Cristiano Schirano
“In fondo, è stato questo interesse per l’essere umano
negli altri e in me stesso che mi ha portato al teatro.”
Jerzy Grotowski
Il teatro nato (o ri-nato) alla fine del medioevo e quello cosiddetto borghese, che gli è seguito, hanno abituato il loro pubblico a segnali, codici, regole che hanno permesso a quest’ultimo di illudersi (esperienza piuttosto comune in quest’arte) di essere nel pieno controllo dell’ambiente che hanno sempre frequentato: di conoscere la distinzione tra pausa e azione, tra spazio degli attori e degli spettatori; quella tra il momento della prova e lo spettacolo in scena, costringendolo a riconoscere, da ultimo, la maggiore nobiltà di quest’ultimo rispetto alla prima. E vi è stato chi ha impresso alcune di queste abitudini nelle stesse drammaturgie, dunque nel tempo: sarebbe sufficiente menzionare alcuni dialoghi tra Prospero e Ariel in The Tempest di Shakespeare: “Prospero […] What is the time o’ th’ day? | Ariel Past the mid-season. | Prospero At least two glasses. The time ‘twixt six and now / Must by us both be spent most preciously”, in cui si riconoscono, in sostanza, quelli che erano gli orari degli spettacoli nel teatro elisabettiano. Ancora oggi, gli spettacoli di prosa o di lirica sono annunciati invitando contestualmente le spettatrici e gli spettatori a prendere posto. (E qui risuona la voce di Treplev nel Gabbiano: “Signori, si comincia! Prego, attenzione!”)
Si sa, certi costumi sono stati osteggiati, nel tentativo di essere aboliti, nel Novecento, da tutta una scuola di “teatranti di contraddizione” – espressione presa a prestito da Armando Petrini per distinguerli, quel tanto che basta, da certa avanguardia – che hanno cercato qualcosa che non fosse propriamente teatro, senza nemmeno talvolta cercare il teatro stesso, come ha ammesso in più occasioni il più rivoluzionario fra questi nomi, Jerzy Grotowski (1933-1999). Il Novecento, dopotutto, è stato, secondo Mirella Schino, “il secolo degli esperimenti e dei tentativi anomali. Li ritroviamo lungo tutto il secolo: maestri, profeti, intellettuali che hanno riflettuto sull’uomo e sul mondo attraverso il teatro”, il quale, da parte sua, “ha acquisito, nel Novecento, uno statuto di luogo di rivolta” (p. 10). Grotowski stesso, come regista dei propri spettacoli, rientra fra quelli che inaugurarono “forme di sperimentazione su due diversi sistemi di relazione tra i tanti che compongono lo spettacolo: quello che intreccia i rapporti tra il gruppo degli attori e quello degli spettatori […] e quello dei diversi livelli della drammaturgia […]”, prosegue Schino, che riconosce nel metodo (da hodós, ‘via’, parola cara a Grotowski) del maestro polacco una rivoluzione nel modo di concepire ciò che fa lo spettacolo, ciò che contribuisce a esso; a cominciare dalle prove. Grotowski, dopotutto, si avvicina all’arte drammatica e inizia a operare in un momento critico, come ricorda in un’intervista del 1992, che citiamo dalla trascrizione, opportunamente integrata, della stessa Mirella Schino nel suo Alchimisti della scena:
“Eravamo in pieno stalinismo, allora, la censura era rigida, e tutta la mia attenzione di regista si concentrò sul fatto che lo spettacolo può essere censurato, ma le prove no. Per me, le prove sono sempre state la cosa più importante. Era durante le prove che poteva accadere qualcosa tra un essere umano e un altro essere umano, tra un attore e me, che toccava questo asse, quest’assialità, al di fuori di ogni controllo dall’esterno. E questo aspetto è sempre rimasto nel mio lavoro: gli spettacoli sono sempre stati meno importanti del lavoro fatto durante le prove. Lo spettacolo doveva essere impeccabile, ma tornavo sempre verso le prove, anche dopo la prima, perché le prove sono state la grande avventura.” (p. 23-24)
Lontani, dunque, dall’amletico monito “The play’s the thing”? Affatto; a dimostrazione del dichiarato interesse di Grotowski di essere fedele alla tradizione, di non voler essere accomunato, di fatto, alle avanguardie. Eppure Grotowski si è spinto oltre, nel tentativo di trovare una soluzione al proprio dilemma:
“Da giovane mi domandavo quale fosse il mestiere possibile per cercare l’altro e me stesso, per cercare una dimensione della vita che fosse radicata in ciò che è normale, organico, persino sensuale, ma che oltrepassasse tutto questo, che avesse una sorta di assialità, di asse. Un’altra dimensione, più alta, che ci oltrepassa.”
