“Ljubov’ eto ne šutka – Love is no joke”. Joanna Stingray e il rock leningradese degli anni Ottanta

Intervista a cura di Marco Jakovljević e Martina Mecco

 

Ты уходишь так рано и приходишь так поздно домой
Я скучаю целый день, я смотрю во двор в окно
Я хотел бы все время быть только с тобой
Но пока я без тебя и в душе моей темно
Любовь — это не шутка. Ты знаешь, я не шучу

Te ne vai così presto e torni a casa così tardi
Mi manchi tutto il giorno, guardo il cortile dalla finestra
Avrei voluto trascorrere tutto il tempo solo con te
Ma ora sono senza di te e la mia anima è nell’oscurità
L’amore non è uno scherzo. Sai che non scherzo

 

Nell’immaginario comune, l’idea dell’artista occidentale in Unione Sovietica la si associa in primo luogo a David Bowie, che nell’aprile del 1973, dopo aver terminato parte del suo Ziggy Stardust tour in Giappone, ammiccava dal finestrino di un vagone sulla Transiberiana. In secondo luogo, almeno per quanto riguarda il contesto italiano, un’immagine iconica è quella di Raffaella Carrà risalente al 1981, quando in piena epoca brežneviana era intenta a cantare Fiesta sullo sfondo del Cremlino e altri luoghi moscoviti, come il Mossovet o la Galleria Tredjakova. Molti furono, d’altronde, gli “italiani veri” che varcarono la cortina di ferro sin dai tempi di Nikita Chruščëv, come ben mostrato da Marco Raffaini nel suo documentario omonimo del 2013. Tuttavia, il nome di Joanna Stingray non gode forse della stessa notorietà tra il pubblico di coloro che oggi prova ancora fascino per l’incredibile stagione del rock sovietico.

Joanna Stingray, pseudonimo di Joanna Fields, nacque a Los Angeles nel 1960 e iniziò la sua carriera di musicista sin da giovane, pubblicando nel 1983 il suo album di debutto, Beverly Hills Brat. Nel 1984 decise di partire con la sorella per un viaggio in Unione Sovietica. Convinta di poter sfondare con la sua musica in un Paese che, apparentemente, era privo di una scena rock, i suoi incontri con i principali musicisti leningradesi dell’epoca rivelarono l’opposto, cambiando radicalmente le sorti del suo destino.

Il primo contributo di Stingray alla diffusione del rock leningradese fu la produzione americana dell’album Red Wave: 4 Underground Bands in the USSR, realizzato nel 1986 da Big Time Records, una piccola casa discografica attiva negli anni Ottanta con base a Sidney e alcune filiali a Londra e a Los Angeles. All’interno vi era una selezione tratta dalla produzione di quattro band della scena di Leningrado: Akvarium, Kino, Alisa e Strannye Igry. Non era, in realtà, la prima volta che il rock sovietico varcava i confini del Paese. Difatti, la prima band che ebbe occasione di esibirsi fuori dall’Unione Sovietica furono gli Avtograf. Poco dopo la sua fondazione nel 1979, all’inizio degli anni Ottanta, il gruppo si esibì all’estero in una tournèe che coinvolse più di trenta Paesi, principalmente del blocco orientale come Polonia o Bulgaria, ottenendo un successo che si consolidò con la loro partecipazione, nel 1985, al Live Aid nelle vesti di unici rappresentanti della musica d’oltrecortina. Tuttavia, la produzione musicale degli Avtograf è per molti versi diversa da quella prodotta dei gruppi menzionati precedentemente e, considerando lo stile e le sonorità delle loro canzoni, si potrebbe quasi affermare che gli Avtograf siano piuttosto dei “precursori” della musica rock sovietica degli anni Ottanta.

Descrivere o sintetizzare in poche righe le principali vicende della scena rock e punk sovietica degli anni Settanta e Ottanta è pressoché impossibile. Dunque, l’intenzione è ora quella di fornire alcune coordinate per comprendere meglio ciò di cui si andrà a discutere nell’intervista. Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, Leningrado rappresentava senza dubbio un riferimento fondamentale per gli artisti e i musicisti russi dell’epoca. La musica rock in Unione Sovietica era di fatto proibita, ma ciò non implica la necessità di immaginare la scena rock sovietica in termini di un sistema chiuso o sterile, al contrario. Nell’underground si formò infatti una scena di musicisti e artisti che segnò indelebilmente la storia della musica russa. A Leningrado era di casa Boris Grebenščikov, il “Bob Dylan sovietico”, altresì comunemente chiamato “BoGe” (БГ). A partire da BoGe nel 1972 venne a formarsi il gruppo Akvarium, che si ispiravano apertamente a quelle band occidentali che circolavano illegalmente in Unione Sovietica, come i Beatles, e che sintentizzavano queste tendenze con altri generi musicali, come la musica tradizionale russa dei bardi o, per interesse personale di BoGe, quella celtica o indiana.

All’inizio degli anni Ottanta la situazione iniziò lentamente a cambiare e nella scena rock sovietica si registrarono delle lievi distensioni da parte del rigido controllo statale. Ad esempio, nel marzo del 1980 si tenne a Tbilisi il festival Vesennye Ritmy, a cui parteciparono band come i celeberrimi Mašina Vremena o i già menzionati Avtograf. Tuttavia, non erano presenti quei protagonisti dell’underground leningradese degli anni Ottanta, fatta eccezione per gli Akvarium, che vennero squalificati per aver tenuto un comportamento “poco corretto” sul palco e, di conseguenza, non vennero inseriti nell’album Laureaty festivalja Vesennie Ritmy Tbilisi-80, prodotto da Melodija [1] un anno dopo.

Nel 1981, venne aperto a Leningrado il Leningradskij rok-klub (Il Rock Club di Leningrado), dove i gruppi dell’underground come i Kino, gli Akvarium o i DDT potevano esibirsi pubblicamente sorvegliati dagli agenti del KGB. Il 1981 fu anche l’anno dei primissimi esperimenti di Viktor Coj nel gruppo Garin i giperboloidy, che dopo l’abbandono di Oleg Valinskij si trasformò nei Kino. Un anno dopo, nel 1982, i Kino produssero il loro primo album, intitolato 45, con l’aiuto di BoGe e degli Akvarium. Con 45 si è ancora ben lontani dall’enorme successo di Gruppa Krovi o Zvezda po imeni Solnce, ma si percepiscono già alcuni tratti distintivi della band. Il 1982 fu anche l’anno in cui iniziò il successo degli Strannye Igry. Il gruppo, di cui facevano parte i fratelli Viktor e Grigorij Sologub, era stato fondato clandestinamente nel 1979, ma durante i primi di anni di attività non era riuscito a definirsi strutturalmente né a darsi propriamente un nome, passando ad esempio da “Sugar Pipes” a “Spartak”. Fu solo nel 1981 che l’ossatura dei futuri Strannye Igry si consolidò, per poi presentarsi ufficialmente al Leningradskij rok-klub nella primavera del 1982 e, nel 1983, incidere il loro primo album Metamorfosy. Il 1983 fu, infine, l’anno della fondazione della quarta band presente in Red Wave, gli Alisa. Il gruppo emerse dalle ceneri dei Chrustal’nyj Šar e dei Demokritov Kolodec per iniziativa del bassista Svjatoslav Zaderij, soprannominato per l’appunto “Alisa”. Tuttavia, il vero leader e figura centrale del gruppo fu Konstantin Kinčev, che giunse da Mosca a Leningrado nel 1984. All’epoca Kinčev aveva già diversi anni di esperienza nella scena rock moscovita, fondando un proprio gruppo, gli Slomannyj vozduch, il quale, tuttavia, si sciolse nel giro di un anno e non lasciò alcuna testimonianza registrata.

