Nicola Vavassori
Abstract:
The Reverse Dystopia of War in “Pis’movnik” by Mikhail Shishkin
The epistolary novel Pis’movnik (“Pis’movnik”, 2010) by Mikhail Shishkin can be interpreted as a reverse dystopia. The author, to portray a hypothetical future war between Russia and Ukraine – later tragically realised – combines typical dystopian features, such as social criticism and the depiction of a distorted reality, with those of a historical novel, placing the plot in the past. This paper explores the implications of this narrative choice, with a focus on the theme of war, drawing parallels with statements the author made a decade after the initial publication of the work within a historical context marked by the real war the author had predicted and condemned.
Distopia è per definizione la rappresentazione ipotetica di un futuro corrotto, dove le conseguenze delle azioni del presente sono portate all’estremo, a disegnare una parabola negativamente profetica del destino dell’umanità. Eppure, più si rileggono i classici di questo genere, più ci si rende conto di quanto molte prefigurazioni immaginate nel Novecento siano oggi diventate realtà. Il futuro assurdo e distorto dal quale si era stati messi in guardia, ormai ha preso forma e parlarne come di una mera possibilità sembra quasi anacronistico. Allora la distopia contemporanea può andare incontro a un cambio di rotta interno e scegliere di percorrere la linea del tempo in altre direzioni.
È il caso di Pis’movnik di Michail Pavlovič Šiškin, pubblicato nel 2010 da AST e riproposto in Italia da 21lettere, a distanza di dieci anni, con il titolo di Punto di fuga. Il romanzo, già vincitore del Big Book Prize nel 2010, si è aggiudicato anche il primo posto ex-aequo del Premio Strega Europeo 2022. Prima di pubblicare Pis’movnik, Šiškin era già stato insignito degli altri due maggiori premi letterari russi – il Russian Booker Prize con Vzyatie Izmaila (“La presa di Izmail”, 2000) e il Russian National Bestseller con Venerin volos (“Capelvenere”, 2005) – e nel 2008 era stato definito da “The Guardian” “il migliore scrittore russo vivente”. Dalla metà degli anni Novanta, Michail Šiškin vive a Zurigo, lavora come traduttore e insegnante per i rifugiati e pubblica svariati interventi su testate come “The New York Times”, “The Wall Street Journal”, “The Guardian”, “Le Monde”, “The Independent”. Nel 2013 si è rifiutato di rappresentare la Russia al Book EXPO degli Stati Uniti e, ad oggi, nella sua terra natale è considerato un dissidente politico, per essersi scagliato più volte contro il regime dittatoriale di Putin.
È proprio alla distopia della Russia contemporanea che Šiškin pensa mentre scrive Pis’movnik. Da osservatore attento degli equilibri politici dell’Europa Orientale, l’autore riesce a intuire già nel 2010 che le tensioni tra Russia e Ucraina culmineranno in una guerra. Tuttavia, quando si trova a voler rappresentare in un romanzo la prospettiva tragica che crede attendere il suo paese di origine, sceglie di adottare un espediente letterario che, apparentemente, è opposto alla distopia: ambientare la vicenda non nel futuro, ma nel passato. In particolare, le vicende di Pis’movnik si svolgono durante la Ribellione dei Boxer, un conflitto armato che ebbe luogo in Cina tra il 1899 e il 1901 e che vide intervenire la Russia al fianco di una coalizione delle maggiori potenze occidentali, per sedare una rivolta di portata nazionale capitanata dalla società segreta tradizionalista “Yihequan”, insofferente all’opprimente presenza straniera in Oriente.