Come cercare una dimensione più alta in qualcosa che si tocca con mano e si tende a frequentare tutti i giorni, e che fa talmente tanto parte del nostro quotidiano (allora, forse, molto più di oggi) da apparire fin troppo sensibile, tangibile, ordinario? Nell’inesplorato, nello spirituale e nello psichico, componenti decisive del mistero teatrale. Questo è un punto centrale del lavoro di Grotowski sul teatro, su di sé, sull’attore – anzi, per usare un termine che egli adotterà nella seconda parte della sua attività, sul Performer. Alla base, un diverso rapporto con il pubblico, ottenuto tramite il continuo cambiamento dei luoghi in cui ospitare la performance – “spazi diversi, reinventati per ogni nuova rappresentazione, ma sempre ristretti (per volontà del regista, non solo e non sempre per costrizione delle circostanze) […] spazi più economici e più facilmente accessibili, come stanze o palestre”, spiega ancora Schino; tramite la drastica riduzione dei partecipanti all’evento – per i medesimi motivi –, che egli, precisa Cesare Molinari, definiva testimoni (assolutamente calzante, e per il ruolo e per l’etimo, nel caso del Principe costante); un rapporto del quale si è poi occupato nella seconda fase del suo lavoro, cosiddetto parateatrale. Esemplare è stato anche il rapporto instaurato con Ryszard Cieślak (1937–1990) – protagonista del Principe costante (1965, ospitato al X Festival dei Due Mondi di Spoleto due anni dopo) e di Apocalypsis cum figuris (1968, ultima regia del nostro) –, di cui Grotowski rende noti alcuni dettagli nella medesima intervista del 1992.
“Con Ryszard, abbiamo lavorato per mesi, soli, senza testimoni. Ci siamo riferiti a un ricordo relativamente breve della sua vita di adolescente, estremamente gioioso, legato alla sua grande avventura amorosa. Ed è stato, come è possibile quasi unicamente nel tempo dell’adolescenza, qualcosa fra la sensualità e la preghiera. Non direi nemmeno sessualità: fra la sensualità e la preghiera. Abbiamo ritrovato un modo di prendere il volo, abbiamo cercato, e ritrovato, le più piccole azioni, impulsi in quel momento: è stato come se quell’adolescente rammemorato si liberasse dal peso del corpo con il corpo; come se andasse in un territorio dove non c’è più peso, non c’è più sofferenza.”
Un lavoro straordinario, secondo Schino, “sulla forza dell’attore e sulla vulnerabilità degli spettatori” (p. 26). Di qui l’idea, passata ormai alla storia, condensata nel titolo di un contributo ormai mitico, Per un teatro povero; un teatro che può “esistere senza cerone, senza costumi e scenografie decorative, senza una zona separata di rappresentazione (il palcoscenico), senza effetti sonori e di luci, ecc. Non può invece esistere senza un rapporto diretto e palpabile, una comunione di vita tra l’attore e lo spettatore […]” (p. 25). Eliminare, via negativa.
In molti hanno saputo raccogliere l’eredità di Grotowski prima ancora della morte del mentore, e anzi quasi in contemporanea alla sua prima attività. Il nome più celebre è, forse, quello di Eugenio Barba, allievo di Grotowski ai tempi del Teatr 13 Rzedow di Opole, fondatore nel 1964 dell’Odin Teatret. Ma oltre a Barba, consacrato a livello internazionale, altre realtà sono sorte nel segno di Grotowski, seminate in qualche modo da lui stesso, ma in contesti alquanto diversi. Una di queste è il Teatro Laboratorio Alma Alter di Sofia.