Questo breve excursus non rende la complessità dell’ambiente musicale leningradese. Inoltre, sebbene Leningrado giocasse un ruolo cruciale all’epoca della nascita e dell’evoluzione del rock sovietico, non era l’unico centro musicale o culturale in cui si sviluppò questo fenomeno. È bene qui citare naturalmente il contesto moscovita, sede di gruppi come gli Zvuki Mu, i Krematorij, i Bravo o i più amatoriali Kabinet. In particolare gli Zvuki Mu, fondati all’inizio degli anni Ottanta intorno alla figura del cantante Pëtr Mamonov, divenne celebre per la sua sperimentazioni dei sottogeneri della musica rock, riuscendo a inglobare diversi stili e tendenze dell’epoca. Accanto ai due centri principali di Leningrado e Mosca occorre considerare almeno altri due complessi scenari musicali. In primo luogo, la regione degli Urali. Ekaterinburg fu infatti la sede dei Čajf, dei Nautilus Pompilius, gli autori della colonna sonora del celebre film di Aleksej Balabanov Brat, o degli Agata Kristi. A chiusura di questa brevissima mappatura vi è poi l’incredibile arcipelago del Sib-punk, il punk siberiano, in cui si individuano figure come Egor Letov o band come i Central’nyj Gastronom o i Černozëm, entrambi di Tjumen, o i Piščevye Otchody di Novosibirsk. Non si dimentichi, infine, Janka Djagileva che sulle rive dell’Ob cantava “от большого yма лишь сyма да тюpьма, от лихой головы лишь канавы и pвы”.

Ai fini di contestualizzare meglio la figura di Joanna e introdurre a quanto detto nell’intervista, è interessante tracciare un parallelo con un caso analogo proveniente dal contesto ex-jugoslavo, più precisamente con il romanzo dell’autore sloveno Dino Bauk I sognatori di Lubiana (edizione italiana a cura di Bottega Errante). La trama segue la storia di tre adolescenti lubianesi amanti del rock e del punk e di una giovane mormona statunitense, Mary, che, dopo essersi recata in Jugoslavia assieme ad altri missionari per fare proselitismo, si innamora di Denis, uno dei tre ragazzi citati, ma anche del rock jugoslavo e della vita spensierata che i giovani hanno in quello che negli Stati Uniti veniva considerato, tutto sommato, un grigio paese socialista. Mary abbraccia definitivamente lo stile di vita dei propri coetanei jugoslavi, arrivando ad abbandonare la propria religione e la propria famiglia. In una lettera alla madre, Mary confessa che, pur trovandosi in un paese totalitario pieno di difetti, non si è mai sentita così libera e non ha mai visto persone così genuine e spensierate come i propri amici lubianesi, che hanno vissuto a pieno la propria gioventù al ritmo di punk e rock. Le parole di Mary ricordano e, in certi punti, sembrano addirittura ricalcare quelle di Joanna, anch’essa ritrovatasi in un paese così demonizzato dalla propria famiglia e dalla politica occidentale, ma che era destinato a cambiare per sempre la sua vita. Una canzone della band new-wave croata Prljavo Kazalište recita: “u teška vremena treba imati noge za plesanje”, nei momenti difficili bisogna avere le gambe per ballare. Trattasi di un invito a far musica e a divertirsi anche quando un sistema è particolarmente duro o durante un momento di crisi (non a caso, la canzone è stata composta durante la crisi economica in Jugoslavia successiva alla morte di Tito nel 1980). Questa la filosofia che accomunava i rocker jugoslavi e sovietici (pur essendo i primi decisamente più liberi dei secondi) e che, nella sua semplicità e spigliatezza, ha affascinato nella fantasia Mary e, nella realtà, Joanna.

“Andergraund Rivista” ha intervistato Joanna in diretta dalla sua casa di Los Angeles, ripercorrendo le tappe attraverso la sua scoperta della scena musicale leningradese e della sua diffusione in Occidente. Ringraziamo Joanna per il tempo dedicatoci.


©Joanna Stingray

Martina Mecco: Questa intervista è stata concepita con l’obiettivo di raccontare la tua storia, quindi spero che non ti dispiaccia se la imposteremo in modo narrativo. Sei giunta in Unione Sovietica nel 1984. Come ci sei arrivata e con quali aspettative? Che idea avevi dell’Unione Sovietica prima di arrivarci e in che modo è cambiata una volta che sei stata a Mosca e Leningrado?

Joanna Stingray: Sono andata per la prima volta in Russia nell’aprile 1984. La mia idea della Russia corrispondeva a quella della maggior parte degli americani dell’epoca: la Russia era un luogo orribile, arretrato e in cui le persone erano tristi. Un’immagine spaventosa e respingente: insomma, un posto dove non vorresti mai andare. Mio padre negli anni Sessanta aveva girato un film chiamato The Truth about Communism (“La verità sul comunismo”), lo aveva prodotto in casa, intrigato dall’idea di girare un film dedicato all’ “impero del male.” Sono cresciuta con lui che mi diceva “non attraversare mai la cortina di ferro, c’è l’impero del male, è un posto orribile in cui andare.” Quindi, questo è quanto avevo nella testa. Ogni informazione o immagine che avevamo riguardante l’Unione Sovietica proveniva dai discorsi dei politici o dai notiziari. Quindi, sapevamo solo che la Russia era spaventosa, un luogo in cui la gente era triste e vestiva abiti grigi o blu scuro. All’epoca stavo tentando la carriera di cantante rock, avevo pubblicato un album ma poi avevo avuto un litigio con il mio manager e tutti i piani erano andati in fumo. Cercavo di capire cosa fare della mia vita. Mi rendevo conto che la mia carriera non stava decollando e avevo bisogno di schiarirmi le idee. Quindi chiamai mia sorella e le chiesi se potessi andare da lei una settimana. Mi rispose che stava per partire per un viaggio in Russia. Non appena sentii quella risposta mi vennero in mente le parole di mio padre: “Non attraversare mai la cortina di ferro, c’è l’impero del male.” E allora pensai che fosse proprio il caso di andarci, era proprio il posto giusto per schiarirmi le idee per una settimana. Mia sorella prenotò anche per me e prima di partire la mia migliore amica mi indirizzò da sua sorella, che aveva sposato un émigré russo. Lo incontrai prima di partire e mi disse: “Ho sentito che ti intendi di rock’n’roll, devi incontrare il mio migliore amico, il Bob Dylan russo, BoGe.” Mi venne quasi da ridere, perché per nessuna ragione al mondo un americano avrebbe potuto credere che nel 1984 c’era il rock’n’roll in Russia, che ci fosse qualcosa di interessante. Questo è il motivo che mi convinse ad andare: per schiarirmi le idee e per andare via da Los Angeles. Mia madre, da tipica madre quale era, mi ripeteva: “Devi solo trovare un lavoro, devi solo darti da fare, trovare un buon lavoro e poi trovarti un buon marito americano…” Avevo solo bisogno di un po’ di spazio. La Russia era la mia via di fuga e non avrei mai immaginato che avrebbe cambiato la mia vita per sempre.

Marco Jakovljević: Vorrei continuare con la questione. Quindi, in generale, come ti ha accolto l’Unione Sovietica? Hai qualche aneddoto su questo impatto culturale? Come venne considerato il tuo arrivo dalle autorità sovietiche o dalle persone comuni?

