Sara Deon
Abstract
A French gaze beyond the Iron Curtain: “Once upon a time there was the USSR”
After Nikita Khrushchev’s denunciation of Stalin’s crimes in 1956, two young French journalists named Dominique Lapierre and Jean-Pierre Pedrazzini obtained the unprecedented authorization to travel thirteen thousand kilometers across Soviet roads aboard a Simca Marly, from Moscow to Tbilisi and Gorky, via Minsk, Yalta, Kharkov, Simferopol’, Krasnodar and Rostov. The result of this long journey is the report Once upon a time in the USSR, which will be published for the first time only fifty years later. As the first French travel report on Soviet territory in the 1950s, the authors claim to have described the USSR in the most objective and least ideological way possible. However, this declaration of intent has obvious limitations. For this reason, the purpose of this paper is to analyze the report by highlighting its problematic aspects, as the product of a Western vision of Eastern Europe.
In un testo dell’autore e sociologo ungherese György Konrad (1933-2019), intitolato To Cave Explorers From the West (“Agli esploratori delle caverne che vengono dall’Occidente”, 1988), egli descrive gli abitanti a est della Cortina di Ferro con le seguenti parole: “Siamo i parenti bisognosi, gli aborigeni, quelli che sono rimasti indietro; arretrati, ottusi, deformi, squattrinati, parassiti, truffatori, imbroglioni […] Noi siamo i disadattati, quelli che si lamentano sempre perché sono intossicati dalle sconfitte. Siamo irritanti, eccessivi, deprimenti, siamo anche un po’ infelici; e loro si sono abituati a disprezzarci.” Inscrivendo se stesso all’interno di quella prima persona plurale, Konrad descrive al lettore occidentale il popolo comunista-sovietico, suggerendo nel titolo un parallelismo tra gli speleologi (gli occidentali capitalisti) e gli abitanti delle caverne (gli est-europei comunisti). È evidente, allora, che la rappresentazione del popolo a Oriente della Cortina di Ferro non corrisponde alla realtà, bensì è la metafora attraverso cui l’autore mette ironicamente alla berlina l’immaginario stereotipico occidentale, prodotto di uno stigma storico di lunga data.
Questa premessa è utile per fare luce sulle specifiche connotazioni intrinseche allo sguardo occidentale nei confronti dell’Est, e su come esso abbia storicamente distorto la realtà che descriveva al di fuori di sé: ciò si evince anche nel genere del reportage giornalistico oltre confine novecentesco. Infatti, non costituisce un’eccezione uno dei più importanti reportage del secolo scorso, firmato dai giornalisti e fotografi francesi Dominique Lapierre (1931-2022) e Jean-Pierre Pedrazzini (1927-1956) (allora solo ventenni), intitolato Il était une fois l’URSS (“C’era una volta l’URSS”, 2005). Sebbene la testimonianza del viaggio sia stata scritta nel 1956, fu pubblicata per la prima volta solo cinquant’anni dopo, nel 2005.
Nel giugno del 1956, infatti, i due reporter della rivista “Paris Match” ottengono dal governo sovietico l’autorizzazione per documentare un’impresa senza precedenti: si tratta di un viaggio lungo tredicimila chilometri da Parigi fino a Gor’kij, andata e ritorno, passando attraverso Berlino, Varsavia, Brest-Litovsk, Minsk, Mosca, Kyïv, Char’kiv, Simferopol’, Jalta, Gori, Tbilisi (nel reportage sempre chiamata con il nome georgiano “Tiflis”), Sukumi, Soči, Krasnodar e Rostov.
Grazie anche all’intercessione dell’allora ex presidente francese Vincent Auriol e al clima di relativa distensione culturale nell’Unione Sovietica chruščëviana all’indomani del XX Congresso del PCUS e alla denuncia dei crimini di Stalin, all’inizio dell’estate del ‘56 i due giornalisti ottengono il visto per entrare in Unione Sovietica. In compagnia delle rispettive mogli, per l’impresa noleggiano una Marly, ultimo modello del marchio americano Simca, e sopra i parafanghi anteriori vi fanno dipingere le scritte “PARIS MATCH” e “MARIE-CLAIRE”, sopra quelli posteriori “GIORNALISTI FRANCESI” (in russo), e sotto i finestrini “IN LIBERTA’ SULLE STRADE DELL’URSS”; sul bagagliaio, a grossi caratteri, fanno scrivere “FRANCIA”.
