“Clorofilia” di Andrej Rubanov: una distopia nazionalista?

Martina Greco

 

Abstract:

Andrei Rubanov’s “Chlorophilia”: a Nationalist Dystopia?

After a brief introduction to dystopia as a genre characteristic of our times, this paper moves on to the Russian literary scene of the last thirty years. Building upon the consideration, confirmed by many scholars, that the proliferation of dystopian works in Russia holds a strong political significance, serving as an artistic form of dissent against the authoritarian turn of the Putin regime, the paper focuses then on the analysis of a dystopian novel that constitutes an exception to this rule: Andrei Rubanov’s Chlorofilia (“Chlorophilia”, 2009). Through the analysis of selected passages of the work, this paper seeks to demonstrate its susceptibility to an ideological interpretation, as it includes plenty of ideas and images associated with the neo–nationalist discourse. Far from wanting to nail the novel down to a pedantic and absolutizing explanation, the author proposes a possible reading key that reveals aspects difficult to decipher for a non–expert audience.


 

Riscaldamento climatico, sfruttamento intensivo delle risorse, buco dell’ozono, desertificazione, smog e inquinamento sono tra le espressioni più frequentemente utilizzate negli ultimi anni. La presa di coscienza dell’insostenibilità della società del benessere ha scosso le fondamenta del vivere comune occidentale, generando reazioni tra le più diverse componenti sociali: dai Fridays for Future dei giovani speranzosi in un nuovo futuro, alle proteste dei più radicali partecipanti di Extinction Rebellion decisi a ribaltare il sistema capitalista, al greenwashing delle grandi aziende. Nonostante i segnali d’allarme siano ormai evidenti e il discorso dell’ecosostenibilità si sia spostato da una nicchia di impegnati alla cronaca mainstream diventando parte dell’immaginario comune del nostro tempo, la società occidentale sembra intrappolata nell’ironico assunto di carattere profetico elaborato dal filosofo pop Slavoj Žižek e poi ripreso dall’anticapitalista Mark Fisher: “è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo”. Questa incapacità di considerare la possibilità che esista un sistema alternativo, basato su presupposti diversi da quelli del libero mercato e dell’accumulazione di capitale, unita alla consapevolezza dei danni enormi che lo stile di vita attuale sta creando all’ambiente, ha portato alla diffusione di una sensazione di autodistruzione inevitabile, di impotente attesa della fine, accompagnata da un comprensibile senso di colpa o di nemesi storica. In letteratura e nel cinema essa si è tradotta nella proliferazione di narrazioni di carattere distopico.

Quella della distopia, i cui prodromi si fanno risalire generalmente a tre pietre miliari della letteratura novecentesca My (“Noi”, 1924) di Evgenij Zamjatin, Brave New World (“Il Mondo Nuovo”, 1932) di Aldous Huxley e il famosissimo 1984 (1949) di George Orwell non è certo una formula di invenzione contemporanea, eppure stupisce la pervasività con cui essa si è inserita tra le maglie della prosa recente, fino a diventare caratteristica della nostra epoca. Da cult come The Handmaid’s Tale (“Il racconto dell’ancella”, 1985) di Margaret Atwood, a serie commerciali come Hunger Games, la distopia si è diffusa a macchia d’olio, invadendo sia la letteratura di nicchia che quella di consumo –ammesso che esista ancora una differenza tra le due –. Le opere afferenti al canone distopico sono talmente variegate che il loro inserimento in un’unica categoria appare quasi una forzatura: per un’analisi dettagliata delle diverse articolazioni del genere si rimanda all’affascinante studio di Francesco Muzzioli, Scritture della catastrofe: istruzioni e ragguagli per un viaggio nelle distopie (2021); in questo articolo ci si limita ad usare la parola “distopia” in senso molto ampio per indicare quel tipo di narrazioni futuristiche che immaginano realtà crudeli e ostili alla vita, prefigurando la fine del mondo per come lo conosciamo.