Šiškin ha parlato spesso di questa scelta, anche al pubblico italiano. Nello specifico si riprenderanno qui e in seguito alcuni passaggi di un’intervista pubblica rilasciata il 18 maggio 2022 in occasione del Premio Strega Europeo. “Prima ancora di iniziare a scrivere questo romanzo”, spiega l’autore, “avevo previsto quello che sarebbe accaduto. «Credetemi» dicevo «la prossima guerra avverrà contro l’Ucraina per la presa della Crimea».” E in effetti è con l’occupazione militare della penisola da parte della Russia nel 2014 che si accendono le tensioni che porteranno, nel 2022, alle azioni riconosciute anche dalla comunità internazionale come atti di guerra. “Tuttavia, per comporre questo libro, avevo bisogno di ricorrere a una metafora per delineare questa guerra futura che presagivo. Allora ho scelto una guerra apparentemente lontanissima: la Ribellione dei Boxer, in Cina, scoppiata contro l’influenza colonialista straniera più di 100 anni fa. Anche quella era una guerra inutile, senza senso, sanguinosa. Allo stesso modo oggi vediamo migliaia di persone, simili al protagonista del mio libro, che stanno morendo nella guerra in Ucraina.”
La distopia inversa di Michail Šiškin, allora, unisce le caratteristiche del romanzo distopico a quelle del romanzo storico e, in questo modo, traccia una linea di continuità tra il passato e il futuro della Russia, accomunati dalla costante di una realtà distorta. Attraverso questa scelta, Šiškin è in grado di mettere in luce quanto le dinamiche sociopolitiche non siano fenomeni isolati, ma piuttosto riflessi di una trama più ampia che attraversa le epoche. Questa prospettiva consente inoltre all’autore di esplorare criticamente la storia, evidenziando come certi schemi, anche se contestualizzati in periodi diversi, possano persistere e influenzare il corso degli eventi. A ciò si aggiunge un elemento di universalità: le tragedie umane, sembra sottintendere Šiškin, nonostante le differenze temporali e geografiche, hanno in comune l’assurdità tipica di tutto ciò che è inutile.
Questa connessione tra presente e passato si ritrova anche nella vicenda narrata, che si svolge su due piani temporali diversi, continuamente alternati. Infatti, il romanzo, in forma di epistolario, racconta lo scambio di lettere tra due innamorati, i quali continuano a scriversi anche quando il tempo e la morte li separano. Lui, Volodja, è un giovane aspirante autore che ha bruciato tutti i suoi manoscritti e si è arruolato come volontario nella guerra dei Boxer. Lei, Saŝka, lo attende in Russia barcamenandosi nelle vicissitudini della vita quotidiana. Volodja abita un mondo di morte e descrive gli orrori di una guerra insensata, ma, più si avvicina alla morte, più si sente pervaso da un fremito di vita che si potrebbe definire ungarettiano, un’inquietudine che stringe le viscere e rivela un profondo attaccamento sia al proprio passato sia alla sua amata Saŝen’ka. Scrive, per esempio, Volodja: “Dimmi, come posso esprimere a parole la disponibilità alla vita che mi travolge? […] Saŝen’ka mia! Non mi sono mai sentito così vivo!” (Šiškin 2020: 209) Saŝka abita invece la vita, la tranquillità della città, i piccoli avvenimenti di tutti i giorni che si avvicendano lontani dal fronte, ma qui si trova ad affrontare la tragedia del lutto, il gelo della solitudine. “Oggi ho camminato nel nostro parco.”, scrive Saŝka, “Stavano giusto coprendo le statue per l’inverno con pannelli di legno. Sembrava che le chiudessero dentro alla loro bara. […] Sono rimasta a guardare. Non riuscivo ad andarmene. Ero un pezzo di marmo. Era me che chiudevano dentro. Sono io nella bara.” (Šiškin 2020: 105)
Come due binari paralleli che convergono nello stesso punto di fuga, Volodja e Saŝka sono rispettivamente la vita che freme nella vicinanza della morte e la morte che irrompe nella tranquillità della vita. Entrambi, a modo loro, raggiungeranno una personale saggezza. Come spiega lo stesso Šiškin, l’uomo attraverso la guerra accorcia – sul malgrado – il proprio percorso di maturazione, perché l’incontro con le atrocità della morte gli permette di comprendere più velocemente l’insensatezza della vita; le donne, invece, devono attraversare un percorso più lungo e comprendono il mondo attraverso esperienze come il primo amore, il matrimonio, la maternità. Per Šiškin, sono questi i due emisferi che compongono il quadro di ogni conflitto: tanto la guerra dei Boxer, quanto quella profetizzata tra Russia e Ucraina. Si tratta in primis di una spaccatura di genere, che divide gli uomini inviati al fronte dalle donne rimaste a casa. Entrambi sono posti di fronte a una soglia decisiva, anche se di tipo opposto, e si trovano ad avere a che fare con aspetti complementari dell’assenza e della morte. Ciascuna delle due parti è sola in questo percorso, deprivata quasi chirurgicamente della persona che, più di altre, avrebbe potuto fornire sostegno e conforto.