JS: I primi due minuti dopo essere scesa dall’aereo a Mosca, all’enorme aeroporto di Šeremet’evo, provai qualcosa che non avevo mai provato in vita mia, pensai: “Oddio, mio padre aveva ragione, che cosa sto facendo?” Dovevamo passare in questi corridoi spogli, con le luci fluorescenti, e c’erano soldati dappertutto che non si muovevano, sembravano dei manichini. Ecco, l’arrivo non è stato dei più accoglienti. Poi abbiamo dovuto passare i controlli, dove non c’erano i raggi-x e abbiamo dovuto aprire le valige. Si sono messi a ravanarci dentro per controllare cosa avevamo. E pensai: “Caspita, in che guaio mi sono cacciata?” E poi siamo saliti in bus verso il Kosmos Hotel, un altro enorme edificio senz’anima. Ovunque guardassi non c’era nessuno che sorridesse, la gente camminava e basta. Era tutto grigio, il cielo era grigio, tutto sembrava così freddo e infelice. Le persone sembravano infelici, vestite di nero, sembravano uscite dagli anni Cinquanta o Sessanta, sembravano i miei bisnonni. Ero davvero sconvolta e pensavo: “Che posto da pazzi, non ce la posso fare, devo tornare a casa.” Essendo in gruppo ci avevano detto di restare con la guida, non eravamo autorizzati ad andarcene in giro. Non è che ci dissero che saremmo finiti nei guai, ma comunque insinuarono che se non avessimo seguito le istruzioni ci avrebbero rimandati a casa, che ci sarebbe successo qualcosa di brutto.

Quindi passai tre giorni e mezzo a Mosca con mia sorella sul bus ad ascoltare la guida. Mi sembrava di guardare il film di mio padre sull’orrore dell’Unione Sovietica. Però, c’erano delle cose che catturavano il mio interesse. Mi piaceva il fatto che non ci fosse pubblicità dappertutto: cartelloni, insegne, luci scintillanti, tutto quello che c’era a Los Angeles. E quando vidi i grandi murales comunisti di Lenin e gli slogan, seppur non sapessi il russo, pensai che fossero incredibili. Mi ricordo che pensavo che questi murales fossero in un qualche modo intriganti. Penso che il luogo ad avermi attratto di più sia stata la Piazza Rossa, anche perchè la maggior parte del film di mio padre sulla storia dell’Unione Sovietica riguardava Piazza Rossa, c’erano dei filmati della parata del Primo Maggio, con i carri armati che sfilavano e l’esercito che li seguiva. Era incredibile ritrovarsi al centro della Piazza Rossa e percepirne l’immensità. Nel senso, è davvero uno spazio enorme: il mausoleo di Lenin, il Cremlino, tutte quelle cose sul comunismo e poi, girandosi, la magnificenza della Cattedrale di San Basilio. Provavo sentimenti contrastanti, c’era qualcosa di interessante, di meraviglioso nell’architettura, con quei colori. Pensai che forse c’era qualcosa di buono, laggiù. La guida ci disse che Ivan il Terribile aveva commissionato la Cattedrale di San Basilio a un architetto e che, vista la bellezza della cattedrale, aveva fatto cavare gli occhi all’architetto affinché non potesse riprodurre qualcosa di simile. E all’improvviso tutta quella bellezza scomparve e mi ritrovai di nuovo in quel luogo malvagio. Dopo i giorni trascorsi a Mosca mi ero quasi convinta del fatto che mio padre avesse ragione, che non ci sarei mai più ritornata. Poi andammo a Leningrado e decisi di andare a cercare quel tizio che mi avevano suggerito a Los Angeles, un certo Boris. Boris non aveva il telefono, ma il suo violoncellista ce l’aveva. Andai dalla babuška che sorvegliava il mio palazzo e le chiesi se potevo fare una telefonata. In breve, ci siamo messi in contatto e abbiamo fissato un appuntamento con Boris per le cinque alla metro vicino all’hotel. Chi ha letto il mio libro lo sa, quel primo incontro con Boris, cambiò tutta la mia vita, tutto il mio percorso, tutto il mio destino.

MJ: Eri solita a portare la musica occidentale nell’underground sovietico. Sebbene sia avvenuto in anni di importanti cambiamenti per la società sovietica e per i Paesi satellite, ciò che stavi facendo sarebbe stato impensabile qualche anno prima. Che difficoltà hai incontrato, se ne hai incontrate? Che relazione avevi con la censura?

JS: Nel 1984, quando andai per la prima volta in Russia, e nel periodo immediatamente successivo, quando cercavo di tornarci ogni tre mesi, non c’erano stati molti cambiamenti, il Comunismo era ancora a pieno regime. Sebbene Gorbačëv fosse stato eletto nel 1985, non iniziò a fare nulla prima del 1986. I cambiamenti della glasnost’ o della perestrojka non si sono percepiti fino alla fine degli anni Ottanta. Durante i miei primi due anni in Russia venivo percepita come una spia, come in quei film americani dove senti di essere seguita. Non potevo neanche noleggiare un’auto, avrebbe destato sospetti. Intervistando Boris e gli altri rappresentanti del rock sovietico capii come erano sopravvissuti nell’underground: non facevano soldi con la loro musica, non potevano registrare dei dischi, non potevano andare in TV o alla radio. Erano banalmente considerati degli amatori, non degli artisti in tutto e per tutto. Sebbene fossero dei musicisti dell’underground la loro fama cresceva e il governo dovette fare qualcosa. Fu così che venne aperto il Leningradskij rok-klub, un piccolo club con 300 posti a sedere dove il KGB supervisionava di continuo. Appresi dalle band che anche se facevano parte dell’underground i testi delle loro canzoni venivano controllati: a volte non potevano cantare certi testi oppure dovevano modificarli. A volte venivano arrestati. Afrika venne arrestato dopo un concerto per aver dipinto di rosa i suoi capelli. Dopo aver sentito questi racconti andai al mio primo concerto al rok-klub, era il Marzo del 1985. Dopo il concerto stavo cercando di lasciare la sala e venni afferrata da due uomini che mi portarono in una stanza buia per farmi delle domande: era, ovviamente, il KGB. 

Mi toccò spesso fare i conti con i servizi segreti, soprattutto quando cercavo di esportare la musica russa negli Stati Uniti. Poi, divenni un problema per l’FBI. Anche loro mi contattarono per interrogarmi su cosa stessi facendo. Sinceramente, per me non c’era alcuna differenza tra il KGB e l’FBI, mi sembrava provenissero dallo stesso sistema educativo. Entrambi pensavano che fossi una spia, e capisco perché, a quei tempi, una ragazza che entrava e usciva dall’Unione Sovietica ogni tre mesi era sospetta. Ma avevano una mentalità molto ristretta e nessuno dei due poteva credere che potessi andarci per la musica, pensavano che fossi una spia. Al posto di chiamarmi e dirmi: “C’è qualcosa di sospetto, lei sta facendo avanti e indietro dalla Russia, abbiamo bisogno di incontrarla”, sia il KGB che l’FBI si inventavano degli escamotage per interrogarmi, celando la loro identità. Quelli del KGB hanno finto di essere professori di sociologia e l’FBI di voler intervistare mia madre per il film di mio padre, ma mia madre e mio padre erano divorziati da quindici anni. Mio padre era vivo, avrebbero potuto chiamarlo. Quindi, c’erano così tante somiglianze tra l’FBI e il KGB. E pensavo: “Dio mio, devono aver studiato tutti nello stesso posto.” Era frustrante perché avevo paura che mi rifiutassero il visto e sapevo che quello che stavo facendo era per la pace, per mostrare ai nostri due Paesi quanto avessimo di simile e di comune. Era così frustrante perché quando dicevo loro cosa stavo facendo davvero, nessuno dei due mi credeva. Non credevano che qualcuno potesse essere così appassionato di musica rock russa. Ma io lo ero.

