutevole tra familiarità ed estraneità che rende perturbante ciò che è noto. Esemplare, in tal senso, è lo sdoppiamento di uno dei protagonisti, l’attore Giglio Fava. Fin dalle prime pagine, infatti, si sviluppa una tensione scenica a suo carico che culmina in un falso finale: Giglio, nei panni di una maschera del Carnevale, sembra morire per mano propria sotto le vesti di un’altra maschera, definita “principesca”, generando il riso, perturbante, del pubblico che ha assistito al duello:
“Sì, si potrebbe proprio dire che il capriccio si interrompa con una dissonanza irrisolta. Si racconta infatti che al principe (non può trattarsi d’altri che di Giglio Fava che minacciava di morte Giglio Fava stesso) venne all’improvviso un tremendo mal di pancia […]; poi ci fu un grande fracasso. Ma non c’è modo di sapere né cosa fosse questo fracasso, né in qual modo il principe, alias Giglio Fava, uscisse dal palazzo insieme a Celionati. […] Giglio fece una finta, la spada dell’avversario lo colpì al petto, ed egli cadde esanime al suolo. Nonostante la tragica fine del duello, la folla scoppiò a ridere fragorosamente […] quando la salma di Giglio fu trasportata via.” (pp. 141-145)
Ne La principessa Brambilla, una Roma immaginaria impegnata nelle celebrazioni del Carnevale fa da sfondo alle vicende amorose di Giglio, appena menzionato, e Giacinta Soardi, una sarta di cui il giovane è innamorato. Le avventure inverosimili e gli incontri fantastici vissuti dai sue, mossi e alimentati dall’ossessione di Giglio per la misteriosa principessa Brambilla, aprono le danze a una variegata gamma di personaggi immersi in una realtà onirica tipica dell’immaginario hoffmanniano.
“In uno stato d’animo […] trasognato […] venne a trovarsi il giovane attore Giglio Fava dopo aver cercato invano […] di rinvenire anche la minima traccia della principessa Brambilla. Ogni incontro meraviglioso che gli capitava di fare […] gli pareva la continuazione di quel sogno in cui aveva visto per la prima volta la bella principessa; la sua immagine emergeva dal mare senza fondo del suo struggimento, un mare nel quale avrebbe voluto perdersi, dissolversi. Viveva soltanto dentro il suo sogno, tutto il resto era un nulla vuoto e insignificante; si può ben comprendere perciò che trascurasse completamente anche il suo lavoro d’attore. Anziché recitare la sua parte gli capitava addirittura di mettersi a parlare della sua visione, della principessa Brambilla, e giurava che avrebbe catturato il principe assiro, che lui stesso sarebbe diventato principe, e così nella confusione dei suoi pensieri si smarriva in un labirinto di discorsi folli e incomprensibili.” (p. 50)
Contribuiscono a questo marasma le immagini grottesche che si susseguono pagina dopo pagina, capitolo dopo capitolo, e che a loro volta generano un senso di smarrimento e derealizzazione che porta sia i personaggi che i lettori a perdersi, respingersi, confondersi e infine ritrovarsi non solo nel caos di maschere, colori e suoni da cui si fanno trasportare durante tutta la narrazione, ma anche nelle loro interazioni reciproche e nei loro stessi pensieri.
“A Giglio non sembrava di essere stato lui a parlare con la principessa, era come se avesse pronunciato del tutto involontariamente parole di cui lui stesso non capiva il senso […]. Ma siccome in quel momento si stava avvicinando un corteo di maschere che fra mille smorfie assurde rappresentavano i mostri più deformi che la fantasia avesse mai partorito, […] gli tornò subito tutta la sfrenata allegria di prima. Si mescolò alla folla che saltava e ballava gridando a gran voce: «Muoviti, muoviti, pazzo fantasma! Muovetevi, potenti spiriti della burla e delle carnevalate più irriverenti! Ora son tutto vostro, e vi prego di considerarmi uno di voi!».” (pp. 67-68)
In ultima analisi, il Carnevale che incornicia le avventure dei protagonisti, con i suoi colori, musiche, balli, maschere e figure grottesche, rappresenta l’espediente ideale per la realizzazione estetica di una poetica che a posteriori potremmo ricondurre al perturbante freudiano. Tuttavia, lascia il lettore con la promessa di un ritrovamento, di un riconciliamento, avvolgendolo in quel vortice romantico di emozioni e suggestioni che solo le opere di Hoffmann sanno evocare: “E […] come dar torto al povero Giglio se, vittima di una strana eccitazione, anche da sveglio sognava di principesse e di meravigliose avventure.” (p. 33)
Bibliografia:
Sigmund Freud, Il perturbante, in “Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio”, Torino, Bollati Boringhieri, 1991, pp. 269-307. Traduzione italiana a cura di Silvano Daniele. Titolo originale: Das Unheimliche, ed. 1919.
Ernst Theodor Amadeus Hoffmann, La principessa Brambilla, Roma, L’Orma, 2024. Traduzione italiana a cura di Giulia Ferro Milone. Titolo originale: Prinzessin Brambilla, ed. 1820.
Apparato iconografico:
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