Corporeità in divenire e maschilità in mutamento: “Romeos” (2011) di Sabine Bernardi

Luca Pinelli

 

Il cinema tedesco rappresenta da tempo tematiche che potremmo definire queer: già nel 1919, molto prima che arrivassero i colori e i testi parlati sul grande schermo, la pellicola Anders als die anderen (“Diverso dagli altri”, 1919) spezzava una lancia a favore dell’omosessualità maschile mostrando in modo evidente come il tanto temuto Paragrafo 175 del codice penale tedesco – generalmente conosciuto nella sua lingua come “§175 StGB” e atto a punire qualsiasi tentativo di sessualità tra uomini – potesse costare la carriera e persino la vita a tanti uomini non eterosessuali. A interpretare la figura del Dottore nello stesso film è peraltro Magnus Hirschfeld, uno dei più importanti sessuologi di inizio Novecento, fondatore dell’Institut für Sexualwissenschaft (“Istituto per la ricerca sessuale”) che i nazisti si premurarono di bruciare nel 1933. Per quanto l’omofobia sopravvisse a svariati tentativi di revisione del Paragrafo 175, nel 1994 quella parte della legge che puniva comportamenti sessuali tra due uomini venne ufficialmente abrogata. Che ne è stato, quindi, dell’omosessualità maschile da allora?

Da un punto di vista puramente formale, è lampante come una buona parte dell’Europa abbia affrettato il passo, negli ultimissimi decenni, per la progressiva integrazione di persone queer all’interno del tessuto sociale: se dal 1871, anno di introduzione del temuto paragrafo tedesco, al 1994, anno della sua abrogazione, le condanne per omosessualità maschile furono circa 140000, da allora le leggi hanno mirato a una sempre maggiore accettazione delle esperienze queer, specialmente quelle relative all’omosessualità. Ne sono una testimonianza, per esempio, la legge sulle unioni civili (Lebenspartnerschaftsgesetz) del 2001 e la direttiva Allgemeines Gleichbehandlungsgesetz (letteralmente, “Legge generale di trattamento equo”) del 2006. Con la progressiva integrazione delle istanze omosessuali e queer all’interno del tessuto giuridico europeo e tedesco, la rappresentazione di determinate esperienze queer ha goduto di una sempre maggiore visibilità, tanto che ormai il cinema gay in particolar modo soffre di una serie di stereotipi che alcuni prodotti audiovisivi meno mainstream cercano di controbilanciare. Primo fra tutti, la classica dinamica del boy meets boy angloamericana: la narrazione egemone vorrebbe che due ragazzini di età preferibilmente adolescenziale si incontrassero come per magia all’interno di una qualche istituzione come scuola o università e nel conoscersi capissero improvvisamente, spesso con una buona dose di tragedia, di non riconoscersi nel paradigma eterosessuale. Insomma, una sorta di Romeo e Giulietta senza riflessioni filosofiche ma con tanto melodramma adolescenziale che possa far immedesimare persino le persone più omofobe – in fin dei conti, a chi non piace una bella storia d’amore adolescenziale condita con la tragicità dettata dal vivere in un sistema ciseteropatriarcale votato alla repressione e soppressione del desiderio omosessuale?

Romeos (2011), della regista Sabine Bernardi, non soltanto rimodella il nome dell’abusato dramma shakespeariano, ma cerca di contrastare una narrazione puramente omonormata – alla boy meets boy, appunto – per rappresentare la complessità delle relazioni che il protagonista intesse con il mondo circostante. Lukas, interpretato dall’attore cis Rick Okon, è un ragazzo trans di 20 anni che si ritrova catapultato nella grande Colonia per il servizio civile. Il palazzo in cui abita, primo grande riflesso della società nel suo complesso, è ovviamente diviso in una sezione femminile e in una maschile, ma, dato che la sua transizione non è ancora ‘completa’, a Lukas verrà assegnato un posto tra le ragazze. A nulla servirà il suo appello alle istituzioni, perché i documenti riportano ancora che il sesso di Lukas è weiblich, femminile: non essendosi sottoposto ancora alle operazioni di riassegnazione del sesso, il protagonista si ritrova a dover far parte del sesso assegnatogli alla nascita nonostante abbia già ottenuto il cambio di nome sui documenti. Peraltro, in Germania, ricorda Lukas al severo e transfobico responsabile della situazione abitativa, le operazioni sono tutte a carico dello Stato – un’occasione di colpevolizzazione che non sfugge al signor Boeken, come se questa notizia di cui non era al corrente prima del suo primo incontro con una persona trans fosse da prendere solamente con rancore. Grazie all’ingegno della signora Kampmann, Lukas riuscirà a trasferirsi nella sezione maschile, ma la transfobia si farà strada anche tra le sue nuove conoscenze, per quanto anche queste facciano parte della comunità LGBTQ+.