Dalla fine degli anni Novanta la diffusione del romanzo distopico ha interessato anche la Russia, modellando a propria immagine e somiglianza la proposta editoriale nazionale degli ultimi trent’anni. La forma assunta da questo tipo di narrazioni nella letteratura russa appare però alquanto diversa da quella dei corrispettivi europei e statunitensi. La distopia à la russe dei primi anni Duemila è infatti tendenzialmente molto impegnata nella rielaborazione del passato nazionale, i cui momenti più tragici e spaventosi si ripropongono in un loop da incubo che colonizza e schiaccia qualsiasi prospettiva avveniristica. I futuri immaginati da queste opere sono copie sci–fi di epoche passate che condividono inquietanti tratti col presente. Si fonde così una spasmodica ricerca di risposte ai drammi della storia con un’astuta critica della società attuale. Appartengono a questa schiera Den’ opričnika (“La giornata di un opričnik”) di Vladimir Sorokin e ŽD di Dmitrij Bykov, entrambe pubblicate nel 2006. La data di uscita delle opere in questione, che coincide con l’inizio del secondo mandato alla presidenza di Vladimir Putin, suggerisce in maniera inequivocabile la percezione del pericolo di emarginazione di una Russia ancora smarrita, confusa e priva di valori comuni solidi e condivisi. In tutti e due i romanzi lo stato euroasiatico è avulso dalle dinamiche internazionali, da un lato a causa dell’erezione di un muro che lo separa dal resto dell’Europa, dall’altro per la perdita di potere economico e lo scoppio dell’ennesima guerra civile. L’isolamento della nazione è un tropo estremamente diffuso nelle distopie russe, che si diffonde oltre i confini del dissenso politico, come dimostrato dalla sua presenza in Chlorofilia (“Clorofilia”) di Andrej Rubanov, un’opera molto controversa e difficilmente interpretabile in termini di dissidenza a causa delle posizioni espressamente pro–putiniane del suo autore. Si tratta di un testo particolarmente interessante, perché caratterizzato dall’uso di elementi tipici della prosa distopica che si mescolano a motivi tradizionali – e tradizionalisti – del pensiero nazionale. Pubblicato per la prima volta nel 2009, il romanzo si aggiudicò l’anno successivo il premio ABS, un riconoscimento letterario di notevole importanza istituito dai fratelli Strugackij per incentivare la circolazione della narrativa fantastica. Il successo in patria ne ha determinato la diffusione fuori dalle frontiere statali, motivo per il quale esistono diverse traduzioni dell’opera, tra cui quella italiana a cura di Giulietta Greppi, edita da Meridiano Zero nel 2015 con il titolo di Chlorofilia.

La vicenda si svolge in una Mosca isolata e, in un certo senso, post–apocalittica: diversi anni prima del tempo in cui è ambientata la narrazione, la Russia ha affittato le terre siberiane ai cinesi, garantendo al suo popolo un reddito che gli permette di vivere senza lavorare; la condizione utopica generata da questa vantaggiosa mossa geopolitica è stata però infranta dalla comparsa improvvisa di piante gigantesche che hanno invaso di punto in bianco la metropoli, costringendo i suoi cittadini a vivere sotto un’ombra perenne:

Nell’ipercittà mutarono il clima, la temperatura media e la composizione dell’atmosfera. Come ogni pianta, la gigantesca erba faceva evaporare il 99% dell’umidità che prendeva dal suolo. La capitale della Russia si trasformò in una palude in cui tintinnava il ronzio degli insetti succhiasangue. Il vento smise di soffiare spazzando gli spazi vuoti tra gli edifici, le strade diventarono strette gole dominate, nelle giornate più fresche e assolate, da una umida semioscurità.” (Rubanov 2015: 37).