Il suo fondatore, Nikolaj Georgiev, si interessa al teatro alla fine degli anni Cinquanta, mentre frequenta l’Università di Sofia. Si dimostra interessato soprattutto al lavoro di registi dissidenti che avevano tentato, in quel periodo, di rompere il dogma del “socialist realism by abandoning its psychological rationalization, ideological stereotypes, and fake optimism and embracing instead the aesthetics of symbolism and epic theatre”, racconta Vessela S. Warner (p. 122). Durante i suoi viaggi in Polonia, da studente di regia, frequenta Opole e ha la straordinaria fortuna di assistere alle prove pubbliche del Teatr 13 Rzedow di Grotowski. Al suo ritorno in Bulgaria, nel 1965, comincia a lavorare a Pleven. Sebbene stesse acquisendo una certa notorietà con le sue originalissime quanto sovversive interpretazioni di classici e di contemporanei, viene presto licenziato probabilmente su pressione del Partito Comunista. Fonda, nel 1970, il Teatro Studio 4+4 – così chiamato perché composto da quattro membri donne e quattro uomini –, “one of the many community-based cultural organizations that provided educational and popular entertainment” (ibid.), esperienza destinata a concludersi in quanto “foreign to the national literature and arts and a source of damaging Polish and Czech influences”, spiega Georgiev in un’intervista rilasciata a Warner. Dopo la profonda crisi attraversata dall’intera nazione negli anni Ottanta (di cui l’allentamento delle politiche censorie fu un effetto – era prossima, dopotutto, anche la caduta del regime), periodo che Georgiev trascorre in Cecoslovacchia, la Bulgaria tenta una strada verso un nuovo tipo di teatro. Impresa impossibile, utopia, se intrapresa con attrici e attori professionisti. Così nel 1994 Georgiev, ostinato a voler intraprendere un percorso ispirato a quello di Grotowski, inaugura lo Studio for Synthesized Stage Skills, o 4xS, “an experimental acting class at the 22nd High School in Sofia, enrolling young people with no previous theatre experience”; dal quale nasce, poi, nel 2000, il Teatro Laboratorio Alma Alter (o @lma @lter), sancendo così la rinascita delle attività del teatro studentesco dell’Università di Sofia. Il repertorio della compagnia, spiega ancora Warner, è caratterizzato da:
“[t]wo types of experimental performance, often separated by rather blurred boundaries […]: text-based theatre productions, presented in the black box space, and site-specific happenings at various public events […]. Whereas the first type of performance includes only company members, who train and rehearse together for a long period of time, the second type also involves as participants students, spectators, or random passersby.”
Del primo gruppo fanno parte alcune interessanti rielaborazioni scespiriane (Time for Lear; Hamlet, or Three Boys and One Girl; I, Lady Macbeth; The Tempest) e di altri capolavori (come la più recente Margarita and the Master). Il secondo tipo di performance è detto, in bulgaro, sluchvane (da sluchvam se, ‘accadere’, dunque ‘evento’, lett. ‘accadimento’). Sono vicine all’esperienza parateatrale di Grotowski e prevedono l’abbandono, l’eliminazione di ogni limite o confine tra attori e spettatori, in un’operazione che coinvolga entrambe le parti in maniera spontanea e quasi-ritualistica. Ma in maniera sensibilmente diversa rispetto al primo Grotowski. Secondo Petja Josifova, coreografa, regista, che affianca Georgiev come co–direttrice di Alma Alter sin dai tempi di 4xS, infatti, “il pubblico non va scaraventato sotto il proiettore. Devo coinvolgerlo con delicatezza. Il pubblico manda messaggi; e sta a me ascoltarli, attentamente, perché, a volte, può darti pessimo materiale per la riuscita della tua performance”. Diversamente dal Grotowski di Opole, precisa.
Il punto di partenza di ogni spettacolo è una traccia a partire dalla quale creare un metatesto che rivesta e arricchisca la performance di elementi che tocchino da molto vicino chi vi parteciperà, come ha dichiarato ancora Georgiev a Warner:
“Instead of starting from the literary text and visually embellishing it, we start from an essential idea that germinates in the subconscious, tapping into the inner feelings and impulses that come from our environment. Then we begin to bring in phrases, words, and sounds. […] I ask myself – what prevents me from writing [this idea] in words; what is the shortest way of acting out my perceptions [of it] to the others? I devise a mimetic, imagined scenario of these perceptions. Then, I look for words.” (p. 126)
Questa riflessione sulla percezione e sull’impulso, la discussione che ne segue e, ultimi ma non ultimi, gli eventi che possono avere luogo nel corso della performance danno vita al teatro, prima ancora delle parole. E gli spettatori, che accorgendosi lo spettacolo prosegue grazie alle loro risposte agli stimoli degli attori (nel tempo è stata concessa loro una sempre maggior libertà di reagire), realizzano altresì che quella a cui hanno assistito è una performance di cui essi solo potranno essere testimoni. E in questo senso essa sarà indicibile, incomunicabile (una lezione, forse apocrifa, di Carmelo Bene?).