In secondo luogo, la crepa è generazionale: i ragazzi, arruolati giovanissimi, vengono divisi dalle proprie famiglie e subiscono un impatto precoce e fuori scala con il male del mondo. È quello accaduto anche al padre dell’autore, in servizio a bordo di un sottomarino durante la Seconda Guerra Mondiale. Dalle sue storie, Šiškin afferma di aver preso spunto per scrivere Pis’movnik, aggiungendo: “È contro natura per un diciottenne combattere in guerra: i giovani non sono pronti a vivere e compiere azioni di questo tipo.” (Intervista del 18 maggio 2022). La vita dei combattenti si divide tra un prima e un dopo che non sono più conciliabili: l’esperienza bellica è il contrario di un rito di iniziazione, perché strappa bruscamente l’individuo dalla società, anziché inserirvelo. Così i ragazzi maturano nei confronti delle generazioni precedenti e successive una distanza che spesso fatica a ricostruirsi: sono ben note le difficoltà affrontate dai veterani di ritorno dalla guerra per reintegrarsi nel proprio contesto sociale. La generazione che è stata in guerra si chiude in se stessa, non è più in grado di condividersi e, come scriveva Walter Benjamin in Der Erzähler (“Il narratore”, 1936), perde la facoltà di raccontare storie.
Infine, la distanza più straziante è quella che intercorre rispetto al nemico. Autori come Mario Rigoni Stern, Emilio Lussu e Federico De Roberto ricordano come spesso in guerra si tenda a maturare nei confronti del fronte opposto un sentimento di solidarietà, in virtù della comune condizione misera. Così il protagonista di Un anno sull’altipiano si rifiuta di sparare alla testa di un generale tedesco che avvista da lontano perché lo vede fumare: gesto umano e consueto che crea una vicinanza tra i due. O ancora, nel racconto La paura, i soldati di trincee contrapposte si lanciano cibo e sigarette, proprio come accade durante la celebre tregua di Natale del 1914. Eppure, in Pis’movnik, Šiškin non lascia alcuno spazio a questo tipo di solidarietà. Dei cinesi yihequan si parla poco: Volodja si sofferma brevemente a descriverli solo dopo un terzo del libro, spiegando di non averne ancora visto uno vivo. Quando ne parla altrove, si sofferma soprattutto sugli scempi da loro compiuti su uomini e bestie, oppure descrive le loro città, che ritiene orrende. Gli yihequan sono avversari inesistenti, incomprensibili per la lingua e le usanze, e vengono paragonati a mosche inafferrabili, che volano via al passaggio di una mano. Questa reticenza è molto eloquente, come se l’essenza della guerra prescindesse dal nemico. Allo stesso tempo ciò rispecchia l’atteggiamento che i totalitarismi manifestano contro finti avversari, che spesso sono ben più prossimi dei cinesi yihequan. È sempre Šiškin a parlarne relativamente al conflitto tra Russia e Ucraina: “Un’immagine tipica della dittatura è credere e far credere che attorno al proprio paese ci siano i ‘nemici’, creare ‘la figura del nemico’.” (Intervista del 18 maggio 2022).
