Giorgio Scalzini
“La via del futuro somiglia stranamente a un percorso di corruzione e degenerazione.
Il cammino a ritroso, verso il passato, si trasforma perciò in un itinerario di purificazione dai danni che il futuro ha prodotto ogni qual volta si è fatto presente.”
(Zygmunt Bauman, Retrotopia)
Il crollo del sistema sovietico ha generato un tumultuoso e repentino processo di trasformazione e reinvenzione identitaria noto come trauma postsovietico. In questa situazione di impaccio esistenziale, la perdita di valori simbolici condivisi e l’azzeramento dell’immaginario collettivo hanno imperversato in Russia fino a rendere sempre più urgente il bisogno di rimarginare la ferita aperta della storia. In una cultura letteraturocentrica come quella russa, il compito di ripristinare la coerenza della realtà quotidiana, tramite negoziazioni discorsive volte a superare il suddetto trauma, non poteva che essere affidato alla letteratura.
In particolare, nel panorama della letteratura postsovietica, il romanzo è diventato la forma letteraria prediletta per sperimentare e promuovere nuove strategie identitarie. All’interno del processo di riscrittura della memoria storica, sempre più autori contemporanei hanno dato vita a storie alternative, allegorie ed esperimenti correttivi del passato che oscillano tra malinconia e nostalgia. Nel tentativo di sfrondare la confusione del presente e investigare il dubbio ontologico che corrode costantemente la Russia – sorto dal conflitto irrisolto nel sentire collettivo tra un glorioso passato (imperiale prima, sovietico poi) e un incerto futuro – sono state privilegiate le creazioni letterarie in grado di rafforzare il senso di appartenenza e di innalzare lo status simbolico dei lettori. Nello specifico, un genere in particolare ha svolto un ruolo decisivo nella costruzione del discorso identitario postsovietico: la fantasy russa, insieme a quella che forse è la sua ramificazione più peculiare – la cosiddetta Slavic fantasy.
Rispetto alla fantascienza, che vanta in Russia una tradizione ben più lunga e affermata, la fantasy intesa come genere a sé stante ha fatto la sua prima apparizione sul suolo russo soltanto verso la fine del secolo scorso. Infatti, durante l’epoca sovietica – marcata dal trionfo dell’utopia futurista – tra le due soltanto la fantascienza era approvata dalla critica ufficiale, e veniva perfino usata come strumento egemonico per modellare l’ Homo Sovieticus, facendo leva sulla sua caratteristica di dare una spiegazione razionale agli eventi; mentre la fantasy – con il suo sguardo rivolto a un passato mitologico, retto da presupposti magici privi di qualsiasi razionalità – era molto meno accessibile al pubblico e finiva spesso e volentieri per essere considerata come letteratura marginale, dallo scarso tenore artistico. Emblematico a tal riguardo il caso della prima (e parziale) traduzione russa ufficiale del Signore degli Anelli di J.R.R Tolkien, pubblicata nel 1982 – con ventotto anni di ritardo rispetto all’Occidente – sotto la sezione di “letteratura per l’infanzia”. A tale edizione ha fatto poi seguito il rifiuto della casa editrice di pubblicare le restanti parti della trilogia, incoraggiando così l’iniziativa individuale di una schiera di appassionati che si sono cimentati in diverse traduzioni amatoriali, molto diffuse in samizdat. Non è quindi un caso se la fantasy in Russia è esplosa negli anni Novanta, proprio in seguito alla dissoluzione dell’URSS.
Questo periodo è contrassegnato dall’ascesa della letteratura di traduzione, che ha riguardato i vari generi e sottogeneri, fantasy inclusa. Tale fenomeno è stato indubbiamente favorito, da una parte, dal desiderio di poter finalmente accedere a una letteratura messa al bando in epoca sovietica e, dall’altra, dalla disillusione nei confronti di riforme democratiche, che ha appunto spinto i lettori a trovare rifugio in quei prodotti letterari la cui valenza escapista potesse rispondere ai loro bisogni di autoaffermazione sociale. Si assiste quindi a un afflusso di opere tradotte dei principali autori occidentali del genere – da Tolkien a Howard, da Norton ad Anderson – che inesorabilmente fanno perdere competitività agli scrittori russi di letteratura fantastica, molti dei quali ricorrono a pseudonimi occidentalizzanti pur di reggere il confronto: è questo il caso di Elena Chaeckaja e del suo romanzo Meč i raduga (“Spada e arcobaleno”, 1993), pubblicato con lo pseudonimo di Mėdelajn Simons.