©Joanna Stingray

MM: Tra i primi incontri che hai avuto, quello con Boris Grebenščikov, il “Bob Dylan sovietico”, è stato uno dei più importanti. Può raccontarci come vi siete conosciuti e cosa hai pensato quando hai ascoltato la sua musica per la prima volta? Com’è stato l’incontro con il giovane BoGe?

JS: Come ho già detto, non credevo ci potesse essere una scena rock in Russia. Quando ci andai per la prima volta mi chiesi se volessi conoscere queste rock band o meno. Portai con me il mio album chiamato Beverly Hills Brat e alcune mie foto promozionali. Poi, quando incontrai Boris in casa del suo violoncellista venni accolta secondo la tipica ospitalità dei russi, con del tè e dei dolcetti. Ci eravamo seduti e Boris ascoltava la mia musica nelle cuffie. E disse: “Oh, quella canzone, Boys, they are my toys, suona un po’ punk.” Ero così felice e pensavo “devono essere così felici di incontrare una rocker” e gli mostrai le mie foto. Poi, per essere gentile, dissi “posso ascoltare un po’ della tua musica?” pensando che non potesse essere del rock autentico. Mi diede una cassetta e la misi nel mio walkman.  Quando misi le cuffie mi disse che potevano registrare solo su due tracce, quindi mi aspettavo di sentire solo una musica molto sottile, due tracce erano vecchio stile, non propriamente rock. E, invece, lo feci partire e non appena la musica iniziò, era la sua canzone Segodnja noč’ju, sentii immediatamente una scarica nel mio corpo. Era incredibile. E mentre la musica andava avanti (c’è un’introduzione molto lunga prima che Boris inizi a cantare) ero così colpita da sentirla nel profondo della mia anima. Non sapevo come avessero fatto a produrre qualcosa del genere su due tracce. Boris iniziò a cantare, la sua voce era così bella e struggente. Mentre ascoltavo quella canzone, provavo emozioni contrastanti: “Oh mio Dio, questa canzone è così triste… Ah no, è piena di speranza… No, è oscura… No, è leggera.” Le mie sensazioni erano così forti che all’improvviso ebbi un’epifania: “Oh mio Dio, questa è pura musica rock. Questo è ciò che la vera musica rock fa alla tua anima.” Il mio pensiero immediatamente successivo fu: “Dio mio, sono un’ipocrita.”

E iniziai a ciondolarmi sulla sedia, realizzando di non essere un artista. Non ero una rocker. Stavo solo fingendo di scrivere delle canzoni stupide, di fare un album. In quel momento realizzai che Boris era un vero artista, lo avevo già capito un minuto prima guardando nei suoi occhi. In qualche modo compresi che quella persona avrebbe cambiato la mia vita. Non sapevo ancora se sarebbe diventato un buon rocker, ma c’era qualcosa in lui. Quando sentii la sua musica, sentii questo polo magnetico che mi spingeva a voler essere al suo fianco. Come se fosse una persona con una luce. E ci sono persone nel nostro mondo che hanno una luce, il resto di noi vuole stare vicino a loro perché è bello stare vicino a qualcuno così, perché poi ricevi un po’ di quella luce su di te e ti appaga. Così, dall’ascolto di quella sua prima canzone, è cambiato tutto.

Quest’anno ricorre il quarantesimo anniversario del mio primo viaggio in Russia e mi rendo conto che se non ci fosse stato quell’incontro con Boris e non avessi ascoltato la sua musica, per me non ci sarebbe stata la Russia. Sarei tornata a casa e non ci sarei mai più andata. Il destino, qualcosa nel mondo, mi ha portata da lui, mi ha portata a quella prima canzone che mi ha dato da ascoltare: ha cambiato tutto per me.

©Joanna Stingray

MM: Ora, vorrei chiederti del tuo incontro con la band Kino, di come tutto è iniziato e di come era Viktor Coj all’epoca? In effetti li hai incontrati ai primi passi della loro carriera, non erano ancora le leggende che poi sono diventate. Ho pensato a lungo a come farti questa domanda riguardo a te e ai Kino, ma visto che ha significato così tanto per te, preferirei non fosse specifica e lascerei che sia tu a dirci cosa emerge dai tuoi ricordi…

JS: Certo. Quello che posso dire riguardo ai Kino è che, da quando ho scritto i miei libri e ho riguardato i miei vecchi video e le foto, essendo più vecchia ora capisco molto meglio cosa mi ha attirato della Russia. Tutte le persone che ho incontrato hanno avuto un effetto su di me, ma ce ne sono tre che hanno davvero avuto un ruolo fondamentale nella persona che sono diventata e che sono oggi: Boris Grebenščikov, Sergej Kurjochin e Viktor Coj. Vi parlerò a grandi linee di ognuno di loro. 

Boris ha una specie di dono. Lo si può sentire. È molto spirituale e ha questa energia straordinaria nel mondo. E Boris lo sa, sa di essere un essere speciale, ma senza ego, il che è molto positivo. Sergej era un genio, ne era cosciente, tutti quelli che lo circondavano sapevano che era un genio. Sono diventata molto amica sia di Boris che di Sergej, ma loro erano di un altro livello. Erano persone uniche che mi mettevano in soggezione e che avevano dei poteri speciali. 

Quando ho incontrato Viktor, io e lui siamo entrati subito in sintonia. Sembrava che fossimo vecchi amici. Viktor era completamente diverso da Boris e Sergej, perché aveva un talento straordinario, ma non lo capiva e non lo riconosceva. Quando sono diventata amica di Viktor e ha iniziato a diventare sempre più famoso, ricordo un fatto: eravamo in un panificio e lui stava comprando del pane, io continuavo a voltarmi e vidi che fuori c’erano dei ragazzi che guardavano attraverso vetrina e notarono che si trattava di Viktor Coj. Quando Viktor e io uscimmo dal negozio, c’erano venti ragazzi che gli stavano addosso, volevano toccargli i capelli e gli volevano chiedere l’autografo. E lui era così imbarazzato. A un certo punto disse: “Jo!”, mi afferrò la mano e iniziammo a correre per la strada, mentre questi venti ragazzi ci inseguivano e noi ridevamo. E Viktor mi guardava, come a dire: “Perché ci inseguono?” Viktor era molto diverso, perché non ha mai capito di avere qualcosa di così straordinario, di essere speciale e di avere questo talento, e per questo credo che sia stato così grande. Penso che il pubblico russo potesse percepire che in qualche modo era uno di loro. Ecco perché anche nei suoi testi, che parlano della vita ordinaria in Russia, tutti possono immedesimarsi. Per me Viktor è stato un vero e proprio migliore amico, io e lui ci sentivamo sullo stesso piano. Viktor ha sempre avuto qualcosa di diverso dagli altri, credo fosse a causa dei suoi occhi asiatici o del fatto (così si diceva) che da giovane fosse stato vittima di bullismo, perché lo accusavano di essere giapponese o qualcosa del genere. Credo che ci fosse una piccola parte di lui che si sentiva inadatta. E… io mi sentivo così, perché quando i miei genitori divorziarono avevo dodici anni, mia madre si trasferì insieme a me e alle mie due sorelle a Beverly Hills. Non era una città molto ricca, non avevamo soldi e vivevamo in una bifamiliare. Tutti gli altri avevano le loro case enormi, quindi mi sono sempre sentita un po’ fuori posto, inadatta. Penso di aver legato con Viktor per questo motivo, aveva incredibili qualità umane, era il miglior amico che si potesse desiderare. Sai, quando eravamo a un concerto o eravamo entrambi sul palco ognuno era preso dalle proprie cose, c’era chi suonava, chi beveva… Viktor mi guardava sempre dall’altra parte della stanza o dall’altra parte del palco, come a dire: “Stai bene?” Mi seguiva sempre con lo sguardo e mi controllava per essere sicuro che stessi bene. Era incredibile, aveva un enorme rispetto per le persone, per gli animali, per le cose… Era una persona incredibile dentro e fuori.

