Alice Bettin
Abstract:
Pil’niak’s Naked 1919 of: the Old World and the New World in the Post-revolutionary Russian Province
The novel that made Boris Pil’njak famous is Golyi god (“The Naked Year”, 1922), set in the Russian provinces after the outbreak of the October Revolution in 1917. The author depicts the Soviet social landscape and the contrast between the “old” and “new” worlds, the decadence of the old aristocracy and the rise of a new socio-political era, which continually clashes with the legacies of the past and is immortalised in a moment of epochal transition, conferring it a mystical and eternal aura. The naked 1919 is a year that sweeps through the villages of the Russian province of famine and misery, and epidemics of syphilis, typhus, and smallpox, coexisting with the civil war between Whites and Weds a historical context that eventually leads to the shattering of conventions and values deeply rooted in the society of the past. The fragmentation of the narrative, in which the plot is not a structuring and dynamic element of the novel leaves room for the juxtaposition and intersection of themes and motifs, effectively conveying the continuous struggle between the past and the present. The aim of this paper is therefore to analyse these characteristics of Pil’niak’s novel, emphasising the involvement of the reader and explaining its role in post-revolutionary Russia.
Trasmettere lo spirito della Rivoluzione e rappresentare la realtà del popolo nel suo sviluppo rivoluzionario sono valori su cui il realismo socialista ha posto le sue radici e che Boris Pil’niak, pseudonimo dell’autore russo Boris Andreevič Vogau, ha in parte accolto nella sua opera, almeno nella fase iniziale, nonostante le aspre critiche della censura.
Il romanzo che lo rese celebre è Golyj god (“L’anno nudo”, 1922), ambientato nella provincia russa dopo lo scoppio della Rivoluzione d’Ottobre del 1917. L’autore vi dipinge perfettamente il quadro sovietico sociale e la contrapposizione fra vecchio e nuovo mondo, fra la decadenza della vecchia aristocrazia e l’insorgere di una nuova era sociopolitica, che si scontra continuamente con i retaggi del passato e che viene immortalata in un momento di transizione epocale, donandole un’aurea mistica ed eterna.
La decadenza della famiglia Ordinyn, perfetta rappresentante della vecchia aristocrazia, è il punto da cui Pil’njak procede a raccontare lo sgretolamento del vecchio mondo, attraverso i suoi protagonisti che vivono una condizione di solitudine morale, circondati da oggetti usurati, da stoviglie rotte, da case signorili allo sfascio e da un forte indebolimento delle virtù e valori che avevano dominato la loro epoca:
“La principessa piange, perché non comprende più nulla, perché la sua volontà di ferro, la sua ricchezza, la sua famiglia si sono indebolite e si sgretolano.” (Pil’njak 1965: 74)
La caratteristica che rende questo romanzo affascinante e allo stesso tempo avvincente è la capacità di Pil’njak di raccontare una storia nella storia, destrutturando la forma del romanzo tradizionale. La narrazione ha una struttura irregolare e poco fluida, poiché manca di una vera e propria trama, aspetto che stuzzica il lettore e allo stesso tempo lo destabilizza, poiché il narratore si avvale della possibilità di cambiare punto di vista continuamente, comportando un’effimera delineazione dei personaggi. Il nudo 1919 è un anno che travolge i villaggi della provincia russa di carestie e miseria, di epidemie di sifilide, di tifo e di vaiolo, che convivono con la guerra civile tra bianchi e rossi; un contesto storico che porterà alla frantumazione delle convenzioni e dei valori radicati nella società del passato. Come si diceva poc’anzi, il punto di forza del romanzo risiede appunto nella sua struttura, ancorata su documenti storici e pseudo-documenti redatti dallo scrittore, dai quali prende vita una trama fittizia, espediente letterario sperimentale di cui Pil’njak si servì all’inizio della sua carriera, mentre ricercava ancora un’impronta stilistica personale. Golyj god ha suggerito le basi per la struttura della prosa ornamentale degli anni Venti del Novecento, facendo prevalere l’immagine sull’intreccio, ma donando al testo una meditazione storica di ampio respiro.
Il Fronte di Sinistra delle Arti, noto con l’acronimo LEF (Levyj Front Iskusstv), riuniva scrittori e artisti che avevano militato nelle avanguardie nell’interesse sull’uso dei documenti come fonti per la loro arte.
Organizzazione nata a Mosca negli anni successivi alla Rivoluzione russa del 1917, spicca fra gli interpreti del movimento Vladimir Majakovskij, che aveva redatto l’articolo-manifesto Za čto borеtsja Lef? (“Per cosa combatte il LEF?”, 1923) con l’intento di cavalcare l’onda dell’innovatività e della creatività delle arti in generale.