Affiche

A più riprese durante il film, il nome “Miriam” viene utilizzato per ferire Lukas, per ridimensionarlo, per ricordargli la sua natura di persona trans in un mondo votato alla sua marginalizzazione e soppressione. Diventa lampante, in questo contesto, come la favola del boy meets boy, in qualche modo già segnalata nel titolo – Romeos, al plurale, proprio a indicare che questa storia non tratta di una coppia eteronormata, contrariamente al dramma shakespeariano –, venga complicata dalla transessualità del protagonista: per quanto il film ricalchi dei tropi tipici di questa narrazione divenuta ormai egemone nel cinema queer, questi modelli soccombono alle maglie dell’ideologia eterosessuale impersonata in tutti i personaggi che ruotano attorno al protagonista. Il film, infatti, si fa, in un certo senso, portavoce di quei valori eterocispatriarcali che tendono a imporre al protagonista trans uno spazio narrativo asfittico in cui Lukas deve sempre difendere la propria posizione. Oltre al deadnaming, praticato a livello agonistico nella pellicola dalla migliore amica del protagonista, dalla madre, dalla sorella e da tutte le altre persone che sappiano come fosse stato chiamato alla nascita, ci sono anche le classiche domande inopportune sulla genitalità di Lukas e la recriminazione di aver ‘deciso’ di cambiare sesso nonostante gli piacciano gli uomini. A più riprese nel film, dunque, i personaggi che gravitano intorno a Lukas, ancora prima del suo interesse romantico di cui si parlerà più avanti, non si interessano pienamente alla sua transizione, ma incarnano quella epistemologia mortifera della differenza sessuale che Paul B. Preciado ha descritto perfettamente:

Tutto quello che c’è di terribile e di spaventoso nella transessualità non si situa nel processo di transizione in sé, ma nel modo in cui le frontiere tra i sessi puniscono e minacciano di morte chiunque tenti di varcarle. Non è la transessualità a essere spaventosa e pericolosa, ma il regime della differenza sessuale.

Se, come sostiene Preciado, “fare una transizione equivale a capire che i codici culturali della mascolinità e della femminilità sono aneddotici se comparati all’infinita oscillazione delle modalità dell’esistenza”, Lukas nel film viene costantemente rigettato da ogni codice perché si ricordi sempre che la sua è un’esistenza mostruosa, vissuta sotto strati e strati di vestiti nonostante la torrida estate faccia spogliare chiunque intorno a lui. Il suo corpo, lungi dall’essere quello femminile di Ine, che prende il sole topless in tutta tranquillità, o quello scultoreo di Fabio, interesse romantico e sessuale del protagonista, è, per utilizzare l’espressione di Preciado, una “somateca”, “un archivio politico vivente”, “in mutazione”. Attraverso l’osservazione di Ine, sua migliore amica che pare non vederlo da tempo, Lukas riscopre i piccoli cambiamenti che il testosterone sta causando in quel museo che è il corpo: le sopracciglia più spesse, la barbetta, la voce più profonda sono tutti indizi di questa transizione vista dall’esterno, che dall’esterno dovrebbe trarre riconoscimento e legittimazione pur di fatto non riuscendo a trovarne. Anche quando riesce a farsi strada nelle abitazioni dedicate ai ragazzi, anche quando gli viene concesso di entrare in un locale gay solo per uomini, anche quando viene invitato a fare il bagno, la sua difficoltà a spogliarsi, a rivelare quel che gli strati di vestiti larghi cercano di nascondere lo separa inevitabilmente dal codice della mascolinità denudata, del torso liberamente scoperto, ammirato e divenuto oggetto di desiderio anche per lo sguardo della regia. Solamente alla fine si realizzerà pienamente quella favola del boy meets boy che fa da sfondo al rapporto tra Lukas e Fabio, ma nel frattempo il pubblico e il protagonista devono misurarsi con tutta la violenza e la stupidità di un sistema ciseteropatriarcale spietato.

A fare da contraltare alla transfobia imperante ci sono una serie di piccole finestre che cadenzano la narrazione principale: si tratta di piccoli video nello stile vlog in cui Lukas parla delle varie fasi della sua transizione, dal dosaggio del testosterone alla sua difficoltà a dormire, tutto questo in inglese, perché la comunità di internet di uomini trans – rappresentata un paio di volte proprio attraverso questo espediente narrativo – è una realtà che deve necessariamente aprirsi al globale anche attraverso il linguaggio, nella speranza forse di ritrovare un gruppo di autocoscienza e di confronto collettivo che superi i confini nazionali e geografici. In quel piccolo riquadro circondato di nero, dimensione ben minore del grande schermo del film, Lukas trova un modo di occupare pienamente spazio, di narrarsi e soggettivarsi in quanto “FtM”, come si definisce davanti all’ottuso signor Boeken: solo in queste piccole finestre che attraversano la narrazione tutto sommato realista della sua vita si ritrova una dimensione intima e legittimata di transessualità maschile, dimensione che sfocia, in chiusura della pellicola, in un video amatoriale di Lukas che finalmente, in seguito alla doppia mastectomia, può sentirsi libero anche lui di togliersi la maglietta e correre verso il mare.

