“Sarebbe meglio se li abolissero, questi confini.
Servono solo a complicare la vita della gente.
Hai ragione. […] L’unica cosa positiva
del confine è che puoi attraversarlo.”
(Viaggio al termine dell’Europa, Kapka Kassabova)
La Redazione
Il Novecento europeo è stato protagonista di due guerre mondiali, di genocidi ed eccidi, della compresenza di sistemi totalitari, di rivoluzioni e controrivoluzioni, di carestie e crisi economiche. Sono stati tracciati e cancellati interi confini statali, rimodellati a più riprese i concetti di identità nazionali. Sono state bruciate le vecchie mappe geografiche, sostituite da altre nell’arco di poche generazioni. Un’intera sequela di ideologie, l’una più fratricida dell’altra, si sono succedute come in una grottesca parata. È stato, inoltre, il secolo delle migrazioni di massa.
All’interno del presente numero, si è deciso di analizzare le specificità e le voci di questo fiume transnazionale di esodati: la Mitteleuropa e l’Europa centrosudorientale sono state, infatti, teatro di uno dei più imponenti flussi migratori, diramato principalmente in direzione Europa Occidentale o Stati Uniti. Approfondendo l’analisi, si è cercato di comprendere come l’esperienza migratoria sia stata vissuta dal singolo, e di come questa stessa sia legata alla dimensione collettiva del fenomeno.
Approcciandosi a questi scrittori, il campo semantico che si profila dinanzi è quello della patria (natale e di adozione), la condizione di esilio e cosa significa essere uno scrittore-esule, il rapporto spesso traumatico con l’assimilazione e il confine. Andando a ritroso, il concetto di confine è soggetto ricorrente soprattutto nel campo della slavistica. Infatti, Jurij Lotman, ne La Semiosfera, e Michail Bachtin enunciano la dicotomia fra svoj/čužoj (proprio/altrui): quella che in ambito semiotico è la differenza fra l’interno e l’esterno di un sistema, nel sistema culturale slavo si concretizza in una duplice visione di ciò che è proprio e ciò che è estraneo, o percepito come tale. Dunque, il confine non è solo segno arbitrario e politico, ma linea che traccia una scissione profondamente identitaria e culturale tra un “noi” e “gli altri”, tra un “di qua” e un “di là”. Allontanandosi da una visione slavocentrica, si conviene che questa alterità trova ampio riscontro nei diversi scrittori presi ad esame, con modalità e declinazioni differenti.
Dalla Jugoslavia alla Germania, dall’Ungheria all’Unione Sovietica, l’emigrazione di questi scrittori ha spesso portato con sé l’irreversibilità di un movimento di andata senza ritorno. Vagabondi fra diverse lingue e diverse patrie, i romanzi e i versi presi in esame sono testimonianze di autori che non si sono adattati alle mistificazioni, alle menzogne che ripetute come un mantra hanno costruito la nuova verità politica e culturale. Cinici o nostalgici, disincantati e sardonici, speranzosi o dissacranti, questi diversi scrittori hanno instancabilmente messo a confronto i loro due mondi: quello che si sono lasciati alle spalle o non riconoscevano più, e la nuova terra d’arrivo.
Nell’ambito delle letterature dell’Ex Jugoslavia Dubravka Ugrešić e Aleksandr Hemon rappresentano l’ondata migratoria scaturita all’indomani dello scoppio delle guerre balcaniche, dovute alla rottura di equilibrio che già durante l’epoca titina dava segni di forte instabilità. I Balcani da cui fugge la famiglia kosovara di Pajtim Statovci sono situati nel medesimo contesto: una regione volta a eliminare il proprio carattere multietnico, dove la pluralità deve venir meno, per lasciare il posto alla supremazia. Marko Ristić appartiene invece a un contesto differente. Difatti, l’incontro di Ristić con l’alterità parigina ha come effetto la diffusione di una sensibilità artistica completamente nuova in Serbia, fondamentale per la formazione del movimento surrealista.
Quando, nel 1989, in Romania la rivolta popolare portò alla destituzione del dittatore Ceaușescu si aprirono le porte alla restaurazione della democrazia, al ritorno di un’economia di mercato e alla reintegrazione del paese nello spazio politico e culturale europeo. Tuttavia, tale processo di “Transizione” non fu semplice e portò all’inizio delle più recenti ondate migratorie del popolo romeno verso Occidente. Appartiene a questo contesto Mihai Mircea Butcovan, autore romeno emigrato nel Milanese.