Questo cambiamento radicale ha determinato la creazione di un assetto comunitario basato su una forte gerarchizzazione e stratificazione della società. La gente vive all’interno di edifici altissimi, in cui dai piani più alti a quelli più bassi ci si sistema in ordine decrescente di ricchezza. In una composizione narratologica di impianto chiaramente metaforico, l’autore affida ai soli ricchi la possibilità del tanto agognato accesso al sole, relegando i poveri nell’oscurità perenne dei primi piani. Tutti sono muniti di un microchip sottopelle e l’intrattenimento è garantito da una sorta di grande fratello, chiamato “i vicini”, che permette a chiunque di spiare la vita degli altri, hobby particolarmente diffuso tra i miseri abitanti dei piani bassi. Questi ultimi non patiscono affatto la loro situazione di disagio poiché ridotti ad uno stato vegetativo dal consumo costante di “polpa di gambo”, una sostanza contenuta all’interno degli enormi gambi delle piante infestanti che ha il potere di soddisfare in toto il fabbisogno alimentare dell’essere umano, infondendogli una sensazione ottundente di serenità assoluta e annichilendone qualsiasi impulso. Così gli abitanti dei piani bassi vengono chiamati “erbivori” e disprezzati dall’intraprendente popolo del mondo di sopra che, ipocritamente, assume la sostanza in una forma più chic, sublimandola in piccole pillole. Di questa cerchia fa parte anche il narratore protagonista Savelij Gerz, un giornalista di successo sprezzante e ben inserito nel tessuto sociale della Mosca che conta. Gerz vive da privilegiato: è stimato dal capo e dai colleghi, ha una moglie che lo adora e di cui ama rimarcare la procacità, è sano, sicuro di sé, testardo e sfrontato. Nonostante questo, il corso degli eventi lo porterà a conoscere aspetti sempre più inquietanti della società in cui si muove, fino a far crollare tutte le sue certezze. Da questa frettolosa sinossi traspaiono già degli elementi distintivi del genere distopico: la dichiarata ambientazione futurologica – la comparsa dei gambi avviene nell’anno 2065 –, una società nata da difficili tentativi di adattamento e dunque per forza di cose ingiusta e instabile, un controllo ossessivo della sfera privata, la lotta per l’accaparramento delle materie prime e il degrado morale. Diversamente da molte distopie, che immaginano la fine di risorse naturali destinate ad esaurirsi in tempi relativamente brevi – l’acqua o i combustibili fossili –, Rubanov sceglie come bene di difficile reperimento la luce del sole, allontanandosi paradossalmente da una realistica critica ambientale e abbracciando la sfera della riflessione di stampo filosofico–sociale. L’intento dell’autore non sembra essere quello di denunciare lo scelerato sfruttamento di una risorsa e le conseguenze che esso potrebbe causare, ma mettere in evidenza un più generico distacco dell’uomo dalla natura e la chiusura di quest’ultimo in un mondo artificiale e finto, dunque, sbagliato. In una digressione dove si spiegano al lettore gli eventi cruciali che hanno trasformato l’universo moscovita, si dirà infatti: “Quaranta milioni di abitanti si svegliarono e si accorsero di non essere più i padroni della propria terra. A loro restavano tutto il ferro, la pietra, l’asfalto, la materia plastica: gli avevano tolto il suolo e il sole” (Rubanov 2015: 36). Il primo elenco è costituito da elementi che rimandano a un’idea di fabbricazione e reagisce con effetti contrastivi al confronto con il secondo, più corto, semplice e, appunto, naturale. La natura che, attraverso le piante, si impossessa nuovamente della terra e della luce solare, rendendole di difficile fruizione per l’essere umano, condanna quest’ultimo ad immergersi senza possibilità di fuga nello stile di vita malsano a cui aveva già destinato se stesso. Le possibilità metaforiche di questa apocalissi non si riducono però a un’unica interpretazione. Oltre ad essere sinonimo, anzi metonimia, di un ecosistema che si ribella, le enormi piante rappresentano la concretizzazione della pigrizia umana, emersa in tutta la sua grandezza dopo l’affitto delle terre ai cinesi e l’avvento dell’“epoca della prosperità”. Sebbene questo genere di critica anti–progressista non costituisca una novità per la narrativa distopica e accomuni l’opera di Rubanov a quella di molti altri scrittori occidentali, le metafore che si nascondono dietro alle piante in rivolta sono qui strettamente legate a specifici realia nazionali. Molto radicato nel pensiero russo è infatti il concetto di attaccamento alla terra – deriso sapientemente in un testo del 1999 dal sapore distopico, Goluboe salo (“Lardo Azzurro”), del già citato Sorokin – di cui una delle espressioni più rilevanti è stato il počvenničestvo dostoevskiano, un movimento che incoraggiava il riavvicinamento dell’intelligencija al popolo, simboleggiato dalla “počva”, “suolo”. Dal XIX secolo in poi, l’immagine della terra in Russia si è spesso associata a idee nazionaliste e slavofile: non è da escludere dunque che il “patriottismo” sfoggiato da Rubanov dopo il 24 febbraio 2022 si nascondesse già dietro questa figura romanzesca del suolo che rigetta l’uomo russo pigro e amorale. L’affitto della Siberia è un’invenzione che rimanda a un fenomeno significativo del momento storico in cui l’autore di Chlorofilia scrive la propria opera: si tratta della stabilità economica ottenuta attraverso la massiva esportazione di materie prime, da cui deriva la trasformazione dello stato in gigante pigro e improduttivo, capace soltanto di vivere di rendita. La scelta dei cinesi coniuga l’idea assolutamente contemporanea della Cina come nuova potenza mondiale all’inveterato terrore, risalente all’epoca del giogo tataro, per il potente e popoloso vicino, che si riflette in gran parte della letteratura nazionale – il mongol’skij mif (“mito mongolo”) ricorre con frequenza nelle opere simboliste di Andrej Belyj, Aleksandr Blok, Valerij Brjusov ecc… come rappresentazione della minaccia di imbarbarimento del popolo russo –. Questi ammiccamenti a eventi politici e correnti filosofiche interne sono accompagnati da più esplicite riflessioni sul carattere russo e la sua storia, particolarmente evidenti in un paragrafo che, descrivendo i tratti del futuro immaginario, attinge a una serie di pregiudizi che diventeranno tipici del neonazionalismo putiniano:

Chi viveva a Mosca si interessava poco del resto del mondo: non dell’Europa, trasformatasi in un gigantesco, decrepito museo, dove al riparo dei grandi monumenti si affollavano orde di emigrati dall’Africa, che estorcevano ai governi smarriti indennità e sussidi […] Mosca era diventata scandalosamente ricca. […] Mosca voleva godersi la vita. Gli abitanti erano stufi delle guerre interminabili, delle crisi e degli altri sconvolgimenti globali. Qui avevano fallito uno dopo l’altro i più grandi dittatori, locali e stranieri: Napoleone, Hitler, Stalin. Qui erano stati fatti esperimenti che in altri luoghi faceva paura tentare persino sugli stranieri. Qui si era imparato a morire di fame e contemporaneamente a viaggiare nel cosmo. Qui il libro più importante non era la Bibbia, ma la storia di come uno studente aveva ucciso una vecchia con l’accetta. Qui, di generazione in generazione, si era geneticamente accumulata la stanchezza di prendere volontariamente sulle proprie spalle la missione del popolo–portatore–della–parola–di–dio. Un giorno il popolo–portatore–della–parola–di–dio aveva capito che ormai da lungo tempo aveva dimostrato a sé stesso e all’umanità la propria forza unica: era tempo di riposare.” (Rubanov 2015: 78)