In apertura al reportage, vi è un’avvertenza ai lettori. In essa, Lapierre e Pedrazzini affermano di non volere offrire un ritratto esaustivo dell’Unione Sovietica dopo la denuncia dei crimini staliniani, ma di volere solo intrattenere il lettore con il racconto di un viaggio in automobile sulle strade sovietiche. Sottolineano che nessuna scelta politica ha guidato i loro incontri, e concludono tale dichiarazione d’intenti con queste parole:
“Queste pagine raccontano con assoluta obiettività la vita dei cittadini russi che ci hanno accolti spontaneamente, spalancandoci le porte, lungo i tredicimila chilometri di strada che non appartenevano né all’inferno né al paradiso, ma alla storia degli uomini.” (p. 9)
Tuttavia, risultano presto evidenti i limiti dietro la dichiarata pretesa di obiettività. Il viaggio on the road assume presto, infatti, la dimensione di un safari in una giungla inesplorata; o, per riprendere il parallelismo konradiano citato all’inizio, l’avventura di quattro speleologi all’interno di una grotta oscura. La netta separazione tra un “noi” e un “loro” ha inizio con un confine invisibile: l’odore. Infatti, oltrepassata Berlino Ovest in direzione Varsavia, i due giornalisti ricorrono al campo sensoriale per segnalare lo sconfinamento in un’area estranea e lontana, giacché “il mondo comunista lo si coglie in primo luogo con le narici” (p. 28)
“Una facile galoppata attraverso la bella e prospera campagna francese, poi svizzera e tedesca, una traversata senza problemi di Berlino, divisa in quattro, all’improvviso… lo choc. Lo choc di un odore. Un odore che sentiamo nelle prime toilette polacche in cui facciamo sosta. Un odore di disinfettante che stordisce. Un odore che ci seguirà per i tredicimila chilometri del nostro viaggio.” (p. 28)
La barriera che separa il blocco occidentale da quello orientale ha inizio, dunque, con un banale elemento quotidiano, legato alla pulizia dei luoghi: un disinfettante. Si tratta di un fattore apparentemente insignificante, ma che è foriero del senso di profonda estraneità provato dai giornalisti ed è conferma di una postulata differenza tra queste due aree. Questo sguardo estraniato si estende alla descrizione che gli stessi giornalisti fanno della loro missione, come di una “spedizione etnografica”. È con questa premessa e con tale sguardo così situato che il reportage di Lapierre è interessante non tanto per ciò che racconta, ma la modalità con cui lo racconta. Non è un caso, infatti, che durante una fermata a Jalta tra i bagnanti, Lapierre venga aggredito da un giovane russo, che cerca di strappargli dalle mani la macchina fotografica: “Lo respingo brutalmente, ma lui mi si aggrappa e tenta ancora di impadronirsi della Leica. Subito si forma un capannello e lo sconosciuto comincia a coprirmi d’insulti. In un lampo la notizia dell’incidente si propaga per tutta la spiaggia e Slava [N. d. R.: il giornalista russo incaricato di fare loro da guida] arriva correndo, tutto spaventato. L’uomo grida che io scelgo di fotografare solo le persone più brutte, che è una vergogna, che lui è solo un semplice cittadino sovietico, ma che non può tollerare una cosa simile.” (p. 92)
C’era una volta l’URSS è un reportage che, in parte, mira a confermare alcuni stereotipi sull’Unione Sovietica al solo scopo di intrattenere il pubblico lettore, come per esempio il grigiore delle città, l’infelicità della popolazione locale, gli stipendi miseri e gli edifici fatiscenti, dove due famiglie sono costrette a condividere trenta metri quadri a fronte della crisi abitativa. Tutti questi elementi, d’altra parte, divertono in primis gli stessi partecipanti all’odissea sovietica, come i giornalisti e le loro mogli, dalle decadenti stanze d’hotel alle stazioni di benzina dove devono attendere per ore l’arrivo di un bidone di scadente carburante sovietico. Non aiuta il fatto che, ovunque si rechino a bordo della Marly, vengano accolti da folle meravigliate dalla presenza di un’auto a uso privato, carica di stranieri che lanciano giornali e riviste francesi, miniature della Tour Eiffel e vestono all’occidentale.
Nonostante le problematiche elencate, nel reportage francese vi è spazio anche per disparate note di sincero stupore. Infatti, lungo i tredicimila chilometri di strade dissestate e infangate, Lapierre e Pedrazzini ritraggono una galleria di personaggi ordinari, ciascuno accomunato dalla fede nell’utopia comunista e dal duro lavoro: il ferroviere di Minsk, la commessa di Mosca, il contadino del kolchoz ucraino, il chirurgo georgiano, l’operaio di Gor’kij presso la maggiore fabbrica automobilistica del Paese. Grazie alla guida di Slava, giornalista della “Pravda” e della moglie Vera, i giornalisti entrano nelle case di queste persone comuni, mangiano al loro tavolo e chiedono loro informazioni dettagliate circa il tenore di vita, gli stipendi percepiti, il monte-ore settimanale, le loro passioni e i loro idoli.
