Un Occidente deludente. “Luxembourg, Luxembourg” di Antonio Lukič

Claudia Fiorito

C’è sempre una componente personale nei film di ogni regista, ma i film di Antonio Lukič sono particolarmente intimi. Presentato alla 79° edizione alla mostra del cinema di Venezia e all’interno della sezione Horizons del festival di Karlovy Vary 2023, Ljuksemburh, Ljuksemburh (“Luxembourg, Luxembourg”) è un film che alza l’asticella della produzione del regista, suscitando l’attesa per il suo prossimo lavoro.

Classe 1992, Lukič è uno dei più giovani della nuova generazione di registi ucraini contemporanei, ma anche uno di quelli con una delle voci autoriali più forti. Quando si guarda un film di Lukič si riconosce immediatamente la sua firma, e non solo perché si tratta dell’unico regista ucraino contemporaneo che si dedica alla realizzazione di commedie: tutto quello che vi è attorno, alla commedia, rende un suo film tale; ogni personaggio è fortemente caratterizzato – ma non caricaturizzato – e ricco di sfumature, anche drammatiche, che ne conferiscono tridimensionalità.

Andergraund Rivista ha intervistato Antonio Lukič in occasione del Karlovy Vary International Film Festival, si può leggere l’intervista qui.

Luxembourg, Luxembourg (2022) - IMDb

Trailer al film: https://www.youtube.com/watch?v=l4PFxeGdK5g


Luxembourg, Luxembourg narra la storia di due fratelli gemelli: Vasja, un poliziotto di basso grado, e Kolja, un teppista che guadagna da vivere come autista di maršrutka e spacciando. La loro vita viene sconvolta quando ricevono la notizia che il padre, che li ha abbandonati da bambini, è in fin di vita nella capitale lussemburghese.

Attraverso la descrizione della figura del padre nella prima ed unica scena in cui viene mostrato, emerge un ritratto complesso dell’uomo, di cui non viene mai svelato il volto: si tratta senz’altro di un criminale, un donnaiolo, uno “zingaro” – come venivano chiamati gli immigrati dalla Jugoslavia in Ucraina legati al mondo della malavita -, ma anche un padre con un indissolubile amore per i suoi figli. La narrazione potrebbe facilmente cadere nel cliché, ma inaspettatamente evita questo tranello: con grande precisione, attraverso gli occhi dei giovani Vasja e Kolja, la macchina da presa mostra dei dettagli dell’uomo – i suoi movimenti determinati, i vestiti da gangster e il tatuaggio a forma di coltello a serramanico sul dorso della mano sinistra – da una prospettiva infantile, dal basso. Un aspetto che rimane impresso nella memoria, se tuo padre ti abbandona e resti un uomo di statura molto bassa, come nel caso dei due gemelli. 

Kolja e Vasja partono, dunque, alla ricerca del proprio padre in un ospedale del Lussemburgo, non avendo mai lasciato l’Ucraina prima di allora. Per Kolja è un viaggio della speranza su più livelli: il ragazzo spera sia rivedere suo padre un’ultima volta, ma anche di scoprire con i propri occhi un Occidente tanto sognato, un mito di civiltà irraggiungibile così lontano dalla città dell’Ucraina centrale dove i due fratelli hanno vissuto per tutta la vita. 

Quando i due arrivano in Lussemburgo, tuttavia, l’Occidente non è spettacolare come Kolja se lo aspetta, né tantomeno efficiente: l’uomo individuato dalle autorità lussemburghesi non è davvero il padre dei due, ma solo un immigrato clandestino che aveva, probabilmente, derubato il padre dei suoi documenti.

Il film riprende il tema autobiografico del regista, già iniziato con il debutto di finzione Moï Dumky Tychi (“My Thoughts are Silent”), di cui si può leggere la recensione qui. Ricorre il tema del rapporto tra genitori e figli – il primo era, infatti, incentrato sul rapporto tra madre e figlio; ricorre altresì l’immagine di un Occidente come mito, a cui i protagonisti di entrambi i film anelano come un fantasma irraggiungibile.

Dal punto di vista registico, vi è un uso della macchina a mano e dello zoom tipico della televisione, che ricorda la comicità della commedia-mockumentary, da Trailer Park Boys a The Office, già presente in My Thoughts are Silent. L’uso di pause lunghissime, come nella vita reale, che accompagnano situazioni surreali, altrettanto possibili solo nella vita reale, vanno a formare quello che Lukič ha più volte definito “un susseguirsi di momenti cringe” che ne costituiscono irrimediabilmente la sua firma. La scrittura del regista, tuttavia, va oltre la ricerca dell’imbarazzo per un fine comico: ogni situazione di disagio restituisce qualcosa del protagonista della scena. È il caso di Vasja, che spende un’interminabile quantità di tempo in un negozio di giocattoli per assistere al controllo qualità della scimmietta di suo figlio, restituendoci la sua idea di paternità. O di Kolja, che per impedire che la donna anziana, investita da lui per sbaglio con la maršrutka, sporga denuncia contro di lui, finisce con l’assisterla a casa, pur essendo completamente inadeguato al compito, finendo per diventare un’improbabile coppia di affiatati coinquilini.

Ne risulta così una storia in cui nessuno è veramente cattivo: neanche il padre dei due – le cui azioni, anche il suo abbandono, trovano sempre agli occhi di Kolja una giustificazione – e che forse, alla fine, ricompare.