Come facilmente intuibile, il passaggio è costruito sul confronto tra due opposti: un’ Europa decadente, che ha museificato sé stessa ma non è stata in grado di difendere la propria identità di fronte alla sfida delle sempre più massicce migrazioni e, di contro, una Russia forte, capace di sacrificare il proprio popolo, di combattere fino allo stremo, nonché patria della grande letteratura mondiale – la citazione della vecchia con l’accetta è un chiaro riferimento a Prestuplenie i nakazanie, (“Delitto e castigo”, 1866), di Fedor Dostoevskij –. Si condensano qui i vecchi miti della grande Russia, rispolverati dal discorso neo–patriottico: il Paese che non si è piegato di fronte ai più temibili dittatori – curiosa l’aggiunta di Stalin affiancato a Hitler e Napoleone che, comunque, anticipa il motivo immediatamente successivo –, la sofferenza come fonte d’orgoglio e dimostrazione di coraggio – si noti che il sentimento xenofobico che soggiace all’immagine dell’Europa invasa dagli africani è ulteriormente rafforzato, nella frase in cui si parla degli esperimenti, dall’uso dell’avverbio persino prima della parola “stranieri”, come a sottintendere l’inferiorità di questi rispetto agli autoctoni – e la buona vecchia missione civilizzatrice. Dopo aver delineato il profilo di una Russia degna di rispetto, il narratore si sposta sul presente, un’epoca assolutamente nuova in cui i cittadini dell’ex grande potenza hanno abbandonato le spinte millenaristiche per dedicarsi finalmente al riposo. Si tratta ovviamente di un riposo ingannevole e illusorio, foriero di inevitabili disgrazie, poiché la vita glamour del protagonista e dei suoi amici dovrà ben presto fare i conti con la propria insostenibilità. Qui la storia assume dei tratti più marcatamente fantastici. Savelij scoprirà di essere condannato a una mutazione genetica dovuta all’assunzione di pillole di polpa di gambo che, al contrario della sostanza cruda di cui fanno uso gli abitanti dei piani bassi, aggrediscono il codice genetico. Assieme a lui, dunque, tutta la classe dirigente moscovita sarà destinata a scomparire, abbandonando la propria forma umana per tramutarsi in pianta. Questa svolta narrativa ha diversi meriti, tra cui, oltre all’originalità dell’espediente architettato dall’autore e al godimento che ne trarranno gli appassionati di letteratura fantastica, vi è anche quello di agire in maniera molto significativa sulla caratterizzazione del protagonista. Insopportabile incarnazione del self–made man presuntuoso e arrogante durante tutta la prima parte del romanzo, Gerz diventa pian piano placido e riflessivo, finalmente conscio dei propri errori. Per quanto interpretabile di nuovo sotto la lente kitsch della morale patriottica – il ricco senza scrupoli che “mette le radici”, in questo caso letteralmente, e capisce quali sono i veri valori –, la trasformazione di Savelij restituisce al lettore l’immagine di un personaggio completo e ben costruito.

La distopia di Rubanov è dunque un’opera tutto sommato godibile, che si legge con piacere e offre diversi spunti di riflessione vicini ai grandi quesiti posti dalla letteratura distopica internazionale. L’interpretazione ideologica che si è voluto in parte offrire in questo contributo non vuole essere definitiva né assoluta, ma mettere in luce i significati oggi particolarmente problematici che si nascondono dietro alcuni passaggi del romanzo, senza dimenticare che un buon testo letterario è spesso polivalente, dunque capace di agire in modi assolutamente inaspettati sulla mente del lettore.

 

 

Bibliografia:

Andrew Kahn, Mark Lipovetsky, Irina Reyfman, Stephanie Sandler, A History of Russian Literature, Oxford, OUP Oxford, 2018.

Andrej Rubanov, Clorofilia, Bologna, Meridiano Zero, 2015. Traduzione di Giulietta Greppi.

Francesco Muzzioli, Scritture della catastrofe: istruzioni e ragguagli per un viaggio nelle distopie, Sesto San Giovanni, Meltemi, 2021.

Mark Bassin, Catriona Kelly, Soviet and Post–Soviet Identities, Cambridge, Cambridge University Press, 2012.

Mark Fisher, Realismo capitalista, Roma, Produzioni nero, 2018. Traduzione di Valerio Mattioli.

Nikolaj Berdjaev, L’idea russa. I problemi fondamentali del pensiero russo (XIX e inizio XX secolo), Milano, Ugo Mursia Editore, 1982. Traduzione di Cinzia De Lotto.

Nicolas Werth, Putin storico in capo, Torino, Einaudi, 2023. Traduzione di Piernicola D’Ortona.

 

Apparato iconografico:

Immagine 1: https://yandex.ru/images/touch/search?img_url=https%3A%2F%2Fwww.neizvestniy–geniy.ru%2Fimages%2Fworks%2Fphoto%2F2023%2F04%2F2448146_1.jpg&lr=192&p=2&pos=8&rpt=simage&source=tabbar&text=%D1%87%D0%B5%D0%BB%D0%BE%D0%B2%D0%B5%D0%BA%20%D0%B4%D0%B5%D1%80%D0%B5%D0%B2%D0%BE

Immagine 2: Foto di proprietà dalla scrivente M.G.