Silvia Girotto
Conosciuto oggigiorno principalmente per Origini (“Herkunft”), Saša Stanišić pubblica in Italia già nel 2019 con L’Orma editore una sorprendente raccolta di racconti la cui traduzione è stata affidata a Giovanna Agabio. In questo tornado di storie l’autore, vincitore del Deutscher Buchpreis proprio nel 2019, permette a lettori e lettrici di immergersi in una serie di semplici quanto strampalati quadretti che acchiappano il pubblico per non lasciarlo più andare, intrappolando gli stessi fruitori tra pagine ricche di ispirazione.
Stanišić è un autore di origini balcaniche, figlio di madre bosniaca e di padre serbo, che decide di scrivere le proprie opere in tedesco vincendo con esse, oltre al già citato Deutscher Buchpreis, anche l’Alfred-Döblin-Preis.
Link al libro: https://www.lormaeditore.it/libro/9788831312257
Trappole e imboscate si presenta ai suoi lettori come un’innocua raccolta di narrazioni apparentemente molto differenti fra loro, con personaggi diversi e scenari che spaziano dai piccoli paesini tedeschi agli aeroporti dell’America Latina. In un susseguirsi di immagini distinte il lettore si imbatte nello spettacolo di magia di Ferdinand Klingenreiter di fronte ad amici e parenti, scena che si converte nel giro di poche pagine in una partita a biliardo multietnica, arrivando al viaggio sul fiume Reno su di una barca piena di attivisti cristiani che interloquiscono in maniera squisitamente realistica e al tempo stesso assurda. Qui un’anonima narratrice accompagna l’amico Mo – originario del Kosovo – nelle sue avventure quotidiane, che riprenderanno dopo una pausa di pochi capitoli nei paesi del Nord Europa. A queste storie si inframezzano voli verso il Brasile e viaggi a Stoccolma, con occasionali pensieri anche al territorio siriano. Si mostra così al pubblico un pot-pourri di immagini distinte, che Stanisic inserisce in una cornice difficilmente definibile, ma in cui è possibile identificare un fil rouge, ovvero la fuga e la ricerca di un rifugio. Uomini e animali fuggono e si rintanano, cadendo irrimediabilmente nella trappola tesa da un’entità superiore. È in questo modo che Mo e la sua amica – la narratrice – si ritrovano nella multiculturale Stoccolma, meta di migliaia di emigranti dove i due finiscono per rubare il quadro di un rifugiato legato a un racconto intimo e profondo.
Racconti come questo, che parlano di migrazioni, spostamenti e incontri fanno innocentemente capolino qua e là nella narrazione, come per ricordare il lettore della propria presenza senza occupare spazio. Si tratta di un tema perennemente presente, che osserva il lettore da un angolino facendosi appena notare, senza disturbare ma costantemente in procinto di inserirsi nella conversazione. Il tema è, d’altra parte, caro allo stesso Stanišić, classe ’78 e originario della Bosnia, da cui si allontana nel 1992 assieme ai genitori per recarsi da parenti che dimorano nel sud della Germania. Nella città natale, Višegrad, aveva potuto assistere all’attacco delle truppe serbe. Colpito da questi eventi in un’età delicata, Stanišić mostra quindi di voler portare avanti il ricordo dell’allontanamento e della guerra con questa serie di immagini che se da un lato intrattengono il lettore, dall’altra gli ricordano costantemente l’esistenza di questi eventi. E forse è proprio questo modo di osservare le cose, anzi di non osservarle, che Stanišić critica: è un vedere senza vedere, un ritenere qualcosa lontano nonostante non sia poi così distante nel tempo e nello spazio. È il caso degli scontri nella penisola balcanica, che in Europa Occidentale a volte ancora si fatica ad approfondire, ma che è in verità una realtà più vicina di quanto non sembri. In Trappole e imboscate gli eventi di questo genere vengono osservati con sufficienza e talvolta anche mostrando quella che viene definita “pornografia del dolore”. Un esempio lampante ne è l’interruzione del racconto del padre siriano ad opera di uno degli ascoltatori:
“[…] il padre raccontò per la quarta volta del fatidico giorno, immaginando però uno scenario parallelo, in cui i bambini restavano illesi perché lui aveva scelto un’altra via per condurli a scuola. Allora un uomo con impronte digitali sulle lenti degli occhiali aveva chiesto se da quell’altra strada si sarebbe potuta vedere l’esplosione, ed ecco che per me e per Mo quella era una buona domanda, ma al tempo stesso era pure il segno di un eccesso di interesse.” (p. 64)
La narrazione è ricca di elementi soggettivi e suggestivi, racconti dentro i racconti visti sia con serietà che con ironia, ma mai con sguardo solenne, preferendo invece sottolineare la concretezza delle immagini trasmesse. Le bombe in Siria sono causa di morte e tuttavia Stanišić mai si lascia andare a discorsi strappalacrime che fanno sciogliere il lettore, preferendo piuttosto lasciare questo di stucco attraverso il paradosso del contesto. Il quadro ritraente i figli in pericolo dell’artista finisce per essere gettato sotto il letto di Mo e della donna, che con schiettezza e onestà non mostra alcun rimorso per i propri pensieri e le proprie azioni al limite dell’assurdo: “Per un istante fui attraversata dall’idea di rubare uno dei due bambini anziché il quadro, ma che cosa può farsene la sorellastra di Mo di un bambino siriano?” (p. 71)
Le stesse sensazioni di incredulità pervadono il lettore nella storia del tenditrappole, uomo dalle mille sfaccettature e dalle mille possibilità che con il proprio topolino ammaestrato inganna gli abitanti della cittadina di Fürstenfelde, immersi nella natura e che in essa si confondono. Moderno pifferaio di Hamelin, influenza animali e uomini portando scompiglio nella cittadina e mostrando che, alla fine, un paragone tra uomo e animale è molto più complesso di quello che sembri:
“Il lupo in sé, […] non era affatto un problema. C’erano persone che erano più cattive dei lupi. ‘Che prima aizzano e sparano, e non pensano al dopo, non pensano proprio per niente.’” (p. 191)
Una giostra di immagini incredibilmente dirette e schiette si presentano senza veli al pubblico, contornate qua e là da un quasi flusso di coscienza, come quello di Georg Horvath nel suo ricercare le migliori espressioni per descrivere la distesa di luci che si spalanca sotto di lui durante l’atterraggio in Brasile. Con nonchalance lo stesso Horvath si introduce in una macchina che non è in aeroporto per lui, si immerge in una vita non preparata per lui in una situazione che ricorda i paradossi sudamericani di García Márquez nei suoi vari racconti: in questi racconti la novità sono i lampi di raziocinio che sbucano dalla nebbia di questo teatro dell’assurdo.
Apparato iconografico:
Immagine di copertina e Immagine 2: https://www.sueddeutsche.de/image/sz.1.4641063/704×396?v=1571073091