Lo sviluppo della letteratura ceca è stato segnato dall’invasione del 1968 e, a fronte delle rigide imposizioni a ogni livello sociale, molti intellettuali lasciarono il paese. All’interno del numero vengono proposti tre casi che sono profondamenti diversi. Věra Linhartová è “uno spazio letterario di difficile accesso”, il cui vagabondare è dettato da un incostante istinto di nomadismo all’interno di un’Europa afflitta dagli anni della Guerra Fredda. Josef Škvorecký ha la particolarità di aver ricoperto un ruolo fondamentale sia sul piano letterario che su quello editoriale, fondando 68 Publisher, organo fondamentale per la diffusione delle opere cecoslovacche durante gli anni della Normalizzazione. La figura di Milan Kundera rappresenta quella di un autore che è riuscito, nonostante il carattere controverso, a portare a termine un percorso di assimilazione sul piano culturale e linguistico.
Il 1956 è l’anno della Rivoluzione in Ungheria e del successivo intervento delle truppe sovietiche, che stravolge le condizioni politicosociali del paese. Uno degli effetti immediatamente tangibili è l’emigrazione di massa che ne scaturisce, fenomeno in cui si inserisce e di cui racconta Kristóf Ágota, costruendo un discorso che poggia su due pilastri principali: da una parte la questione dell’assimilazione e dall’altra quella della lingua.
Il 1934 segna l’inizio in Unione Sovietica del realismo socialista e la fine di ogni libertà di espressione. Accanto alla nascita del dissenso prende forma un’ondata migratoria di massa, seconda solo a quella che succede la Rivoluzione d’Ottobre. Un ruolo fondamentale è svolto dagli intellettuali, che si vedono costretti a lasciare il paese: la fuga di Iosif Brodskij concretizzata nell’abbandono della sua Pietroburgo bizantina o la vicissitudini di Vasilij Aksënov, per il quale l’America smette di essere un paese idealizzato e diviene la sola isola di salvezza possibile. Il caso di Sergej Dovlatov è particolare nel momento in cui si va a considerare la sua forte eredità nel paese d’arrivo, simboleggiata dalla “Dovlatov Way” newyorkese.
La letteratura di lingua tedesca presenta una vasta cernita di autori costretti a emigrare a causa del Nazionalsocialismo. La vita di Elias Canetti può essere intesa come una perpetua migrazione, dove l’unico appiglio concreto in grado di garantire un equilibrio viene rappresentato dalla lingua tedesca. Klaus Mann decide di dar voce al suo esilio all’interno di un romanzo polifonico dal titolo Il vulcano. Ruth Klüger cerca di mostrare con il suo “weiter” il carattere liquido dell’emigrazione, oltre all’esigenza di rileggere ancora le modalità in cui il fenomeno viene esperito. Il caso di Emine Sevgi Özdamar è invece opposto ai precedenti, inserendosi nel fenomeno dell’immigrazione turca e costruendo un discorso in cui la lingua è legata a una dimensione corporea.
Per concludere, sebbene da un lato l’instabile condizione di esuli costituisca il filo rosso che accomuna il vissuto e la genesi letteraria di questi scrittori, dall’altro ciò che si evince è l’eterogeneità dell’esperienza dei singoli. Inoltre, un altro aspetto fondamentale è l’eccezionale varietà dei modi in cui può essere declinato il concetto stesso di emigrazione, pur rimanendo all’interno dello stesso spettro semantico: esilio, nomadismo, vagabondaggio. Il concetto di migrazione sembra quindi impossibilitato a piegarsi ad una definizione univoca, offrendo proprio nel suo aspetto dinamico una ricchezza incredibile di declinazioni.
In questa polifonia di testimonianze ad emergere è la costruzione di una memoria culturale comune basata sull’esperienza della migrazione, la creazione di un collettivo esistenziale che travalica i solidi confini dell’Europa del secolo scorso. Nel presente tentativo di ripercorrere il personale e poetico di ciascuno di questi autori, non è difficile intuire perché siano state formulate vere e proprie mitologie personali. Lo scrittore-esule, infatti, citando Vietato leggere di Dubravka Ugrešić, vive un duplice esilio, poiché è esule e allo stesso tempo commentatore della propria condizione; non vi si può sottrarre. Tuttavia, come viene illustrato nei singoli articoli, queste agiografie sull’esilio personale rivelano i traumi individuali e le speranze disattese dei suoi autori, sospesi tra il senso di marginalità e dislocamento. Perché, per citare nuovamente la grande scrittrice croata, scegliendo l’esilio, lo scrittore sceglie la solitudine.