Così, più Volodja scrive le sue lettere, più il sentimento della guerra pervade tutto ciò che gli sta intorno: l’uomo inizia a notare che anche i russi e gli alleati giapponesi e inglesi compiono atrocità spietate in ogni dove, come se tutti quanti – amici e nemici – stessero andando incontro ad un lento processo di disumanizzazione. Per questo arriva ad ammettere: “Dove c’è la morte, dove ti mandano a uccidere, ci sono sempre molte bugie. […] In realtà poco importa se vinci o sei sconfitto, perché l’unica vittoria di qualsiasi guerra è uscirne vivi.” (Šiškin 2020: 267). Parole simili a quelle che Šiškin attribuisce a suo padre, in riferimento alla Seconda Guerra Mondiale: “L’unico mio desiderio è sopravvivere a questa guerra, tornare a casa e avere dei figli.” (Intervista del 18 maggio 2022).
L’aspetto preponderante che emerge da un simile quadro è il sentimento camusiano dell’assurdo, dell’insensatezza della vita. È in questo senso che la guerra, senza bisogno di essere ambientata nel futuro, diventa il modello di una distopia eterna, che riguarda tutte le epoche. Nella misura in cui gli esseri umani vengono annullati e si riducono a bestie, le generazioni si frantumano in modo irreparabile, le relazioni si sfaldano di fronte alla morte, non c’è differenza tra 1899, 1945, 1984, 2022 o 3024.
Di fronte a ciò non resta che chiedersi: qual è allora il ruolo della scrittura? Se lo domandano gli stessi protagonisti del libro, che trovano una prima risposta. Da un lato scrivere è una bugia, che impedisce di cogliere in modo autentico la vita – e infatti Volodja ha perso fiducia nel valore della letteratura e lo ha rinnegato bruciando i propri manoscritti prima di partire per la guerra. L’uomo scrive: “Pensavo che le parole fossero la verità suprema. Invece si sono rivelate una specie di trucco, una frode, qualcosa di falso, di indegno. […] Ho dovuto liberarmi da loro. Sentirmi libero. Semplicemente vivo. Dovevo dimostrare che esisto da me solo, senza parole.” (Šiškin 2020: 208) Allora i due innamorati, nello scrivere le loro lettere, capiscono di non poter fare altro che deviare dal tracciato del reale: Saŝka si immagina degli incontri rivelatori con un dio naturale che brucia come il roveto di Mosè, Volodja racconta il suo viaggio come se proseguisse nel regno orientale del Prete Gianni; e ancora entrambi utilizzano la scrittura per rievocare i propri ricordi e rifugiarvisi nei momenti più duri.
Fin dall’inizio, però, scrivere rivela un potere ancora più grande: trascendere lo spazio e il tempo. Volodja è destinato a rimanere nel passato e Saŝka a proseguire da sola verso il futuro, creando un nuovo senso alla propria esistenza dopo la guerra: tra loro non c’è mai un vero contatto, anzi, per quanto ne sa il lettore non ricevono nemmeno le lettere l’uno dell’altra. Eppure, continuano a scriversi interminate riflessioni, scegliendosi reciprocamente come il destinatario evanescente del proprio monologo interiore. Uno scambio di lettere tra fantasmi che ricorda le parole di Kafka a Milena, in quello che è uno degli epistolari più famosi della storia della letteratura:
“Tutta l’infelicità della mia vita […] proviene, se vogliamo, dalle lettere o dalla possibilità di scrivere lettere. Gli uomini non mi hanno forse mai ingannato, le lettere invece sempre, e precisamente non quelle altrui, ma le mie. […] La facilità di scriver lettere […] deve aver portato nel mondo uno spaventevole scompiglio delle anime. È infatti un contatto con fantasmi, e non solo col fantasma del destinatario, ma anche col proprio che si sviluppa tra le mani nella lettera che stiamo scrivendo […]. Come sarà nata mai l’idea che gli uomini possono mettersi in contatto tra loro attraverso le lettere? […] Scrivere lettere però significa denudarsi davanti ai fantasmi che ciò attendono avidamente. Baci scritti non arrivano a destinazione, ma vengono bevuti dai fantasmi lungo il tragitto.” (Kafka 2021: 211)
A differenza di Kafka, Volodja e Saŝka non sono infelici nell’incontrare i fantasmi delle lettere che scrivono, anzi, è proprio grazie a loro che continuano a resistere e a mantenere vivo, come direbbe Šiškin, “ciò senza il quale non si può vivere: il calore umano”. Inoltre, dal punto di vista metaletterario, i due protagonisti divisi possono tornare a dialogare tra le pagine di Pis’movnik, che giustappone le loro lettere. E a propria volta la stessa scrittura sopravvive a loro. Questa contrapposizione tra un’esistenza transitoria e la potenza immortale della parola è esemplificata da una delle immagini più ricorrenti del romanzo: il giornale. In prima pagina, esso mostra notizie dalla guerra, nell’ultima, un cruciverba. È lo stesso autore a spiegarne il significato.
