Martina Mecco
Marina Cvetaeva è una delle voci poetiche russe più importanti del secolo scorso. A dieci anni dall’uscita di Taccuini 1919-1921, Voland Editore pubblica il secondo volume, Taccuini 1922-1939, nella cura di Pina Napolitano. Il catalogo della casa editrice presenta anche altri due volumi di Cvetaeva, le lettere ad Abram Visnjak raccolte in Le notti fiorentine (2011) e Ultimi versi 1938-1941 (2021). Meritevole di menzione è certamente l’eccellente attenzione editoriale della curatrice, autrice anche di una corposa e preziosa introduzione che permette al lettore di districarsi con la natura di un testo per certi versi “anomalo”. Inoltre, anche il corposo apparato di note è utile a chiarire alcuni passaggi che, altrimenti, non risulterebbero del tutto comprensibili. Il testo è impreziosito da una scelta di scansioni dei taccuini che permettono anche di visualizzare la scrittura di Cveateva e la disposizione grafica originale a chi non ha familiarità con questo tipo di materiali d’archivio.
Link al libro: https://www.voland.it/libro/9788862435420
“I versi crescono, come le stelle e come le rose,
come la bellezza – inutile in famiglia.
E, alle corone e alle apoteosi –
una sola risposta: «Di dove questo mi viene?»”
Mentre nei taccuini redatti tra 1919 e il 1921 Cvetaeva dipinge frammenti della giovane Russia postrivoluzionaria, questo secondo volume presenta la fase della sua emigrazione prima in Cecoslovacchia e poi in Francia, il periodo che ha inizio nel momento in cui avviene la rottura con la Russia, carica di una connotazione identitaria: “<su una pagina vuota:> / Sono russa!” (p. 44). Prima di procedere nel descrivere alcuni passaggi del volume occorre però chiarire la natura di questi taccuini. Citando l’introduzione di Napolitano, le pagine costituiscono un fragmentarium eterogeneo, sia da un punto di vista del genere che linguistico. Per quanto concerne la lingua, Cvetaeva impiega sia il russo che un francese “cvetaevizzato”, distinzione che in italiano si è deciso di mantenere graficamente. All’interno dei taccuini versi abbozzati condividono il medesimo spazio di annotazioni sparse, in cui Cvetaeva si appunta di dover acquistare del filo da rammendo. Si può dunque osservare come si dissolva il confine che usualmente esiste tra la dimensione quotidiana e quella poetica, una distinzione che non è più attuabile. Accanto a al complesso intreccio di piani temporali evidenziato da Napolitano, si manifesta l’intreccio dei piani della realtà: i taccuini si rivelano, dunque, un mezzo d’espressione potente nonostante la loro frammentarietà.
Tra i Leitmotiv vi è quello del viaggio, connesso ai concetti di spostamento e allontanamento, dai quali deriva un sentimento di spaesamento che sembra non abbandonare mai Cvetaeva, se non in un giorno di primavera in cui “è indifferente: la Boemia o la Russia? Perché dovunque ci sia un albero e il cielo, lì c’è la Primavera” (p. 65). A partire dal concetto di “allontanamento” scaturisce una riflessione di carattere esistenziale che coinvolge anche gli ambienti che ella attraversa durante il suo peregrinare. Gli elementi esterni, urbani e umani, divengono soggetti del medesimo destino, quello di svanire al passaggio del poeta:
“Quando vado via da una città, mi sembra che questa non ci sia più, smetta di esistere. […] Non è presunzione, io so che nella vita di città e persone non sono nulla. Non si tratta di: senza di me?! ma di: da sé? Vale a dire, davvero esiste (esisterà, esisteva) al di fuori dei miei occhi, non l’ho inventata io? Quando vado via da una persona, mi sembra che questa non ci sia più, smetta di esistere.” (p. 49)
Al tema del viaggio appartiene il passaggio forse più intenso e articolato di tutti i taccuini editi nel volume, ovvero il momento del ritorno in Russia a bordo del piroscafo Marija Ul’janova. Il racconto di questo viaggio segna sia la conclusione non solo del peregrinare di Cvetaeva ma anche quella dei suoi taccuini. La traversata è raccontata in modo più dettagliato rispetto ad altri avvenimenti riportati, impiegando precisi riferimenti temporali e spaziali che conferiscono una concezione più nitida della realtà illustrata. I movimenti delle onde accompagnano l’alternarsi dei diversi stati d’animo del poeta che oscillano tra momenti di stanchezza e situazioni di fascinazione di fronte ai paesaggi costieri, tra cui emerge primeggiante lo Jutland: “avrei voluto nascere nello Jutland e scrivere solo un libro: lo Jutland” (p. 251), confessa Cvetaeva. Quello che si comprende essere un ritorno emotivamente difficile viene mitigato da un’atmosfera caratterizzata da elementi naturali, che assumono dei connotati divini: divino è sia il tramonto che il blu del Baltico. Tuttavia, il ritorno prima a Leningrado e poi verso Mosca non è inaugurato da una formula di ricongiungimento o ritrovo della patria, bensì d’addio: “addio, patria!” (p. 256).