©Joanna Stingray

MM: Ti ho chiesto dell’incontro che hai avuto con gli esponenti della scena rock di Leningrado. Ma, come sappiamo, il rock e il punk sovietici non si limitavano alle grandi città di Leningrado e Mosca. Penso al fenomeno del cosiddetto Sib-punk: Egor Letov con i Graždanskaja Oborona o Janka Djagileva che negli anni Ottanta suonavano a Leningrado. Potremmo citare anche altri gruppi, meno noti dei GrOb, come i Central’nyj Gastronom o i Černozëm, entrambi di Tjumen, o i Piščevye Otchody di Novosibirsk. Sei entrata in contatto anche con loro?

JS: A dire il vero avevo più familiarità con la scena rock di Leningrado: il centro del rock russo era Leningrado e tutto era iniziato lì. Conoscevo anche la scena moscovita, come gli Zvuki Mu. Nel 1986 iniziai a conoscere band che provenivano da altre grandi città russe, come Ekaterinburg, dove incontrai i Čajf o i Nautilus Pompilius. I gruppi che iniziavano a diventare famosi in altre città finivano per venire a Leningrado, come i Nautilus Pompilius, i DDT, ecc. Non ho incontrato molte band provenienti dalla Siberia. Il vero catalizzatore è stato Artemij Trojckij [2]. Era davvero l’unico critico rock che viaggiava per tutta l’Unione Sovietica. Quando trovava dei gruppi interessanti, li portava a Leningrado. Più tardi, all’inizio degli anni Novanta andammo in tournée in Siberia e in diverse parti della Russia. Tuttavia, non ricordo di aver incontrato molti altri rocker. In sostanza, avevo familiarità con Leningrado, un po’ con Mosca e un po’ con Ekaterinburg.

Nelle interviste chiedevo se ci fossero altre rocker donne. Durante una delle mie prime interviste con Boris, nel 1984, disse: “Siamo un po’ vecchio stile qui, non abbiamo rocker donne, ma spero che ne avremo.” L’unica che ho incontrato e che conoscevo era Žanna Aguzarova, ma non era propriamente rock. Faceva più che altro performance, ma era magnifica. Era tipo Lady Gaga oggi. Penso sia l’unica donna dell’ambiente che ho realmente incontrato.

©Joanna Stingray

MJ: Come descriveresti l’atmosfera generale della scena rock sovietica? 

JS: Le band del Leningradskij rok-klub erano in buoni rapporti. In Russia non potevano fare soldi, non potevano incidere dischi o andare in televisione. Non potevano nemmeno fare un vero e proprio tour. Quando continui a fare musica in queste condizioni, allora questa diviene la forma di espressione più pura, organica, cruda. Per questo motivo non c’era competizione tra le band di Leningrado, lavoravano insieme. Sergej Kurjiochin suonava in quasi tutte le band. Ricordo di aver filmato un concerto in cui Saša Titov suonava il basso negli Akvarium e nei Kino. A un concerto Igor’ Tichomirov stava suonando in Džungli, la band di cui faceva parte. Poi, improvvisamente, si era messo a suonare coi Kino. Poi aveva fatto una performance con gli Alisa perché erano senza un bassista. Quindi, in un solo concerto Tichomirov aveva suonato per ben tre band. Non c’era alcuna forma di competizione, si condividevano idee, si mostravano i propri testi: erano liberi, in un modo simile a come viene mostrato nei film sul rock americano degli anni Sessanta. Anche con i fan che venivano da altre città si creava questa coesione. A volte mi è capitato di intervistare dei rocker di Mosca o Ekaterinburg e sentirmi dire: “Il vero rock russo siamo noi, Leningrado sta solo copiando l’Occidente”, io rispondevo: “E quindi? È buona musica, che importa.” Tutti i rocker erano influenzati da altri, quindi mi sembrava molto strano sentire considerazioni del genere a Mosca. Mi ricordava un po’ la competizione che c’era tra New York e Los Angeles. Non avrei mai sentito parlare male di Mosca dai Leningradesi, ma a Mosca era solito sentire commenti tipo: “Bah, Leningrado è stata costruita su una palude, la vera città internazionale è Mosca.” Tuttavia, l’aria che si respirava era molto amichevole e tutti sapevano di essere “sulla stessa barca.” Quando stavamo preparando l’album Red Wave ci siamo incontrati tutti nel parco per fare le foto, erano tutti così eccitati di essere nell’album. A nessuno importava perché o su quale lato del disco fossero. Tutti questi ragazzi la mattina si alzavano e facevano rock. Era ciò che metteva in moto il loro corpo. Era tutto così viscerale. Lo facevano perché sentivano di doverlo fare: per me era tutto così eccitante perché era così puro.

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MM: Avendo compreso immediatamente il valore dei gruppi incontrati in Unione Sovietica, hai avviato la produzione dell’album Red Wave: 4 Underground Bands from the Soviet Union. Questo album ha squarciato il velo che copriva la musica rock sovietica nel mondo occidentale. Puoi spiegarci come hai scelto i quattro gruppi? 

JS: Quando tornai a casa ero scioccata perché avevo scoperto che oltre la cortina di ferro c’era molto di più di quello che conoscevamo qui, negli Stati Uniti. Se ne avessi parlato coi miei amici loro avrebbero reagito proprio come me prima di andare in Russia, non ci avrebbero mai creduto. Dopo i primi due viaggi in Russia ho compreso che era mio compito aprire gli occhi agli Americani mostrando loro ciò che avevo visto e ascoltato. Sentivo di poter davvero cambiare il modo in cui gli Americani percepivano l’Unione Sovietica, come era successo a me. Un giorno ero a Disneyland e chiesi a un gruppo di adolescenti: “Cosa ne pensate dell’Unione Sovietica?” Senza pensarci troppo uno di loro disse: “Dobbiamo farli sparire. Sono orribili i Sovietici. Dobbiamo farli fuori!” Mi ricordo che pensai: “Stanno parlando dei miei amici, di Boris, Viktor, Sergej…” Ne fui talmente colpita che decisi di dover mostrare loro che la Russia non era solo ciò che vedevamo in televisione. All’inizio avrei dovuto pubblicare un album solo con Boris, mi ero messa in contatto con David Bowie, che era entusiasta della musica di Boris. Iniziammo a lavorare con Boris ma poi pensai che sarebbe stato solo un assaggio della scena rock russa e che, per rendere più varia la selezione dell’album, avrei potuto includere un altro paio di band. Ne parlai con Boris che la ritenne un’ottima idea e mi disse che mi avrebbe aiutata. Quindi inserimmo gli Akvarium. A quell’epoca ero già amica dei Kino e quindi inserimmo anche loro. Poi conobbi i fratelli Sologub e capii che gli Strannye Igry facevano una musica diversa da Boris o dai Kino. Avevano uno stile simile allo ska, tipo la band inglese Madness. Quindi pensai fosse una buona idea includere qualcosa di un po’ diverso. Quando andai per la prima volta a un concerto degli Alisa vidi come Konstantin Kinčev fosse in grado di ipnotizzare me e l’intero pubblico. Il modo in cui contorceva il suo corpo e i suoi movimenti avevano un che di magnetico e pensai: “Devono essere nell’album.” Volevo girare dei video per l’album e sapevo che i suoi movimenti avrebbero avuto un enorme effetto sul pubblico americano. Ecco come ho scelto i quattro gruppi.

