“qualcosa in questo natale deve pur esserci”, un racconto di Michal Viewegh

Traduzione a cura di
Valentina Cancian
Linda Caregnato
Bianca Dal Bo

 

Michal Viewegh è uno degli autori contemporanei cechi più famosi non solo in patria ma anche all’estero. Per Andergraund Rivista è già stata edita la traduzione di un brano tratto da Můj život po životě e l’intervista L’educazione degli scrittori in Boemia.

Povídky o lásce | CzechLit

Il breve racconto něco na těch vánocích být musí (“qualcosa in questo natale deve pur esserci”) è tratto dalla raccolta Povídky o lásce, pubblicata nel 2009 a Brno dalla casa editrice Druhé město. L’amore è qui trattato nelle sue diverse forme e sfumature, passioni irrivelate, il rapporto padre e figlio, incontri casuali al tavolo di un bar, amanti e vecchi scapoli. Insomma, con stile peculiare, Michal Viewegh, esplora il tema con tocco ironico, lasciando spuntare un sorrisino di compassione e comprensione verso i personaggi e le loro storie a chi legge. Dieci anni dopo, nel 2019, esce con la casa editrice Ikar Povídky o nelásce, l’altra faccia della medaglia, una raccolta di racconti sul disamore, quasi a rimarcare la faccia più sventurata di ogni relazione.

La traduzione e la pubblicazione sono state autorizzate dall’autore.


“qualcosa in questo natale deve pur esserci”

La notte calava velocemente. Sono appena le quattro del pomeriggio ed è già buio pesto – ma che ci troverete tutti in questo Natale?, pensò Ernesto. Lo faceva spesso, di ripetersi a mente o a bassa voce le frasi in ceco sentite durante la giornata.

Da entrambe le direzioni di corso Masaryk scrosciava un’interminabile fiumana di persone. Ombrelli, sacchetti di plastica, scatole, pacchetti. Bastava osservare anche solo per un attimo i volti dei passanti e l’intera gamma delle emozioni era al completo in ogni sua sfumatura: dalla felicità al nervosismo, dall’irritazione fino alla pura e semplice rabbia. Di questo Natale ne ho già le palle piene. Ora più che mai, il Natale gli ricordava un teatro dell’assurdo. Comprensibile. Si sforzava di trovare il coraggio di alzarsi per andare a pagare e unirsi alla folla a caccia di regali, ma alla fine chiamò la cameriera e ordinò un’altra grappa. Come al solito aveva rimandato lo shopping natalizio fino al pomeriggio del ventitré dicembre, come prova della fiducia che Ernesto riponeva in se stesso: non avrebbe mai ammesso che la sua creatività, la sua empatia (c’è da dire comunque che riusciva ad azzeccare i gusti dell’amante molto meglio del marito) e la sua capacità di prendere decisioni in fretta avrebbero potuto prima o poi piantarlo in asso. Appena prima di tuffarsi tra i negozi, si metteva ogni volta a sedere nel suo locale preferito e con tutta calma si gustava un espresso e una grappa – solo che quest’anno se ne stava lì al tavolo già da più di due ore e si rendeva sempre più conto che di uscire dal locale non ne aveva la minima voglia.