La complessa trama tematica è un altra dimensione dei taccuini che, come la questione stilistica, è strutturata secondo un principio di eterogeneità. Difatti, sono molte le tematiche che si sviluppano accanto a quella dominante del viaggio. Diverse sono le riflessioni dedicate alla poesia, le quali conferiscono alla dimensione testuale dei taccuini un’impronta fortemente metapoetica. Il poeta viene raffigurato nelle vesti di una figura maledetta rimbaudiana e destinata all’incorporeità: a un poeta nulla serve il corpo, gli è essenziale la voce. Nell’attuare questo rifiuto della corporeità, Cvetaeva percepisce una scissione interna tra l’essere donna e l’essere poeta e di come possa variare la percezione dello spettatore. La riflessione circa l’identità del poeta non poggia solo su una dimensione esistenziale, ma si districa attraverso la rete dei significati e del senso lungo i sentieri dell’atto poetico stesso, in cui: “il poeta è un semantizzatore / l’eroe di un poema insensato” (p. 220). La dimensione esistenziale assume delle proporzioni intime quando viene toccato un tema caro e preponderante in Cvetaeva, quello della morte che nella sua produzione poetica affiora già in tenera età, in quei “versi scritti così presto, /che nemmeno sapevo d’esser poeta”, nei “versi di giovinezza e di morte”. In un epitaffio del 1913 si legge:
“Leggi – di ranuncoli
e papaveri colto un mazzetto –
che io mi chiamavo Marina
e quanti anni avevo…
Solo non stare così tetro,
la testa china sul petto.”
La centralità del tema della morte, che la critica cvetaeviana ha sempre riconosciuto come caratteristico della lirica, ritorna anche nei taccuini. Nelle sue riflessioni, Cvetaeva tenta di questionare il significato della morte, arrivando ad interpretarla come un “inizio”, una “nascita nell’altra vita”. Il poeta abbozza la propria morte riportandone la visione onirica e inneggia a un riscatto di quest’ultima, concependola come inscindibile dalla vita e dotata di una dimensione di senso indiscutibile: “La sensatezza della morte è determinata 1) dal suo essere indispensabile (necessaria, utile, nota) alla persona per la quale moriamo. E 2) dal suo influsso morale, dalla sua esemplarità, dal suo essere nota, pubblica.” (p. 56) Parafrasando Cvetaeva, ella pensa ardentemente e con voluttà alla morte, non chiede di essere restituita alla vita ma di esperire la dimensione del non essere, che si esprime nell’attimo immediatamente posto dopo la fine della vita. Questa dimensione di morte si contrappone ai passaggi dedicati al figlio Mur che, sebbene non in modo esplicito, esprimono un tentativo di resistenza al richiamo della morte, un ultimo spiraglio di entusiasmo per la vita che quasi corrisponde a un inno vitale che emerge dalla spensieratezza dell’infanzia.
Si potrebbero prendere in considerazione molti altri microtemi da interpolare con la produzione poetica cvetaeviana. Proprio per questo motivo, concludendo, è necessario ribadire che i taccuini permettono al lettore di immergersi in profondità nell’universo del poeta e di fare ulteriore luce su questioni talvolta relegate ad esperire l’incontro diretto con i versi. Al lettore italiano viene dunque data la possibilità di assumere un filtro, di interfacciarsi con un universo in cui la dimensione quotidiana e quella lirica non sono più sfere distinte, ma frammenti dello stesso sistema: “In me c’è una doppia apertura (vulnerabilità), di poeta e di donna, per ogni altrui divertimento ho pagato cento volte.” (p. 101)