MM: Dove è stato prodotto l’album?

JS: In una piccola casa discografica americana chiamata Big Time Records. Credo che forse prima fosse australiana e che si fosse poi stabilita qui, a Hollywood.

MM: Credo sia stato difficile produrlo…

JS: Molto difficile. È stato difficile trovare una casa discografica. All’inizio sono andata a parlare con le grandi compagnie. Qualcuno mi aveva arrangiato un incontro con Moe Austin, il direttore di Warner Brothers e poi, se ricordo bene, ho incontrato il direttore di Capital Records. Gli ho mostrato i materiali che avevo, le registrazioni e le foto: erano molto colpiti. All’inizio dicevano: “Wow, incredibile.” Sembravano convinti, interessati. Ma poi arrivava la domanda: “Quanto è legale questa cosa?” Dicevo sempre che erano underground, che non facevano parte della scena ufficiale e che producevano la loro musica da soli, ma questo spaventava le case discografiche e mi chiedevo il perchè. All’epoca non lo sapevo, venni a sapere solo più tardi che queste grandi case discografiche avevano degli accordi con Melodija per diffondere la musica classica russa. In altre parole, avevano degli importanti accordi finanziari con la Russia e non volevano rischiare tutti quei soldi per della musica underground. All’epoca me l’ero davvero presa, ma più tardi ho realizzato quanto io sia stata fortunata a trovare una casa discografica indipendente che mi disse: “Ok, forse finiremo nei guai, ma ne vale la pena. Facciamolo.”

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MM: La perestrojka portò molti cambiamenti per i gruppi rock sovietici, che poco prima del crollo dell’Unione Sovietica furono finalmente autorizzati a viaggiare all’estero. Arrivarono anche negli Stati Uniti e ottennero un certo successo, come BoGe con l’album Radio Silence, prodotto da Dave Stewart degli Eurythmics. Come furono i primi concerti? Può darci qualche informazione circa la reazione degli artisti occidentali?

JS: Nel periodo in cui andavo in Russia e producevo Red Wave sono entrata di nuovo in contatto con Bowie, che era davvero attratto da Boris e dalla sua musica. A un certo punto, tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, ho iniziato a portare qualche band rock occidentale in Russia: tutti volevano andare in Russia. Negli anni Ottanta in Occidente, soprattutto in America, le band rock firmavano contratti da milioni di dollari. Prima era diverso, gli anni Sessanta del rock americano erano paragonabili a quelli del rock sovietico degli anni Ottanta: si faceva musica e basta, non si guadagnavano molti soldi. Non c’erano molte opportunità. Tutti collaboravano tra di loro, vivevano tutti insieme a Laurel Canyon, come degli hippy. Ma negli anni Ottanta le band facevano un sacco di soldi e il problema di fare un sacco di soldi è che inizi ad avere uno stile di vita costoso. Quindi, quello che succede è che anche inconsciamente ci si autocensura per rendere felice la casa discografica, perché si vuole un altro grande disco o si vuole che il contratto continui. Diverse band occidentali erano diventate un po’ noiose negli Ottanta per questo motivo. Per quanto riguarda Boris, tra tutti i rocker russi, era quello che avrebbe potuto avere molto successo in Occidente. Ho scritto diverse canzoni con molti di loro: loro scrivevano la musica, io i testi. Boris e io scrivevamo insieme i testi e la musica. Era in grado di scriverli sia in inglese che in russo: era un poeta incredibile anche in inglese. Tuttavia, credo che la scelta di Dave Stewart non fosse adatta al livello che Boris aveva raggiunto in quel momento. Cercarono di farlo diventare una popstar, mentre lui era più alla Bob Dylan. Penso che se a produrlo fosse stato Bowie o Graham Nash dei Crosby, Boris avrebbe avuto più successo. Adoro la canzone Radio silence, la ascoltavo ogni giorno, ma purtroppo l’album non ha avuto il successo desiderato e Boris perse il suo contratto. Quel fatto confuse anche i russi, che non gradivano il fatto che Boris avesse fatto un intero album in inglese: non capivano i testi. Ma, ripeto, lui aveva e ha la stoffa per diventare una star mondiale.

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MJ: Ascoltando le storie degli occidentali riguardo all’ex blocco sovietico c’è un confronto che ritorna sempre: l’ovest era colorato, l’est era grigio. I prodotti occidentali erano di maggior qualità, mentre quelli orientali erano obsoleti e realizzati con pochi mezzi. Lo stesso riguardava la musica. Molti occidentali, compresi i cittadini dell’ex-Jugoslavia, tra cui mio padre, mi hanno sempre detto che il rock sovietico (e, in generale, la musica) era qualitativamente inferiore, più “naive”, meno “elaborato.” Sappiamo che non è così, ma quale fu la tua reazione la prima volta che hai ascoltato il rock sovietico e come reagì il pubblico americano?

JS: Dopo aver ascoltato quella musica sono tornata a casa e ho detto a tutti che stavo mettendo insieme un album. Quell’anno ci fu il Live Aid. Boris e gli altri mi avevano spiegato che erano dei rocker underground e che l’Unione Sovietica aveva diffuso il “rock sovietico” all’estero. Penso sia ciò a cui si riferiva tuo padre, perché era terribile. Al Live Aid avevano suonato gli Avtograf e tutti mi dicevano: “È questa la musica di cui parli? È così noiosa, fuori moda.” Avrei potuto reagire spiegando che non era il rock di cui parlavo io, ma era imbarazzante, ero così imbarazzata da quella musica. Non conosco nessuno che ascoltando le canzoni di Red Wave si sia sentito così. Possono anche essere state registrate su un nastro di bassa qualità, ma puoi sentire che è arte, percepire un qualcosa di toccante e commovente. Quindi, credo che ascoltando le band di Red Wave ovviamente la qualità del suono non sia delle migliori, ma che sia possibile percepirne il valore. Il buon rock non è qualcosa che puoi spiegare, lo riconosci e basta. Lo ascolti e per un qualche motivo ti commuove. Ancora oggi la loro musica mi commuove e la maggior parte delle persone a cui la feci ascoltare reagì dicendo: “Wow, questo è vero rock’n’roll!”

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MM: Parlando del tuo rapporto con la cultura sovietica, è necessario ricordare che sei entrata in contatto con alcune figure di spicco della scena artistica, come Timur Novikov o Sergej Bugaev, in arte “Afrika”. Puoi parlarci del tuo rapporto con loro?

JS: Molti dei musicisti erano anche artisti: Boris dipingeva, Viktor disegnava. Poi, abbiamo incontrato Afrika, che ci ha presentato Novikov e Timur, anche loro pittori. Avevano fondato un collettivo chiamato “Novye chudožniki” (“I nuovi pittori”) e si esibivano come “percussionisti” per i Kino. In Russia, le band underground, erano libere da alcune restrizioni che c’erano in Occidente: se dei loro amici volevano far parte della band, potevano semplicemente prendere e fare qualcosa, come colpire degli oggetti. Quindi, ad esempio, facevano parte dei Kino Timur, Andrej Krisanov, Afrika. Di norma si organizzavano delle tusovki [3] nello studio di Timur. Si trovava su un intero piano fatto di sale fatiscenti, con grandi finestre che davano proprio su un edificio del KGB. La loro arte riguardava il processo e non il risultato: dipingevano dei quadri, li buttavano a terra e ne iniziavano degli altri. C’erano pile di quadri ovunque e a volte ci dormivano sopra. Non avevo mai visto nulla del genere, perché concepivo un quadro in modo diverso, bisognava trattarlo con cura perché aveva un valore. Per loro si trattava di esprimere sé stessi e non pensavano mai a vendere la propria arte o a esporla. Erano molto creativi ed era liberatorio trovarsi in quell’ambiente. Timur era la loro guida, credo che senza di lui né Afrika né Andrej sarebbero diventati degli artisti. Timur convinceva tutti di essere in grado di creare qualcosa, era una personalità molto influente nella scena leningradese. Non parlava inglese e io non parlavo davvero russo, ma si capiva che era un intellettuale, un pensatore raffinato. Durante un’intervista con Afrika sono rimasta impressionata da quanto conoscessero la cultura internazionale: le band, la poesia, gli artisti d’avanguardia. Conoscevano tutti, dai Cocteau Twins a Nick Cave, persino band di cui non sapevo l’esistenza. Furono loro a mostrarmi la nuova musica occidentale dell’epoca, quella dei The Smiths o dei Cure.