Se, dopotutto, il teatro non può assolutamente fare a meno di questa comunione fra attore e spettatore, anche Georgiev e Josifova, come Grotowski, riescono perfettamente nel loro intento di dare vita al teatro qui e ora. Un non-luogo (anzi, un luogo del non, secondo la definizione di Barba) che nasce con la performance e si conclude quando (e se) i suoi effetti sugli individui spariscono. È luogo del non, “un luogo mentale, un’officina dentro di noi. Ma non individuale, non privata: è la voce dell’altro nel tuo interno”, così Mirella Schino traduce, nella sua monografia, la definizione di Teatro Laboratorio di Barba. In questo senso, se ne capisce anche il valore intrinsecamente sociale (ciò che ha fatto del teatro, per tutta la sua storia, una potenziale minaccia) sia in senso artistico che in quello politico. Che ha autorizzato, ad esempio, la compagnia ad appoggiare le proteste studentesche che hanno interessato la capitale nel 2013, realizzando spettacoli per strada “to interact and perform with the demonstrators who marched to the nearby Parliament” nel tentativo di “encapsulate social energy, invigorate the thirst for self-expression, and even alleviate public antagonism and aggression by channeling peaceful artistic and political dialogues” (Warner, p. 129).
Bibliografia:
Armando Petrini, Amleto da Shakespeare a Laforgue per Carmelo Bene, Pisa, ETS, 2004.
Cesare Molinari, Storia del teatro, Roma-Bari, Laterza, 2008.
Jerzy Grotowski, Per un teatro povero, Roma, Bulzoni, 1970.
Mirella Schino, Teorici, registi e pedagoghi, in Storia del teatro moderno e contemporaneo. III. Avanguardie e utopie del teatro, diretta da Roberto Alonge, Guido Davico Bonino, Torino, Einaudi, 2000, pp. 5-97.
Ead., Alchimisti della scena. Teatri laboratorio del Novecento europeo, Roma–Bari, Laterza, 2009.
Vessela S. Warner, Theatre Laboratory Alma Mater. Jerzy Grotowski’s Legacy and the Heterogeneous Origin of Bulgarian Alternative Theatre, in Staging Postcommunism. Alternative Theatre in Eastern and Central Europe after 1989, edited by Vessela S. Warner, Diana Manole, Iowa City, University of Iowa Press, 2020, pp. 121–134.
Materiale audiovisivo
Il Teatr Laboratorium di Jerzy Grotowski, documentario, di Marianne Ahrne, Rai Radiotelevisione Italiana, Dipartimento Scuola–Educazione e Centro per la Sperimentazione e la Ricerca Teatrale di Pontedera, 1993.
Alma Alter, documentario, di Niyaz Saghari, prodotto da Paul Jenkins e Wales Arts International, 2014.
Sitografia:
https://www.theguardian.com/world/2013/nov/26/bulgaria–student–protest–corruption (ultima consultazione: 19/11/2021).
https://www.youtube.com/c/TheatreStudio (ultima consultazione: 19/11/2021).
Apparato iconografico:
Immagine 1 e Immagine di Copertina: Jerzy Grotowski
Immagine 2: Fotogramma tratta dal documentario Alma Alter.
Sul canale YouTube del Teatro Laboratorio Alma Alter è possibile prendere visione di alcune performance (alcune delle quali, a loro volta, sottotitolate in inglese).
Nelle trascrizioni di cui ci siamo occupati personalmente, la punteggiatura cerca di suggerire le pause e le incise nel discorso. La traduzione dall’inglese dell’estratto dell’intervista a Petja Josifova è nostra.
Le citazioni di Shakespeare sono tratte dall’edizione delle opere complete emendata da Jowett, Montgomery, Taylor, Wells (Oxford University Press, 1986, 2005). La citazione dal Gabbiano di Čechov è tratta dalla versione di Angelo Maria Ripellino (Torino, Einaudi, 1970).