Antropologia dell’insuperfluo. “La religione dei magiari pagani” di Vilmos Diószegi

Richárd Janczer

 

A pogány magyarok hitvilága (“La religione dei magiari pagani”, 1967) di Vilmos Diószegi (1923 – 1972), terzo volume della collana “Ugrica” della casa editrice Vocifuoriscena (della quale Andergraund Rivista ha recensito Fiabe cosmologiche ungheresi), è una pietra miliare dell’etnografia ungherese finalmente a disposizione del lettore italiano. Il volume è a cura di Elisa Zanchetta ed è corredato dalla mirabile prefazione di Edit Rózsavölgyi. L’edizione italiana presenta un ricchissimo apparato di note, strumento necessario per rendere il libro un corpus autosufficiente, oltre a un corposo glossario etnografico, sintomi di un lavoro editoriale che non si limita a tradurre il testo ma che replica dell’originale anche la meticolosa cura della materia. Zanchetta, per una migliore trasparenza, riporta molti dei termini specialistici in originale e mantiene inoltre l’ordine cognome-nome in uso in Ungheria.

Link al libro: https://www.vocifuoriscena.it/catalogo/titoli-la_religione_dei_magiari_pagani.html


 

Com’era la ‘religione’ degli ungheresi ‘pagani’, qual era il sistema di credenze che determinava notevolmente il loro pensiero, la loro visione e la loro vita, di cui «le pietre e le scritture non parlano»? Questa domanda mi ha tormentato fin dall’infanzia.” (p. 7)

Ogni popolo ricerca le proprie origini brancolando nelle tenebre della propria preistoria, senza l’ausilio di testimonianze scritte, e gli ungheresi non fanno eccezione a questo. La loro storia ha una data d’inizio scelta per convenzione: l’896, anno in cui si conclude l’occupazione del bacino carpatico da parte degli ungari (o magiari). Tuttora però non è chiaro chi fossero, se fossero un unico popolo o un’alleanza tra sette tribù di diversa origine e quali rapporti di potere intercorrevano tra le molteplici etnie e culture raggruppate sotto l’egida degli etnonimi “ungari” e “magiari”, etnonimi la cui origine è ancora irrisolta. 

È all’interno di questo poderoso bacino di quesiti che Diószegi traccia il proprio percorso di ricerca, di cui La religione dei magiari pagani (1967) spicca per completezza e ambizione. Un quadro tanto complesso da non permettere di definire chiaramente nemmeno l’oggetto dell’indagine, se esso tratti di un’antica religione (ősvallás) o di un patrimonio di credenze (hitvilág). A complicare ulteriormente la ricerca della Weltanschauung ungara intercede l’influsso delle religioni abramitiche, rintracciabile già durante la permanenza nel khanato dei Khazari (VI-IX secolo e.v.?). Un patrimonio eterogeneo che stava dunque dissolvendosi e mutando già prima dell’approdo nel bacino carpatico. 

È questa secolare e misteriosa migrazione ad assumere il ruolo di mito fondativo di un popolo eletto che ha seguito il messaggero divino (il cervo sacro noto come csodaszarvas) fino alla terra promessa, di flagellatori redenti per il ruolo di scudo della cristianità contro i “nuovi barbari”, mongoli prima e ottomani poi. Queste appena descritte sono solo alcune delle mitografie che intersecandosi costituiscono un’ideologia identitaria tutt’oggi centrale nel panorama socio-culturale ungherese; una narrazione paradossale che si alimenta del vuoto lasciato da domande irrisolte che necessitano di essere affrontate con il metodo delle scienze etno-antropologiche, un compito spesso delegato alle belle arti con la conseguente produzione di ulteriori falsi miti (la stessa immagine di copertina dell’edizione ne è un chiaro esempio).

Tra le questioni identitarie che Diószegi tenta di chiarire vi è anche la differenza tra gli ungheresi e i popoli limitrofi, una specificità da affrancare da significati magici che razionalizza riportandola a radici diverse, differenziando cioè singoli fatti culturali e non intere culture. L’etnografo, che non cede alla tentazione di uniformare un popolo, non ne unifica nemmeno il patrimonio culturale fissandolo in un sistema strutturalmente rigido e compatto. Non vi è “una” religione pagana ungherese ma un pulviscolo di credenze geograficamente sparse, egualmente valide e complementari, come non vi è “un” popolo, al contrario di certi immaginari romantico-nazionalisti. Permane la pluralità di voci, la moltitudine di variazioni ognuna con la propria storia e che non formano narrazioni univoche ma rivelano tuttavia genealogie comuni. 

Oltre a un linguaggio espositivo e un metodo scientifici, per fare chiarezza all’interno di una denominazione tuttora non unanimemente condivisa, Diószegi dovette sopperire a una naturale quanto grave penuria di fonti scritte primarie riesaminando quelle materiali, geograficamente sparse, e procurandone di nuove. Grazie alla sua ricerca sul campo, di cui vale la pena ricordare almeno i viaggi di ricerca in Siberia (1957, 1958, 1964) e in Mongolia (1962), è rimasto un’importante quanto imponente lascito materiale e culturale, rappresentato dalla collezione di reperti conservati oggi presso il Néprajzi múzeum, il Museo etnografico di Budapest, di cui ha curato dal 1947 al 1963 la cosiddetta “Raccolta asiatica”.