Tuttavia, non passa molto tempo prima che la produzione autoctona recuperi la propria egemonia perduta. Infatti, all’interno di un processo di assimilazione e reinterpretazione di modelli allogeni – una dinamica che affonda le sue radici nella storia della cultura russa fino ai tempi della Rus’ di Kiev – la fantasy russa ha iniziato a farsi largo con prepotenza nel mercato letterario interno. Ed è così che una pleiade di scrittori russi ha in origine attinto alla cultura angloamericana come principale fonte di indebitamento, per poi passare gradualmente a una produzione del tutto autonoma. Un caso esemplificativo che rispecchia questo fenomeno è quello dello scrittore russo Nik Perumov, il quale nel 1993 debutta con la sua trilogia intitolata Kol’co t’my (“Anello di tenebra”, 1993-1995), che in copertina riporta il sottotitolo: “libera continuazione del Signore degli Anelli”. In effetti, il ciclo ha come protagonista uno hobbit – Folko, discendente dei tolkieniani Bilbo e Frodo Baggins – che si imbarca in un viaggio per la Terra di Mezzo. Sull’onda del successo raggiunto in patria, Perumov passerà poi all’autonoma creazione di mondi finzionali con la trilogia Letopisi Ch’ërvarda (“Le cronache di Ch’ërvard”, 1994-1995).
Tra la moltitudine di categorie e sottocategorie interne alla fantasy russa, una sua precisa ramificazione si erge a emblema della coscienza postsovietica, uscendo dai confini artistici per esprimere le tendenze extra-letterarie che connotano la cultura russa. È il caso della suddetta Slavic fantasy.
Essa è un chiaro esempio di genere di letteratura di massa che si incarica di una funzione sociologica compensatoria. Difatti, le sue fortune sono frutto del costante rimando a un leggendario passato comune, che si regge sull’attenta rielaborazione delle byliny (i canti epico-popolari russi), della mitologia e di altri elementi del folklore slavo antico e precristiano. Tramite la mitizzazione del passato e il recupero di simboli e di antiche tradizioni, la Slavic fantasy cerca quindi di creare un canale diretto di comunicazione tra la cultura contemporanea e quella antica, così che il lettore moderno – anche attraverso rappresentazioni magiche più o meno verosimili – possa accedere a diverse interpretazioni della storia e al contempo distanziarsi dalla realtà che lo ha screditato.
All’interno del genere, una tale operazione si compie sulla base di sistemi di opposizione binaria, in cui si rinvengono i due poli per antonomasia, ovvero il Bene e il Male. A partire da questi due schieramenti in lotta tra loro – in cui il Bene è tendenzialmente rappresentato dagli antichi slavi, mentre il Male dagli altri popoli, siano essi finzionali o realmente esistiti – gli autori di Slavic fantasy idealizzano la cultura russa antica, nel tentativo di dimostrarne la superiorità rispetto alle altre tradizioni culturali. A tale scopo diventa fondamentale il tema del viaggio. In questi termini, infatti, la spedizione a cui si accinge l’eroe si tramuta in un cammino a ritroso verso la scoperta delle antiche e gloriose radici dei propri antenati.
Al genere della Slavic fantasy viene comunemente fatta risalire la figura di Marija Semënova, autrice della celebre esalogia Volkodav (“Wolfhound”, 1995-2014). Il ciclo è ambientato in un mondo parallelo simile a quello della Rus’ di Kiev e ha come protagonista il guerriero Volkodav, l’ultimo superstite del clan dei Serye Psa (“I Segugi Grigi”), che cercherà di vendicare lanciandosi in un’avventura all’insegna di molteplici imprese. Volkodav viene dipinto come un autentico eroe slavo, alla stregua di uno dei grandi eroi delle byliny: il bogatyr’ Il’ja Muromec, noto anch’egli per la sua integrità e la dedizione con cui difendeva la propria patria dagli attacchi nemici. È evidente come tale ritratto serva al mantenimento di un elevato profilo identitario del protagonista, nell’ottica di presentare al lettore un eroe nel quale riconoscersi.
L’opera di Semënova è intervallata da numerose digressioni sulla vita degli antichi slavi: vengono descritti gli usi e i costumi, le abitudini, le credenze e i riti. Degna di nota è anche la rielaborazione della mitologia slava, a partire dalla demonologia e dal pantheon degli dèi. Un esempio è quello del dio protettore di Volkodav: Povelitel’ Grozy (“Il Signore della Tempesta”), la cui immagine ricorda quella del dio Perun, il Signore del Tuono nonché principale divinità del pantheon slavo. A tutto ciò fa da cornice una precisa stilizzazione della lingua, prudentemente plasmata dall’autrice per rievocare l’atmosfera di quell’epoca. In aggiunta, nell’intento di spiegare e approfondire il complesso di elementi culturospecifici presenti nell’opera, Semënova ha compilato un’enciclopedia dal titolo My – slavjane (“Noi siamo gli slavi”, 1997), esortando così i lettori russi a riconoscere l’importanza delle proprie origini.
In conclusione, è indubbio che i microcosmi epici della fantasy russa, e in particolare della Slavic fantasy, si innalzino a strumento per elaborare il trauma postsovietico e ristabilire delle solide coordinate socio-culturali. Per tale ragione, è difficile prevederne gli sviluppi futuri. Tuttavia, finché in Russia gli orizzonti ontologici continueranno a indicare la rotta del passato, tutto lascia presagire che la fantasy seguiterà a ricrearlo e reinterpretarlo all’infinito, confermandosi portavoce di un rinnovato legame con la memoria storica.
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Apparato iconografico:
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