Federica Florio
“Nulla vi prepara a quanto rapidamente passi la vita. Attraversate correndo i giorni, convinti per molto tempo che qualcosa di importantissimo stia per arrivare. E che il peso che portate con voi debba scomparire, a un certo punto lungo la via […]” (p. 7)
Si apre così La resa (“Odustajanje”), secondo romanzo di Jelena Lengold, che fin dalle prime righe riesce a far sprofondare il lettore nell’intima malinconia che ne pervade le pagine. Edito dalla casa editrice Archipelag di Belgrado nel 2018, è stato pubblicato in Italia lo scorso novembre da Voland Edizioni, a cura di Alice Permeggiani e con la traduzione di Elisa Copetti.
Link al libro: http://www.voland.it.kirk.frequenze.it/libro/9788862435123
Jelena Lengold, nata a Kruševac nel 1959, è una delle voci più importanti e più amate della letteratura serba contemporanea. Dopo aver lavorato per anni come giornalista ed editrice, ha esordito nel 1982 con la raccolta di liriche Raspad botanike, prima di una lista piuttosto lunga di pubblicazioni tra racconti, poesie e romanzi. In Italia ha esordito con Zandonai nel 2013 con Il mago della fiera (“Vašarski mađioničar”), una raccolta di racconti che nel 2011 le è valsa il Premio letterario dell’Unione Europea. Brevità e liricità influenzano in modo evidente lo stile dell’autrice in quest’ultimo romanzo dai toni fugaci e suggestivi.
La resa è la storia in tre atti di una protagonista senza nome. Dall’infanzia alla maturità, la voce narrante disegna tra le pagine attimi di vita ordinaria. Più che di disegni, sarebbe forse opportuno parlare di bozzetti, che tuttavia non mancano di capacità espressiva; al contrario, ogni capitolo si trasforma in un ricordo intenso e suggestivo, dove si mescolano l’ingenuità della giovinezza e l’esperienza della vita adulta. L’anonimità è un elemento chiave del romanzo, in quanto consente a chiunque di immedesimarsi nella protagonista, condividendone paure, desideri e incertezze; nel lettore emerge così la consapevolezza di appartenere a un’umanità estremamente varia e, al tempo stesso, tremendamente uguale, con le stesse ambizioni e i medesimi rimpianti.
Nella prima parte, intitolata Il giuramento dell’eterno silenzio, la protagonista trascorre la propria infanzia in una cittadina di provincia assieme ai genitori e al fratello di ben quattordici anni più grande, un antieroe ermetico e carismatico con cui è facile simpatizzare. Attraverso gli occhi ingenui della bambina, il lettore assiste a un’infanzia trascorsa tra le scampagnate al fiume, dove la natura acquisisce tratti quasi fiabeschi, e un ambiente familiare che tende a logorarsi sempre più. La morte della madre e l’infedeltà del padre compromettono il fragile equilibrio familiare, finché il conflitto non sfocia nel dramma e i due fratelli, che già vivevano pressoché in simbiosi, sono costretti a stringere un patto di silenzio che cambierà per sempre la loro vita.
La seconda e la terza parte, rispettivamente Una spaventosa possibilità di libertà e L’indicibile, mostrano gli effetti di quel segreto condiviso. Le esplorazioni della giovinezza, spavalde e istintive, portano il personaggio principale alla creazione di un mondo interiore dalle tinte oniriche dove relegare il peso del vecchio giuramento, così da poter approdare alla maturità e di costruire una vita come tante, o almeno così sembrerebbe. In L’indicibile ritroviamo la protagonista ormai adulta, con un marito e con una figlia in procinto di sposarsi, e con l’antico segreto ancora ben custodito dal silenzio che grava sulla sua monotona quotidianità.
A prima vista può sembrare un romanzo di formazione, ma in realtà la voce narrante rimane legata a doppio filo al periodo dell’infanzia: i suoi sentimenti sono pesantemente condizionati da ciò che ha vissuto da bambina, e nemmeno raggiunta l’età adulta riesce a disfarsi del trauma vissuto. Da questo punto di vista, il titolo non potrebbe essere più azzeccato e riassume in modo perfetto l’intero romanzo. Come sottolinea Elisa Copetti nella postfazione, il termine serbo odustajanje racchiude in sé molteplici significati. Non è solo un concetto di resa, ma anche di rinuncia e di abbandono, e il verbo odustajati da cui deriva ne mette in risalto l’iteratività: i personaggi si arrendono più e più volte, rinunciano alle emozioni e alle relazioni, si astengono dal voler cambiare la loro stessa storia.