Era tutto fin troppo piacevole. Che bella luce e che calduccio, pensò Ernesto. Proprio come in estate, quando è facile cedere all’illusione che il mondo sia un luogo ospitale. Il buio e il gelo sono però parecchio più reali. Ripensò al padre, mancato a ottobre a tre mesi dalla diagnosi. Già l’ultima volta che era tornato a casa il padre non riusciva più a riconoscerlo. Ernesto aveva preparato alle sorelle e alla madre un Martini ed era andato a farsi una passeggiata. La mamma era un po’ brilla, aveva scavalcato le sbarre del letto reclinabile del padre e gli si era addormentata accanto, sul cuscino tutto sporco. Ernesto cercava di autoconvincersi che quando si sarebbe davvero convinto a pagare, nessuno glielo avrebbe impedito, né i due connazionali appena entrati che gli avevano stretto la mano, né la brunetta coi capelli corti al tavolo accanto. Non era il suo tipo ma qualcosa in lei lo attirava. Fascino silenzioso e inascoltato, gli venne in mente all’improvviso in italiano, per poi tradurre subito il pensiero in ceco. La pioggia fredda infittiva e il locale a poco a poco cominciò a riempirsi. Sotto l’appendiabiti, pieno di ripugnanti giacche sportive (in un piccolo impeto di orgoglio Ernesto si rese conto di essere l’unico degli uomini presenti a possedere un cappotto invernale di qualità), si erano accumulate diverse scatole di elettrodomestici. Gli aveva lanciato uno sguardo sprezzante: un forno a microonde, un lettore DVD e un tostapane. La morte del padre aveva trasformato molte cose in cianfrusaglie senza valore. All’improvviso perse tutta la sua sicurezza, per la prima volta dovette riconoscere che a Renata, con cui aveva un appuntamento segreto la mattina seguente, non avrebbe fatto in tempo a comprare nessun regalo di Natale. Immaginò subito che la delusione e la rabbia le avrebbero sfigurato il volto. Fu solo una frazione di secondo, poi un’espressione familiare riapparve sul viso di Renata, ma quell’immagine fugace lo mise di cattivo umore. Non la conosceva così. Ordinò la terza grappa, si mise a cercare tra i ricordi, tentando di raccogliere altre prove dell’atteggiamento egoista di Renata all’interno del loro rapporto.

Nel frattempo, per il locale circolava il tostapane per la suocera, già scartato, che il proprietario un po’ brillo aveva deciso di mostrare agli altri allegri commensali. Quando la ragazza dai capelli neri se lo ritrovò sotto il naso, si rifiutò all’inizio di prenderlo, poi afferrò stizzita l’apparecchio per passarlo a Ernesto.

“Posso offrirle qualcosa da bere?”, le chiese, indicando il bicchiere vuoto, appena il tostapane era tornato al punto di partenza.

“No, grazie.”

Per ragioni a lui ignote non voleva demordere. Le dava trent’anni, o qualcosina in più.

“Non pensi male. Ma però la vedo triste, ecco tutto.”

Dopo undici anni a Brno, parlava praticamente senza accento, ma in quel momento aveva cercato di svelare lievemente le sue origini, aggiungendo di proposito pure un piccolo errore. Sperava gli chiedesse da dove veniva, dandogli uno spunto per una conversazione avvenuta già molte volte: infanzia in Toscana, il minore di tre figli, unico maschio, gita scolastica a Praga a cui si era iscritto il giorno stesso della partenza, primo amore, università a Pisa, altri viaggi in Boemia; eccetera, eccetera. Si faceva schifo da solo.

“Triste? Perché non mi sono messa a ridere per il tostapane della suocera?”

Lo fissò negli occhi con disapprovazione, solo che alla fine qualcosa sul viso di Ernesto attenuò il suo irritato sguardo di sfida.

“Sono stanca”, disse quasi scusandosi. “Stanca morta.”

Alla cameriera scivolò un bicchiere dal vassoio e si ruppe. La brunetta serrò leggermente le palpebre con fare teatrale.

“Allora parliamo di tristezza e del nostro essere stanchi morti”, propose tranquillamente Ernesto.

Sapeva interpretare le situazioni. Aspettava. Il suo cellulare iniziò a lampeggiare. Ernesto gli rivolse un rapido sguardo.

“È un bel tema”, aggiunse.

Il display si oscurò.

“Bene”, concordò lei controvoglia. “Ma a una condizione: non ci presenteremo.”

Ernesto annuì.

“E ognuno resterà al proprio tavolo. E niente smancerie”, precisò lei. 