MM: Vorrei raccontarti un aneddoto. Ricordo di aver tradotto un breve saggio in cui l’autore (anonimo) racconta di aver assistito un anno fa a Mosca a un concerto acustico in cui si suonavano Vysockij e i Kino insieme ai The Killers e ai Radiohead. L’autore afferma che quella serata gli aveva ricordato un kvartirnik sovietico. Poi, scrive che vedendo qualcuno nel parcheggio intendo a fare una chiamata, si è preoccupato provando la stessa sensazione di quando nel 1987 tre poliziotti fecero irruzione durante un kvartirnik di Aleksandr Bašlačëv. Questo la dice lunga. Qual è l’eredità della musica dell’underground leningradese oggi, soprattutto dopo l’importanza che una canzone come Peremen ha avuto durante la prima fase delle proteste in Belarus nel 2020?

JS: In generale credo che il Leningradskij rok-klub e la musica rock che ne è scaturita siano iconici. All’epoca non lo sapevamo e non c’è modo di spiegare come queste fasi della musica diventino iconiche. In America è successo negli anni Sessanta: ci sono un sacco documentari sul rock degli anni Sessanta e tutti amano guardarli. Le persone che hanno vissuto gli anni Sessanta amano parlare della scena rock’n’roll, perché per loro ha significato qualcosa di magico. Il rock leningradese è diventato iconico, un simbolo di libertà. Ma non si tratta di libertà nel modo in cui la concepivamo noi Americani. Durante i miei anni in Russia e frequentando i rocker leningradesi ho appreso che ci sono diversi significati di libertà: un concetto molto più importante della libertà stessa è la libertà dello spirito. È questo che mi ha colpito e mi ha fatto desiderare di restare lì. Durante una mia prima intervista con Boris gli ho detto: “Tu scrivi testi politici” e lui ha risposto con un secco: “No, quando si scrivono dei testi politici essi sono destinati ad avere vita breve. Io voglio scrivere per indurre i giovani a riflettere, far loro venire voglia di fare qualcosa oltre a lavorare tutto il giorno e passare tutta la notte a ubriacarsi. Voglio che siano coscienti del fatto che possono desiderare altro, che possono fare altro.” E poi, durante molte interviste con Viktor, gli ho chiesto di cosa parlassero i suoi testi e lui mi ha risposto: “I miei testi parlano della lotta interiore. Tutti noi abbiamo una sorta di dimensione psicologica dentro di noi e abbiamo bisogno di comprenderla.” Viktor non ha mai scritto canzoni politiche, ma riguardavano il tentativo di capire la propria interiorità, il proprio ruolo su questo pianeta. Ha scritto molti testi sul fatto di non guardare in basso, ma di volgere lo sguardo al cielo. Erano dei testi spirituali e non politici. È interessante il fatto che Peremen abbia assunto un significato autonomo e sia divenuta una canzone politica usata da entrambe le parti: sia da chi è contro la guerra che da chi la sostiene. A volte la gente mi chiede cosa avrebbe pensato Viktor, io rispondo che non sarebbe stato contento della cosa, perché le sue canzoni non hanno mai avuto un valore politico. Con Peremen Viktor voleva spingere le persone a comprendere i propri conflitti interiori e reagire, a non avere paura di guardarsi dentro. E Peremen in Belarus ha in qualche modo spinto le persone a reagire, a fare qualcosa, a mobilitarsi, ad alzarsi in piedi, a capire ciò che si vuole. Penso che il Leningradskij rok-klub rimarrà nella Storia e non credo che sia un’esperienza che si potrà ripetere. Perciò mi sento molto fortunata ad aver vissuto la Leningrado di quegli anni, ha davvero cambiato la mia vita e mi ha reso quella che sono oggi. Parlando con voi oggi mi sono resa conto che da due anni a questa parte, con l’uscita di tutti i miei libri e con un documentario in fase di produzione, sento che il mio destino su questa terra sia quello di proteggere e portare avanti l’eredità dei miei amici, sia di coloro che sono morti come Viktor o Sergej, sia di coloro che sono vivi come Boris. In qualche modo sento che è il mio scopo è questo. Il mio scopo è quello di continuare a diffondere questi incredibili musicisti e far sì che la gente non li dimentichi, ma che impari da loro e da chi erano, perché erano persone incredibili.

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MM: È da poco terminato il Festival di Cannes dove Kirill Serebrennikov ha fatto molto parlare di sé con il suo nuovo film, Limonov. Ma tornando ai Kino, hai visto il film Leto (2019)? Che ne pensi? 

JS: Ho visto Leto e ho due opinioni a riguardo. Innanzitutto, penso sia adatto a coloro che non hanno alcuna idea del contesto di cui si parla o della Russia. È scritto e diretto bene. La fotografia è fantastica. La scena sull’autobus con tutti i passeggeri che iniziano a cantare The Passenger di Iggy Pop è una delle mie scene preferite in assoluto. Mi è sembrata molto simile al film Almost Famous di Cameron Crowe. Hanno la stessa atmosfera artistica. Avendo fatto parte di quelle vicende in prima persona ho due problemi riguardo al film. Innanzitutto, l’attore che ha interpretato Viktor non assomiglia a Viktor fisicamente, perché Viktor aveva un viso molto più stretto, una mascella più definita.. Inoltre, ci sono individui nel mondo che camminano come se fossero a mezzo centimetro da terra. Camminano così leggeri, come Bruce Lee… Coj è uno di loro. Quell’attore, invece, ha un’andatura pesante, che mi ha dato fastidio. Tuttavia, è difficile trovare un attore che abbia la stessa energia di Viktor. Riguardo alla sceneggiatura, capisco benissimo che quando si realizza un film basato su una storia vera a volte si esageri e ci si inventi qualcosa. Il problema è quando si cambia la storia, come quando alla fine viene mostrato che Mike Naumenko ha trovato Viktor Coj e l’ha portato al rok-klub non è vero: è stato Boris Grebenščikov. Hanno in parte cancellato l’eredità di Boris. Ecco, queste sono le mie due critiche al film, però in generale l’ho trovato un film molto artistico e piacevole.

MM: La scena musicale underground era strettamente legata al cinema, penso ad esempio ad ASSA (1987) o Igla (1988). Hai partecipato al documentario Coj živ, 30 let bez Kino, ma hai mai pensato di fare un documentario con i tuoi video? Francamente, non ho mai visto un video così autentico e genuino di Viktor Coj come quello di Love is no joke [4], è molto toccante.