In ultima analisi, quel boy meets boy così pervasivo nel cinema queer viene spezzato dall’identità trans di Lukas, il quale in diverse occasioni si ritrova a fare i conti con quella cultura gay maschile così votata alla promiscuità, al sesso, alla nudità da precludergli di soggettivarsi in quanto ragazzo omosessuale. Ne sono testimoni gli episodi con Sven, amico con cui si ritrova improvvisamente a condividere una serata alcolica e, qualche ora dopo, il letto, e, in maniera preponderante, il suo rapporto con Fabio, che invece della mascolinità – anche tossica – ne è la perfetta incarnazione. Come fa notare Ine a Lukas, “was du an Männlichkeit zu wenig hast, das hat er zu viel, nicht?” (“di quello che ti manca della mascolinità lui ne ha fin troppo, no?”): tra i due poli della femminilità lesbica di Ine e la maschilità stereotipata seppure queer di Fabio, l’esistenza corporea di Lukas fatica a trovare uno spazio di manovra che si discosti da logiche ciseteropatriarcali perché sono proprio queste ultime a dettare i criteri di visibilità e vivibilità dell’esperienza trans all’interno dell’ideologia vigente. Se in un primo momento il suo poter ‘passare’ per cis gli consente di avvicinarsi a quella vita così marcatamente omosessuale dei club e del sesso occasionale, una volta che ci si rinchiude in uno spazio più intimo il suo essere trans deve emergere in tutta la sua forza sovversiva, palesandosi su quell’archivio che è il suo corpo, il quale mantiene la memoria di un sesso che Lukas non ha forse mai voluto come proprio, un sesso che complica e, fino agli ultimissimi minuti del film, gli impedisce, di fatto, di accedere a quella soggettivazione maschile e omosessuale tanto ammirata e desiderata dal protagonista. La sua identità in mutamento, il suo corpo in divenire complicano la traiettoria divenuta ormai lineare del boy meets boy incentrata sulla tragedia del coming out in famiglia e dell’amore scoperto ed esplorato in segreto e dichiarato solamente in sordina.

Per quanto, quindi, la legiferazione in termini di omosessualità maschile abbia vinto alcune battaglie, quella sulla transessualità rimane ben salda all’interno dei confini della patologizzazione e della stigmatizzazione non solo nel tessuto giuridico, ma anche e soprattutto in quello sociale e culturale in senso ampio. Se l’omofobia nel cinema queer è ormai quasi diventata un elemento negativo da superare nell’ottica di una maggiore integrazione, la transfobia rimane una presenza spettrale anche in quelle comunità che hanno da sempre rivendicato la necessità di diritti e rappresentazione per potersi emancipare dalla posizione subalterna alla quale sono state relegate in tanti luoghi e tempi diversi. La scelta di utilizzare un attore cis per interpretare la parte di un uomo trans, d’altronde, sembra ancora essere testimone di quel timore per cui scegliendo una soggettività invisibile e invivibile il film non potrà parlare a un pubblico più ampio. In questa parabola di liberazione, il personaggio di Lukas incassa i colpi anche da parte di persone a lui molto vicine che si dimostrano restie ad accettarlo nella sua transizione. Solo scavando uno spazio di comprensione oltre alla tassonomia vigente il suo rapporto con Fabio può uscire da questa impasse di una storia di amore tra due ragazzi dove però uno dei due ancora non è stato cristallizzato in maniera definitiva nel corpo presunto maschile.

Bibliografia:

Rainer Hoffschildt, « 140 000 Verurteilungen nach “§175” », in Plötz, Kirsten, et al., Invertito – Jahrbuch für die Geschichte der Homosexualitäten, Denunziert, verfolgt, ermordet : Homosexuelle Männer und Frauen in der NS-Zeit, Hamburg, MännerschwarmSkript, 2002.

Paul B. Preciado, Sono un mostro che vi parla, Roma, Fandango, 2022.

Apparato iconografico:

Immagine di copertina e immagine 1: https://movieplayer.net-cdn.it/t/images/2011/11/30/romeos-la-locandina-del-film-224421_jpg_750x400_crop_q85.jpg