 

 

Fino alla prematura scomparsa, giunta poco prima di vedere pubblicato il proprio contributo al lemma “shamanism” nella prestigiosa Encyclopædia Britannica, Diószegi ha vissuto la paradossale condizione di “un” popolo costretto a cercare le proprie origini dall’altra parte del mondo, tra gli ultimi eredi di coloro dai quali si separarono presumibilmente nel V secolo a.e.v. Già nel Settecento era stata riconosciuta la parentela linguistica con le altre lingue ugrofinniche ma il legame folkloristico con i popoli altaici necessitava di ulteriori indagini. Un’operazione da condurre su patrimoni già parzialmente perduti alla ricerca del parallelo tra sciamanesimi siberiani e pallide sopravvivenze pervenute fino al Novecento.

Il metodo usato da Diószegi è quello comparatistico. Presenta un tratto e le sue varietà locali, elaborando una vera e propria cartografia che si estende fino a comunità marginali come Csángó e Székely (situate in alcune regioni dell’odierna Romania e Moldavia) che hanno da sempre goduto di particolare interesse da parte degli etnografi per la loro conservazione di tratti arcaici. Diószegi, in questo volume, mappa la diffusione di un esiguo numero di credenze ricorrendo a un vasto repertorio di fonti: fiabe, filastrocche o canti popolari, fonti materiali raccolte personalmente o da terzi, processi giudiziari per “stregoneria”, testimonianze orali (riportando sempre i nomi dei testimoni e la località). Una volta raccolto il materiale, constata brevemente la differenza con i popoli limitrofi e si sofferma, con una comparazione più dettagliata ed elaborata, sull’analisi delle somiglianze con gli altri sciamanesimi uralici e altaici, dimostrando la comune radice tra questi e lo sciamanesimo ungherese. La lontananza geografica dalle proprie origini ricontestualizza l’alterità rispetto all’area mitteleuropea: quello ungherese è solo un ramo caduto molto lontano dal proprio albero. Diószegi mantiene un certo equilibrio metodologico senza cadere nelle trappole del diffusionismo ottocentesco, che presentava una propagazione passiva e inalterata dei tratti – sovente con ipotesi irrazionali –, o adottare una prospettiva troppo particolarista, slegando il contesto ungherese dall’albero genealogico a cui appartiene.

Diószegi si concentra sui singoli “tratti” senza trasformarli in strutture complesse ma lasciando intravedere che la cosmogonia ungherese è perfettamente radicata nella costellazione delle cosmogonie sciamaniche. Di comparazione in comparazione, illustra elementi come il égigérő fa (“l’albero che tocca il cielo”), sia l’arbor mundi dello sciamanesimo ungherese che l’“albero scala”, o la concezione di “anima multipla”, cercando di comprendere le peculiarità delle varianti ungheresi rispetto ai corrispettivi uralici e altaici. Il volume si concentra però quasi integralmente sulla figura del táltos, lo sciamano ungherese, spesso confuso con figure come lo garabonciás o il tudós (“sapiente”) e talvolta indistinguibile da queste. Diószegi, dal canto suo, non tenta di districarne le differenze, ma rimarcarne piuttosto l’origine comune.

Dalla lettura de La religione dei magiari pagani si evince che táltos si nasce, non si diventa. Questo operatore del magico, infatti, acquisisce la sua conoscenza passivamente, a differenza di analoghe figure mitteleuropee che secondo Diószegi ne entrano in possesso attivamente. Quello del táltos è un destino che si subisce e opporre resistenza alla chiamata, sia da parte del soggetto che dei parenti, può portare solo a menomazioni fisiche o persino alla morte. L’iniziazione avviene in età infantile, principalmente attorno ai sette anni, e segue, con le naturali variazioni, il seguente schema narrativo: l’anima viene rapita da forze soprannaturali, il candidato táltos piomba in un “sonno prolungato” o si ammala arrivando a rasentare la morte per un periodo di circa tre giorni; al risveglio dispone già della conoscenza. Durante questo stato di incoscienza, il corpo viene smembrato fibra per fibra dagli spiriti affinché possano individuare ossa o muscoli “superflui”, una volta trovati lo ricompongono. L’osso superfluo – denti o dita aggiuntivi -, un elemento di comprovata origine siberiana, rappresenta una vera e propria conditio sine qua non nell’individuazione di un candidato táltos, che dovrà in seguito sottoporsi a specifiche prove d’iniziazione.

Un’immagine icastica ideale per sintetizzare l’antropologia di Diószegi che ricerca l’osso superfluo del paganesimo all’interno del corpo della cultura ungherese, celato alla vista dalla spessa pelle di un’ideologia cristiana millenaria e mai del tutto rimosso nonostante il lungo perdurare nella marginalizzazione. Diószegi porge l’orecchio al superfluo e, a partire da un simile residuato di sopravvivenze, rende possibile intravvedere l’antica cosmogonia, nonostante tutto il tempo trascorso, seppure così lontano dall’origine. Quella che nelle sue intenzioni era intesa come l’etnografia di un popolo può essere considerata come una vera e propria antropologia dell’insuperfluo che testimonia la condizione umana nella sua universalità. Sondare l’insuperfluo e seguirlo a ritroso fino alle radici, riconoscendone il valore unico e inalienabile, non è solo una necessità antica quanto l’identità ungherese, è la chiave mutila e logora che permette l’iniziazione a una cultura così peculiare all’interno della Mitteleuropa, che viene così collocata nel suo percorso storico e al contempo vista per ciò che è davvero, spogliata di ogni mitizzazione ideologica, politica o artistica che sia.

 

Apparato iconografico:

Immagine di copertina: www.vocifuoriscena.it/catalogo/copertine-doppie/la_religione_dei_magiari_pagani.jpg

Immagine 1 e 2: Le immagini sono pubblicate per gentile concessione dalle eredi di Diószegi Vilmos.