Sedevano rivolti verso le finestre del locale. Ernesto alzò le mani in segno di resa. Già pregustava il momento in cui i polsini candidi della camicia sarebbero sgusciati dalle maniche della giacca. Un dettaglio estetico per cui aveva da sempre avuto un debole.

“Ha altre condizioni?”

Per capirsi dovevano chinarsi in avanti. Era scomodo e buffo.

“Sì. Non può divagare.”

La cameriera chiese loro se desiderassero altro. Sebbene continuassero a starsene seduti ognuno per conto proprio, già li considerava una coppia. Ernesto percepì il suo celato disappunto.

“Cosa prende?”, le chiese allora.

“Faccia lei.”

“Due Martini, per favore.”

La cameriera se ne andò. La musica si diffuse in tutto il locale ed Ernesto cedette per un istante all’illusione che gli isolotti di ombrelli colorati galleggiassero su corso Masaryk a quello stesso ritmo.

“Può cominciare”, disse lei impaziente, senza manifestare troppo interesse. “Su, mi convinca che è capace di sostenere una discussione sulla tristezza.”

Scuoteva la testa.

“Un mese fa è morto mio padre”, confessò lui senza esitare. “Certo, mi rendo conto di aver ottenuto un vantaggio immeritato in modo fin troppo facile.”

Lo squadrava con diffidenza.

“È in un certo senso sleale quanto avere un asso nella manica”, ammise Ernesto.

“Il suo ceco sta migliorando a vista d’occhio”, osservò sarcastica. “Un miglioramento così repentino non è da tutti.”

“Ci so fare con le lingue.”

Rimasero in silenzio.

“Continui pure”, lo esortò.

“La mia famiglia vive in Toscana. Non si preoccupi, non andrò fuori tema. Mia nonna, la mamma di mio padre, è ancora viva e vegeta. Gode di ottima salute. Per un intero anno si vestirà di nero e, come lei, anche mia madre e le mie due sorelle. Io invece me ne starò seduto nei locali di Brno, a mille chilometri di distanza.”

Lei scrollò le spalle. La sola cosa che aveva suscitato quell’insolita sincerità, era reciproca indifferenza, venne in mente a Ernesto. Grappa e indifferenza. 

“Prima di lei non avevo parlato a nessuno della morte di mio padre.”

Bravo, esibisci il tuo lutto, pensò Ernesto in ceco. Ma era vero, non lo aveva detto nemmeno a Renata. Qualcosa stava bruciando. Si girò e avvistò del fumo. Dal tostapane acceso sul tavolo di fronte a loro balzò fuori un portafoglio abbrustolito.

“Ma lei perché è qui?”, chiese la ragazza, placatosi il baccano.

“Non divaghiamo.”

Per la prima volta gli sorrise. Mentre la cameriera infuriata arieggiava la stanza, un’umidità pungente penetrò in tutto il locale.

“Cos’è che la stanca?”

“Uomini sposati. Uno in particolare.”

Ernesto provò inaspettatamente un certo dispiacere.

“Non è venuto”, disse lei con una smorfia. “Non ha fatto in tempo a passare l’aspirapolvere e a comprare le carpe[1].”

“Pure io esco con una donna sposata”, le rivelò Ernesto.

Lei sbuffò.

“Ormai mi ci sono abituata. Questo è il terzo. Non so, ho qualcosa che li attira.”

Ernesto annuì.

“È un chirurgo. Non posso chiamarlo, solo scrivergli e basta. Non pretendo nulla, comprendo tutto. Sono l’amante ideale.”

La cameriera piazzò sul tavolo i Martini. Ernesto cercò di leggere nel volto della vicina se nella vita fosse più felice o più triste. Era la prima volta che gli capitava di farlo. La brunetta alzò il bicchiere e, senza accennare un minimo sorriso, lo fece tintinnare con quello di Ernesto.

“Però dai, cazzo, è Natale!”, esclamò.

Non si era sentito tanto solo neanche quella volta quando, undici anni prima, aveva lasciato l’Italia. Non capiva perché oggi gli fosse andato via via tutto al diavolo. Il riassunto della mia vita, pensò.