“La vita che stiamo vivendo, io la chiamo ‘giornalistica’, ‘da giornale’. Ciò che leggiamo oggi sui giornali, l’indomani è già passato. Così anche noi siamo transitori. Esiste però anche un’altra realtà: quella dell’arte e della letteratura, dove non esiste la morte. È in quest’ultima realtà che i due protagonisti si scrivono le lettere, senza attendere le reciproche risposte. Perché questo è il senso dell’arte: se un essere umano ascolta la musica, che è immortale, anche lui diventa immortale. Il privilegio che ha un autore è quello di far diventare le proprie opere immortali, mentre lui rimane mortale.” (Intervista del 18 maggio 2022)
Infine, è soprattutto Michail Šiškin a interrogarsi, fuori dal libro, sul valore della letteratura e sul ruolo della cultura nel mondo contemporaneo. Intervistato da RSI (Radio della Svizzera Italiana) ha dedicato all’argomento un’ampia riflessione, che esordisce con un’affermazione gelida: “Qual è il ruolo della cultura? La cultura perde sempre, quando scoppia la guerra. La letteratura è perdente.” Šiškin si dimostra estremamente realista: a suo dire la guerra contro l’Ucraina ha macchiato la lingua e la letteratura Russa in modo irrimediabile. “Quando la guerra sarà finita, cosa potremo dire agli ucraini, che hanno visto le loro case distrutte dai missili russi o i loro cari uccisi dai soldati russi? Cosa diremo loro? Che la letteratura russa è così meravigliosa? […] Che la lingua russa è così bella? Non funzionerà”. Eppure, è proprio al termine della guerra che la cultura tornerà ad essere necessaria e vitale per una ricostruzione.
“In tempo di guerra sono le armi che contano. Ma dopo la guerra, sono gli scrittori… gli scrittori diventano importanti. E possiamo constatare che dopo ogni guerra c’è stata un’ondata immensa di grande letteratura, perché la letteratura è un’opportunità per le persone di superare ciò che vogliono. E non ho dubbi che una nuova sorprendente ondata arriverà della letteratura ucraina. E non ho dubbi che ci sarà anche un nuovo grande romanzo russo. […] E credo che questo enorme fossato, pieno di odio, i primi ad attraversarlo saranno artisti, scrittori e musicisti, ucraini e russi. Forse ci sarà una sorta di concerto. E sarà l’inizio di un nuovo riavvicinamento.” (Intervista del 19 febbraio 2023)
Bibliografia:
Michail Šiškin, Punto di fuga, Soliera, 21lettere, 2020. Traduzione di Emanuela Bonacorsi.
Michail Šiškin, Capelvenere, Roma, Voland, 2006. Traduzione di Emanuela Bonacorsi.
Michail Šiškin, La presa di Izmail, Roma, Voland, 2007. Traduzione di Emanuela Bonacorsi.
Franz Kafka, Ferruccio Masini (ed.) Lettere a Milena, Milano, Mondadori, 2021. Traduzione di Ervinio Pocar ed Enrico Gianni.
Walter Benjamin, Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nikolaj Leskov, Torino, Einaudi, 2011. Traduzione di Renato Solmi.
Sitografia:
Mattia Pacella, “Dopo la guerra gli scrittori saranno fondamentali”, in Radiotelevisione Svizzera Italiana https://www.rsi.ch/info/mondo/Dopo-la-guerra-gli-scrittori-saranno-fondamentali%E2%80%9D–1811005.html (ultima consultazione: 22/01/2024)
Apparato iconografico:
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