La creazione di un testo sulla base di documenti già redatti, corrispondenti ad eventi concreti, produce una verosimiglianza storica che sfuma i confini fra reale e fittizio. Inoltre, ha come obiettivo quello di descrivere la vera realtà, suscitando una sensazione di spaesamento nel lettore. Manifesti, articoli di giornale, rapporti ufficiali e militari, testi antichi, pubblicità e annunci, e ancora, diari, lettere e annotazioni dei personaggi sono la corporatura di questo romanzo. Il continuo richiamo alla tradizione popolare affonda le radici nella cultura provinciale russa postrivoluzionaria, coinvolgendo i cinque sensi a tutto tondo. La realtà storica si frappone alla sovrapposizione dei due mondi (il vecchio e il nuovo) che convivono in un’epoca così tumultuosa e piena di aspettative, descritta con uno stile quasi barocco, servendosi di figure metaforiche per descrivere il fermento che accende la scintilla dei rivoluzionari e della ricerca del cambiamento.
L’introduzione e l’epigrafe al romanzo anticipano alcuni dei temi che si incontreranno nelle pagine successive. L’epigrafe, in particolare, tratta dal componimento Roždenye v goda gluchie… (“Quelli che sono nati in tempi oscuri”) del grande poeta simbolista Aleksandr Blok, preannuncia l’atmosfera di grandezza presente nel romanzo:
“Nati negli anni sordi,
Non ricordano il proprio cammino.
Noi, figli degli anni terribili della Russia,
non abbiamo la forza di dimenticare nulla.”
Oltre alle due sequenze iniziali dedicate alla descrizione di due personaggi, il resto del romanzo si basa sulla costruzione dei fatti attorno ai documenti fondanti dell’opera. Nel resto dell’introduzione, Pil’njak spezza la narrazione con i seguenti elementi, creando un montaggio: l’insegna di un mercante, il biglietto d’addio di uno studente disilluso che si è impiccato, la preghiera sulle porte del Cremlino, che viene ripetuta, due brani di un cronista di nome Sil’vestr, due canzoni, una delle quali è contenuta in una nota a piè di pagina, e un’altra nota a piè di pagina spiega il proverbio citato.
La volontà dello scrittore era quella di suscitare nel lettore un senso di ostranenie (“straniamento”), definito l’essenza dell’arte da Viktor Šklovskij, nel suo famoso saggio “Iskusstvo kak priëm” (“L’arte come procedimento”, 1917). I differenti punti di vista vengono restituiti attraverso un gioco del linguaggio, che narra la ruvidità dei gesti quotidiani e l’inquietudine del tempo. La suddivisione stessa in capitoli che l’autore sceglie per il romanzo pone il lettore di fronte a una destrutturazione del romanzo tradizionale, come anticipato: “Epigrafe”, “Introduzione”, “Esposizione”, “Penultimo, trittico secondo” e “Ultimo, senza titolo. Conclusione”. Un’espediente letterario, questo, utilizzato anche per permettere al lettore di ricomporre il puzzle della narrazione e per farsi beffa delle convenzioni letterarie allora diffuse.
L’amore per la Rivoluzione e gli ideali sui quali si poggiava sono descritti largamente, attraverso l’uso di metafore polisensoriali che invocano il fuoco, le scintille, la luce e il cuore, dipinti di rosso, che si confondono con la tempesta e con la grandezza del paesaggio:
“Ella raccoglieva erbe insieme con la madre e con Egorka e da loro aveva imparato che, quando la terra in maggio impazzisce, con gli usignoli, con i cuculi, è matto anche il sangue dentro l’uomo come il maggio, il mese della fioritura.” (Pil’njak 1965: 96)
Nel seguente estratto l’autore impiega la natura che circonda i personaggi come strumento per descrivere le sensazioni psicologiche suscitate dagli avvenimenti storici, riflette la realtà storica in maniera fedele e coinvolge a pieno i sensi il lettore. Lo stile utilizzato, ricco di ripetizioni e richiami alla fame, al clima gelido, al tramonto, alla steppa, carica di misticismo l’epoca storica e precipita il lettore in un turbine di stimoli sociali che sono quel preciso momento storico:
“Un freddo tramonto fodera la terra, quel crepuscolo autunnale quando il cielo è nevoso e invernale, e il tramonto annuncia che l’alba si sfarinerà in neve. La terra è muta e nera. Steppa delle terre nere. Quanto più ci si inoltra nella steppa, tanto più alti sono i covoni, più basse le isbe, più rari i villaggi. Dalla steppa, per il deserto saccheggiato.