La resa è un susseguirsi di scene appena abbozzate, di miniature essenziali di personaggi e paesaggi; le informazioni si mescolano senza rispettare un elaborato intreccio narrativo, e la trama si limita a fare da contorno alle suggestioni e a preparare il terreno per dare forza d’espressione alle numerose sfaccettature della rassegnazione – la resa, appunto.
Uno dei pilastri di questo romanzo è senza dubbio il macrotema del tempo e il suo trascorrere inesorabile. Mano a mano che la protagonista cresce e invecchia, la sua voce si fa sempre più saggia e malinconica: l’esperienza ridimensiona le sue aspettative, mettendola di fronte all’insensatezza che caratterizza la vita umana. A differenza di tutti gli altri essere viventi, l’umanità crede di poter piegare il mondo secondo le proprie intenzioni, senza rendersi conto di essere lei stessa a subirne i cambiamenti:
“[…] i gatti, in un certo senso, sono molto più saggi degli umani. Sanno esattamente quando certe cose non dipendono più da loro, si ritirano, rinunciano a educare il mondo. Gli umani no, pensano sempre di poter influenzare ciò che li disturba di avere l’obbligo di farlo finché hanno un briciolo di forza. Non sono capaci, come i gatti, di farsi da parte all’ombra e di aspettare che il mondo faccia il suo dovere, ciò che aveva in mente.” (p. 43)
Nel tentativo di fronteggiare la propria impotenza, si fa strada l’idea della precarietà e dell’insensatezza che caratterizzano la vita. Il suo sguardo malinconico è sempre rivolto al passato e ai momenti che non torneranno più se non per riaprire ferite che non hanno il tempo di rimarginarsi. Il passato diviene un compagno di vita assillante e a tratti impietoso, un luogo astratto in cui poter tornare e poco dopo fuggirne, finché anch’esso non ci rigetta:
“Siamo sempre intrusi nel nostro passato […]. Trascorriamo così anni e anni, convinti di essere stati noi a rifiutare consciamente il nostro passato, e poi, un giorno qualsiasi come questo, comprendiamo che le cose stanno in modo completamente opposto: è il nostro passato che ci ha rifiutati, senza volere neppure sapere cosa siamo diventati, e ancora meno quel che vogliamo progettare.” (p. 97)
L’opera, tuttavia, non possiede le tinte fosche che il lettore potrebbe inizialmente prevedere. Nonostante l’inquietudine e la profonda influenza dell’esistenzialismo, la voce narrante mantiene un tono tutt’altro che cupo; la resa non è solo rimorso e rimpianto, ma anche quieta accettazione della natura dell’esistenza, con le sue increspature e momenti di quiete. Il tempo plasma la mente tanto quanto il corpo, insegnando a ogni singolo individuo ad adattarsi a tutte le gioie, i successi e gli imprevisti che la vita può riservare.
“Esiste un attimo nella vita […] in cui cominciamo a relazionarci con gli anni della nostra esistenza come un tempo ci relazionavamo ai giorni. Sappiamo, infatti, che passeranno presto. Che la notte forse sarà dura, forse spezzata da tormentati labirinti di sogni, ma sappiamo anche che albeggerà di nuovo.” (p. 124)
Benché ci sia molta sofferenza tra le pagine di questo romanzo, lo stile di Jelena Lengold è leggero e misurato: nella protagonista c’è tanto dolore, ma non si rifugia mai nel pietismo. Al contrario, sia da bambina che da donna matura, possiede la straordinaria capacità di sentire il mondo che la circonda, di comprenderne lo spirito al di sotto della superficie che le si staglia davanti. La penna dell’autrice risulta fluida e delicata, e ciò che rimane nella memoria del lettore è un sottofondo di speranza, un invito a considerare la resa come la possibilità di accettare la vita così com’è, lasciarsi scivolare il mondo addosso e rimanere a galla.
Apparato iconografico:
Immagine di copertina: https://www.ibs.it/images/9788862435123_0_424_0_75.jpg