“Sì, per questo genere di cose il Natale è davvero stupido”, continuò Ernesto.

“A Natale ce ne rendiamo conto un po’ di più. Tutto qui.”

Gli tornò in mente il padre.

“Alla vigilia di Natale ovviamente starò dai miei”, continuò la ragazza. “Faremo tutti finta che sia tutto a posto. Addenterò il primo boccone di insalata di patate e mio padre commenterà: prima di iniziare aspettiamo la mamma, no?”

Alla radio partì Merry Christmas. Si misero a ridere.

“Io di questo Natale ne ho già le palle piene”, esclamò Ernesto.

“Lei non ci crede molto alla nascita di Gesù bambino, o sbaglio?”

“No.”

“Neanch’io.”

“Vorrei, ma… Non ce la faccio. Non ci sono mai riuscita.”

“Neather me”, aggiunse lui con naturalezza.

Il presepe!”, enfatizzò ironica. “Non le sembra un po’ infantile? Tutte quelle statuine?”

Per un istante gli sfiorò la mano. Ernesto non oppose resistenza, il suo fare divertito nascondeva, però, una certa delusione. Stava succedendo tutto troppo in fretta. Il suo fascino silenzioso era svanito.

L’incantesimo si era spezzato.

“Nemmeno la scarpiera sono stati capaci di montarmi”, ruppe il silenzio la ragazza.

“L’Ikea, ha presente… Ogni volta quei tre perfetti maritini mi promettevano che me l’avrebbero montata, poi quando si rendevano conto di quanti bulloni c’erano da avvitare… finivano sempre per trovare delle scuse.”

Banalità, pensò Ernesto.  Nient’altro che banalità.

“È da due anni che mi ritrovo quella scatola all’ingresso, la mia vita è una scarpiera da montare.”

La sua voce suonò tutt’altro che sobria.

“Il conto!”, Ernesto chiamò la cameriera.

Si era messo a tamburellare con le unghie sul tavolo, forse per non far svanire quel prezioso momento di decisione. Era forse ancora in tempo per comprare almeno un profumo. Glielo si leggeva negli occhi che si era offesa. La brunetta stava tutta impettita. Lui la salutò, fece un cenno ai connazionali, si infilò il cappotto e uscì in strada. Un ombrello gli avrebbe fatto comodo. Il trascinarsi della folla obbligò Ernesto a decidere in fretta e furia da che parte dirigersi. Alcuni negozi erano in chiusura. Diede un’occhiata alla vetrina più vicina con le luci ancora accese e per poco non travolse un bimbo di cinque anni.

“Ehi, attento a dove metti i piedi!”, gli urlò la madre.

Si scusò. Iniziava a sentire freddo, ma da bravo cocciuto il cappotto continuava a lasciarselo aperto. Era stato un errore non tornare in Italia per Natale. Ma ormai era tardi. Per cercare riparo si diresse verso il palazzo di fronte e rimase lì sotto con aria smarrita. Chi ha un perché per vivere, può sopportare quasi ogni come, pensò sarcastico. Fece il giro dell’isolato e rientrò nel locale. La brunetta lo vide quasi subito. Aveva la faccia gocciolante di pioggia.

Ernesto scrollò le spalle.

“Ciao.”

Gli fece cenno di sedersi accanto a lei.

“Allora è proprio vero, qualcosa in questo Natale deve pur esserci”, aggiunse appena dopo.


[1] In Repubblica Ceca a partire dall’Ottocento la carpa fritta è l’immancabile piatto principale natalizio della cena della vigilia, oltre alla tipica insalata di patate. Ogni anno, le strade del Paese si riempiono di pescivendoli con i propri contenitori d’acqua provvisti di carpe in vendita per la cena di Natale. Un’usanza è quella di portare a casa il pesce e lasciarlo nuotare nella vasca da bagno per poi ucciderlo alla vigilia.