Da una nera fessura fra il cielo e la steppa soffia il vento invernale. Stormisce appena percettibilmente nella steppa il passato, dopo le erbe, la segale e i frumenti falciati. Ben presto si leva la luna di vetro. Se le nubi si addensano, vi sarà neve e non gelo. Grano.” (Pil’njak 1965: 167)
È elusivo il riferimento alla tormenta, tema centrale di Dvenadcat’ (“I dodici”, 1918), il celeberrimo poema di Blok, che descrive l’avvento della Rivoluzione come un ineluttabile cataclisma che spazzerà via il vecchio mondo e lascerà spazio a una nuova era, guidata dal grido di “Avanti!” e il cui obiettivo era di porsi in contrasto con le avversità dell’epoca e di sfidare il regime vigente in nome del vento del cambiamento:
Ah, senza sangue?! Ma tutto nasce nel sangue, nel rosso sangue! Anche la bandiera è rossa! Hai confuso, ingarbugliato tutto, non comprendi… Non senti come ulula la rivoluzione, come una strega nella tormenta! Ascolta: Gviiuu, gviiiuuuu! Sciooia, scioooiaa..gau!” (Pil’njak 1965: 82-83)
Lo stile eccentrico e sperimentale di Pil’njak si concentra sulla volontà di trasmettere l’atmosfera della Rivoluzione attraverso documenti di natura differente, e sull’opposizione tra vecchio e nuovo, che è il tema centrale di Golyj god:
“M’è faticoso parlare, monsignore… Io sono stato molto all’estero e laggiù mi sentivo solo. Uomini con i tubini, finanziere, smoking, frac, tram, autobus, metropolitane, grattacieli, luci, scintillio, alberghi con ogni comodità, con ristoranti, bar, bagni con finissima biancheria, con ragazze che fanno servizio di notte e vengono del tutto scopertamente a soddisfare i più innaturali bisogni maschili, e quale diseguaglianza sociale, quale meschinità di costumi e regole! E ogni operaio sogna d’avere anche lui azioni, e così il contadino! E tutto è morto, tutto meccanico, tecnica, confort. L’itinerario della civiltà europea andava verso la guerra, il 1914. La civiltà meccanica ha dimenticato la civiltà dello spirito, la civiltà spirituale. E l’ultima arte europea è questa: in pittura, o il cartellone o l’isterismo della protesta; in letteratura, borsa e poliziotti oppure avventure fra i selvaggi. La civiltà europea è un vicolo cieco. La statalità russa degli ultimi due secoli, da Pietro il Grande in poi, voleva assumere questa civiltà. La Russia languiva soffocata, gogoliana da cima a fondo. E la rivoluzione ha contrapposto la Russia all’Europa. E ancora. Subito dopo i primi gironi della rivoluzione, la Russia si è riportata con il suo modo di vivere, con i costumi, con le sue città, al diciassettesimo secolo. Al limite del diciassettesimo secolo c’era Pietro…” (Pil’njak 1965: 78).
La frammentazione della narrazione e il fatto che la trama non sia un elemento strutturante e dinamico del romanzo lasciano spazio alla giustapposizione e all’intersezione di temi e motivi, costruendo una lotta continua tra passato e presente. Spesso infatti vengono riportati frammenti anche in lingua russa antica, in modo da creare un evidente contrasto con il presente della storia.
Questo carosello di punti di vista, di personaggi, di idee, di emozioni, di scontri feroci, che lottano nel tempo, coinvolgendo pienamente il lettore, nel turbine delle parole che cercano l’espressività più totalizzante e talvolta scabrosa in nome della rivoluzione, sviscera i protagonisti di un’epoca e li rende immortali, in nome dell’idea di sovversione sociale alla base della Rivoluzione:
“E la rivoluzione, dici bene, è nostra, è rivolta. Ma il tempo non è venuto. Il popolo mostrerà il suo muso, ha mostrato la rivolta. […] Il fuoco è rosso, il sangue è rosso, dov’è il fuoco è il sangue.” (Pil’njak 1965: 121)
Bibliografia:
Annie van den Oever, Una archeologia della teoria dell’ostran(n)enie, in “Between”, maggio 2022, Vol. 12, No. 23, pp. 365-381.
Aleksandr Blok, I dodici, Torino, giulio Einaudi Editore, 1965. Traduzione di Renato Poggioli.
Boris Pil’njak, L’anno nudo, Milano, Officine grafiche Garzanti, 1965. Traduzione di Pietro Zveteremich.
Kathleen Lewis, Pilnjak’s Naked Year and the Novel of Social Space: Toward a Morphology, “Forum at Iowa on Russian Literature”, 1977, No. 1, 27-29.
Kornienko O. A., Ritmičeskaja Paradigma Ornamental’noj Prozy Borisa Pil’njaka (Golyj God): Stat’ja pervaja, Russkaja Literatura. Issledovanija: Sb. Naučn. Trudov, Kiev, 2008.
Victor Peppard, Pil’njak’s use of Documents and Pseudo-documents in “Golyj god”, in “American Councils for International Education ACTR / ACCELS”, winter-spring 1982, Vol. 36, No. 123/124, pp. 143-150.