Sempre al dichiarato scopo di intrattenere il lettore, fornendo un’immagine pittoresca dell’URSS di metà anni Cinquanta, i giornalisti mettono in luce le numerose contraddizioni dell’immensa terra sovietica. Infatti, descrivono un matrimonio religioso in pieno centro storico a Kyïv, presso la cattedrale di San Volodimyr: elemento dissonante in un Paese che da decenni aveva affermato l’ateismo di stato; nel più grande kolchoz ucraino, un mužik custodisce l’icona non di Stalin o Chruščëv, ma dello zar Nicola II; alla richiesta di una bottiglia di champagne, la capotreno porta loro una bottiglia di Narzan, l’acqua minerale sovietica; in un’assoluta giornata estiva, Lapierre e sua moglie insegnano a una giovane ragazza georgiana come applicarsi il trucco; la comitiva, per errore, entra in una base militare segreta in terra ucraina, e otterranno la libertà solo grazie alla distruzione della pellicola fotografica. L’ospitalità delle persone che li accolgono, i racconti dettagliati degli intervistati e, in generale, la favorevole disposizione d’animo dei russi, ucraini e georgiani che incontrano è tale che, “la Cortina di Ferro, la guerra fredda, la rivoluzione proletaria, il terrore rosso, i gulag ci appaiono invenzioni degne di un film drammatico.” (p. 97) Nelle parole di Lapierre vi è una meraviglia generale per la resistenza dello spirito sovietico, e uno stupore per l’incredibile generosità di chi, pur possedendo così poco, era disposto a offrire loro tutto.
È su questa nota che si conclude la lunga odissea franco-russa, con il ritorno in una Parigi in festa, tanto che la Marly – dopo settimane nelle strade sovietiche ormai malconcia e infangata – sarà esibita come trofeo museale nella vetrina della motorizzazione. Tuttavia, tale euforia avrà breve durata: infatti, solo due settimane dopo, Dominique Lapierre e il popolo francese assisteranno alla Rivoluzione ungherese e alla repressione dell’esercito sovietico. Lo stesso Jean-Pierre Pedrazzini sarà fatalmente ferito da una mitragliatrice nel corso degli scontri che si era sentito chiamato a documentare e perderà la vita pochi giorni dopo. Le prove della feroce repressione sovietica e la solidarietà con il popolo ungherese rendono il reportage impubblicabile, e l’atteggiamento dei francesi nei confronti dell’Unione Sovietica si inasprisce fortemente.
“Mentre il suo compagno agonizza, Parigi scende in piazza per sostenere gli ungheresi in rivolta. I titolari del concessionario della Simca sugli Champs-Elysées si affrettano a nascondere la Marly sotto un telone e tolgono tutte le fotografie del nostro viaggio in Russia per paura che i sassi mandino in frantumi la vetrina. Corro all’albergo dove alloggia Slava per assicurarmi che non sia in pericolo. Trovo il poveretto inginocchiato sul marciapiede, intento a cancellare freneticamente con la spazzola la scritta MOSCA-PARIGI-GIORNALISTI SOVIETICI. Sembra terrorizzato.” (p. 137)
Nonostante il tragico epilogo del viaggio lungo il territorio sovietico documentato da Lapierre e Pedrazzini, è innegabile che la loro impresa fu senza precedenti per l’epoca. A dispetto di alcune problematiche già menzionate e del tono canzonatorio in cui occasionalmente incorre, C’era una volta l’URSS costituisce un esempio straordinario nel genere del reportage europeo del secondo Novecento in territorio sovietico, poiché è la prima testimonianza francese on the road – e in maniera poco ideologizzata – della vita di uomini e donne all’indomani della denuncia dei crimini staliniani, delle loro abitudini, speranze e delusioni per sé e per la propria patria, dell’eterogeneità di una nazione che occupava un quarto della superficie mondiale e che, secondo i suoi cittadini, “sarebbe durata ancora mille anni” (p. 64).
Bibliografia:
Dominique Lapierre, C’era una volta l’URSS, Milano, Il Saggiatore, 2005.
György Konrad, To Cave Explorers from the West, in Slavenka Drakulić, How We Survived Communism and Even Laughed, New York, Harper Perennial, 2016.
Shanta Nair-Venugopal, The Gaze of the West and Framings of the East, Londra, Palgrave Macmillan, 2012.
Apparato iconografico:
Immagine 1: https://www.parismatch.com/Actu/International/Jean-Pierre-Pedrazzini-Dominique-Lapierre-Un-ete-en-URSS-1956-1777489#3
Immagine 2: Fotografia scannerizzata da Dominique Lapierre, C’era una volta l’URSS, Milano, Il Saggiatore, 2005, p. 75.