JS: Adoro Love is no joke. Quando faccio le presentazioni dei libri in Russia, nei Paesi Baltici o dove sono appena stata, in Kazakistan, la gente mi chiede sempre com’era Viktor, perché sembrava chiuso e freddo… E io rispondo: “No, era così divertente. Era il miglior amico che si potesse dedsidere.” Così, in Love is no joke, ci ho messo tutto ciò che volevo mostrare di Viktor, affinché si percepisse la sua magia e si vedesse la sua dolcezza. Abbiamo appena realizzato un altro per il settantesimo compleanno di Sergej Kurjochin con una canzone che abbiamo scritto nel 1986 e che non è mai stata pubblicata, intitolata To Fly. Il video mi commuove, racchiude tutto Kurjochin, lo puoi percepire. Adoro fare video di questo tipo. I film in Russia hanno cambiato tutto, soprattutto per Viktor. E l’ultima scena di ASSA, che è l’unica in cui Viktor è presente, è fondamentale. Non mi ricordo il film, perché l’ultima scena di Viktor è così potente da dominarlo interamente. Così, da un giorno all’altro, Viktor, che all’epoca era già un famoso rocker underground, divenne un eroe. Quanto ha recitato in Igla è diventato ancora più famoso e, quando è morto, era probabilmente la figura culturale più importante della Russia degli anni Novanta. Nel 1988 feci un’intervista con Viktor in cui gli chiesi perché avesse deciso di iniziare a fare cinema e di recitare in Igla. Mi disse: “Sai, tutti i giovani hanno bisogno di un eroe. In Russia gli eroi sono Schwarzenegger, Stallone e Bruce Lee, ma quelli non sono i nostri eroi. Quelli sono eroi occidentali.” Poi ha continuato: “Forse non sono abbastanza bravo a fare l’eroe, ma nessun altro ci sta provando. Provateci!” Questo era Viktor, ecco perchè tutti si innamorarono di quel film e di lui. Recitare in ASSA e in Igla ha significato un grande cambiamento nella sua immagine, la dimensione visiva per una persona creativa è fondamentale. Ed è per questo che i video musicali sono così importanti. Per me fare video come quello di Love is no joke significa portare avanti un’eredità, mostrare alla gente quanto siano incredibili queste persone e assicurarmi che non vengano dimenticate.

MJ: Visto che Martina ha già parlato del crollo dell’Unione Sovietica, vorrei chiederti qualcosa che non è propriamente o necessariamente legato alla musica: consideri l’Unione Sovietica come un mondo perduto – citando il documentario della BBC The lost world of communism? Molti parlerebbero addirittura di un “paradiso perduto.” È così, secondo te? 

JS: Credo che l’importanza di guardare indietro alla Storia sia quella di capire davvero che un governo e un popolo sono due questioni separate e, parafrasando le parole pronunciate da Boris in un’intervista, è come se in Unione Sovietica avessero due vite parallele. Quindi, credo che la lezione che se ne deve trarre coincida con la necessità di concentrarsi sul popolo di un Paese e non tanto sul suo governo. È la dimostrazione del fatto che la persona che si diventa e le proprie azioni hanno poco a che fare con il sistema politico in cui si vive. In breve, in quel Paese, che noi occidentali pensavamo fosse il meno libero, i rocker erano molto più liberi di me, prima di andare in Russia mi sentivo come se non vivessi davvero. Circondata da quelle persone mi sono sentita rinascere. Mi fa strano dire che sono andata in un Paese comunista e mi sono sentita più libera di quanto non mi fossi mai sentita qui, negli Stati Uniti. Questo perché la vita non è legata solo al governo, al sistema in cui si vive e alle regole che vengono imposte dall’alto. Ha a che fare coi legami umani, con l’io e con la ricerca della propria identità. Non sceglierei mai di vivere in un regime comunista, ma posso dire che sotto il comunismo c’erano alcune cose che amavo. Allo stesso modo, ci sono cose che amo e altre che non sopporto in un sistema democratico. Sono triste del fatto che alcune cose che c’erano sotto il comunismo oggi non ci siano più: il senso di comunità, quelle sensazioni così reali. D’altra parte, io in Unione Sovietica ci sono andata con la possibilità di ritornare a casa quando volevo, la mia era una condizione temporanea. Quindi, provavo sensazioni diverse da coloro che effettivamente ci hanno vissuto, in quel regime. La mia è un’esperienza diversa.

©Joanna Stingray

MM: Come è proseguito il tuo impegno come mediatrice tra la musica sovietica e quella russa dopo il crollo dell’Unione Sovietica? Vorrei citare uno dei tuoi libri, Red Wave: An American in the Soviet Music Underground, che è stato ben recepito anche negli Stati Uniti. Quali sono i tuoi progetti futuri?

JS: Ero così entusiasta quando, qualche anno fa, ho scritto il primo libro con mia figlia, che è una scrittrice favolosa. Volevo far uscire quella storia. Quello che ho scritto nelle mie memorie viene confermato nelle interviste che ho fatto negli anni Ottanta quando i rocker parlavano di quello che stavano facendo. Guardando tutti i miei video ho ricordato cose che credevo di aver dimenticato. Ho più di cinquanta ore di filmati. Ora sto collaborando con uno studente della FAMU che ha lavorato con i miei filmati trasformandoli in un documentario da due ore e mezza. È diviso in tre parti, ciascuna da cinquanta minuti. Tuttavia, non potrà essere proiettato in Russia. Ai tempi di Red Wave quella musica era proibita, mentre ora sarà proibito il film. Sto cercando di capire come farlo uscire in Occidente. Sono molto eccitata per il documentario, speriamo di poterlo presentare a un paio di festival, così vedremo se verrà accettato. Ci vorrà un po’ di tempo per capire cosa fare. Se fosse stato due anni fa avremmo potuto facilmente rivolgerci a Netflix in Russia e l’avrebbero pubblicato nel giro di un secondo in russo e, forse, in inglese. Ho un calendario che verrà stampato a luglio con alcune immagini delle band che ho conosciuto. Spero che stampino il mio ultimo libro in autunno, riguarda gli anni dal 1992 al 1996. Ci sarà un altro libro sul mio ritorno in Russia nel 2018, dove ho ritrovato tutti i miei amici. Quello sarà l’ultimo libro. Oltre ai miei lavori banali a Los Angeles, ho ancora questo sfogo per la mia creatività e che mi permette di conservare il mio legame con la Russia. 

Los Angeles, 14/06/2024.

Note:

[1] Melodija era la più importante casa discografica dell’Unione Sovietica, oggi ancora in attività.

[2] Artemij Trojckij fu il primo vero critico musicale rock nel contesto sovietico. Egli debutta nel 1967 recensendo l’album dei Beatles Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club. Dopo aver scritto diversi anni per ”Rovesnik”, nel 1981 fonda la sua rivista esamizdat “Zerkalo”. È autore di diversi libri sulla scena rock musicale degli anni Ottanta e Novanta in Russia, tra cui Compagno Rock (1988) e Tusovka: Tusovka. Rock e stili nella nuova cultura sovietica (1990). Ha preso parte al documentario sui CCCP Kissing Gorbačëv. Nel 2023 è stato dichiarato agente straniero. 

[3] Con tusovka nel linguaggio giovanile si intende “festa”. 

[4] Nel 1990, quando Viktor Coj morì, Joanna Stingray produsse una versione inglese di Ljubov’ eto ne šutka, cambiando alcune strofe, ad esempio il verso “mi manchi tutto il giorno” viene proiettato nel futuro “I will miss you all day long.” Ancora, il verso della terza strofa  “Когда в доме тихо, я слышу, как ты поешь” (“Quando a casa c’è silenzio ti sento cantare”) passa alla seconda strofa e viene reso con un riferimento diretto alla musica dell’amico che sovviene da lontano: “When the night standing still / I can hear you play your guitar / but the tune, it seems so far.”

 

Apparato iconografico:

Tutte le immagini contenute nell’intervista sono di proprietà di Joanna Stingray (©Joanna Stingray), che ne ha concesso l’utilizzo.