Bianca Dal Bo
“L’uomo voleva sapere tutto di loro e perciò le ha osservate e seguite con areoplani perfetti, con solide imbarcazioni. È arrivato perfino a fissare sulle anguille un primordiale trasmettitore e a seguirle con delle imbarcazioni in giro per la superficie degli oceani. E nonostante questo non è riuscito a scoprire tutta la verità.” (p. 215)
Nel racconto Il grande vagabondo delle acque, Ota Pavel (1930-1973), attento pellegrino delle acque della vita, costruisce la sua silenziosa magia e non fissa definendo, ma tenta di ricreare una situazione, una nottata di pesca con il padre Leo e lo zio Prošek di Luh pod Branovem e, quando finalmente al loro amo abbocca un’anguilla di un chilo, la ingabbiano in una reticella bella robusta e la legano ad un ramo. A questo punto Ota si stende sull’erba e comincia a pensare con premuroso rispetto all’anguilla, “[…] vero e proprio pellegrino, e alla sua stirpe. Nella sua vita ci sono per ora più misteri che verità.” E, con la testa che ormai scoppia di parole, ne racconta a suo modo la storia, rispettandone il mistero, quasi fosse un mito. Come si orientano le anguille nella profondità delle acque? Intelligenti nuotatrici che discendono i fiumi per raggiungere il mare e incontrare i loro maschi e figliare e poi morire. Vagabonde delle acque salmastre che, ostacolate dalle dighe e dalle chiuse innalzate dall’uomo, tentano di liberarsi con la speranza di rivedere un giorno il Mar dei Sargassi, le acque in cui migrano per riprodursi. Ota Pavel pensa alle anguille, le contempla con parole amorevoli, le bacia senza fissar loro sulla pelle un trasmettitore primordiale per seguirle sulla superficie e definirne strettamente lo spostamento, non ne vuole sapere ogni singola rotta, ma ne rispetta il misterioso spazio, si affaccia alle loro migrazioni con cautela e fantasia. E, infatti, a fine racconto l’anguilla riesce a liberarsi disbrogliando la maglia rotta nella rete della sua trappola e scivolandone fuori, o meglio, tornando dentro alla sua cara acqua.
“Faceva venire in mente una sconfitta e una bandiera a mezz’asta. L’anguilla aveva ingrandito con la bocca una maglia della rete, poi doveva aver tirato indietro la pancia e ne era scivolata fuori. Era caduta dall’albero e attraversando l’erba bagnata era ritornata nell’acqua. Ero stato contento di vedere che papà non imprecava, e che diceva soltanto: ‘Ha tagliato la corda’.” (p. 218)
Con questo ritmo sereno e velato di dolci sconfitte si succedono uno dopo l’altro i racconti di Ota Pavel come un asintoto che si gode il tranquillo tentativo verso una meta mai raggiunta: le carpe che dovrebbero popolare il laghetto e portare alla famiglia un patrimonio sono in realtà una sola, le undici anguille pescate da Ota vengono sprecate salandole troppo, il padre Leo tra gloria e miseria finisce per perdere ogni volta qualsiasi presunta possibilità di successo, ma mai la speranza, come quando, nel sopracitato racconto, l’anguilla di un chilo e mezzo fugge dalla rete e lui aggiunge: “‘Ma è stata una nottata magnifica’. Era proprio così. Uno passa una bella nottata e non è detto che debba per forza prendere qualcosa. Stavo vicino all’ontano e continuavo a guardare come affascinato la reticella vuota […]” (p. 218)
Ota Pavel nasce a Praga nel 1930 e, deviando dal percorso di rappresentante di commercio del padre Leo, personaggio fondamentale nella vita e nelle memorie dello scrittore, viene iniziato dall’amico Arnošt Lustig a una carriera radiofonica in ambito sportivo, lavorando anche nella redazione della rivista “Československý voják” (“Il soldato cecoslovacco”), curando le biografie di alcuni atleti, accompagnando varie squadre in tournée. Inizialmente la sua attività di scrittore è rivolta solamente al lavoro e al mondo dello sport ad esso collegato, mentre la sua grande passione, ripresa poi in ogni suo singolo futuro racconto, è la pesca. L’apparente gioia data dalla sua voglia di vivere, dalla vita che, inizialmente a Praga, passa a stanziarsi nel paesino di Buštěhrad e, soprattutto, dall’andare a pesca e dallo stare pacificamente in attesa, viene lentamente sfumata dalle disgrazie del padre, dai problemi economici in famiglia, dall’arrivo dei nazisti e la deportazione del padre e dei due fratelli in campo di concentramento, il passaggio al comunismo, una malattia improvvisa che sopraggiunge alle Olimpiadi di Innsbruck. Non tutto è così facile e felice come appare a primo impatto. In Ota Pavel c’è sempre, però, un’aggiunta vitale alla normale vita di un semplice cittadino di Buštěhrad. E quest’aggiunta è il come. Se il come viversi una bella libera nottata tra le cose grandi e superflue delle società è la pesca, il come non perire tra le ossessioni di una brutta malattia è la scrittura.
“Sono impazzito alle Olimpiadi invernali di Innsbruck. Mi si è offuscato il cervello come se fosse scesa la nebbia dalle Alpi. Ho incontrato un signore e per me quello era il diavolo in tutto e per tutto, aveva gli zoccoli, i peli e le corna e denti marci vecchi di secoli. Poi sono andato ad appiccare il fuoco a una casa di contadini sulle montagne sopra Innsbruck. Volevo che si accendesse una grande luce e che scacciasse via la nebbia.” (p. 203)
Inaspettato come un furbo aspio che abbocca di notte spuntando dall’acqua, l’epilogo di Jak jsem potkal ryby (“Come ho incontrato i pesci”, 1974), si intrufola nella trama come uno squarcio nella rete, un capitolo di aggiunta al magico discorso. “Sono impazzito alle Olimpiadi invernali di Innsbruck”, e la realtà, in questo immenso teatro del naturale che ritorna sempre allo stesso modo, sorprende il lettore come acqua fresca sulla pelle del volto. Inaspettato come la malattia che lo intrappola ai trent’anni, una deviazione dal normale modo di pensare dell’enorme cella dell’antisemitismo, dell’enorme cella del comunismo: il disturbo bipolare diagnosticatogli nel 1964 potrebbe essere l’inizio della fine, di una caduta in una superficiale terra di stanze chiuse, finestre ancora sbarrate, camere d’ospedali… Ma è l’inizio di un altro come, un modo diverso ma in parte conosciuto dal pescatore di serenità. Scrittura, si chiama, la nuova maglia rotta nella rete, e la sua canna da pesca diventa una penna e i suoi pesci i ricordi e la loro acqua parole. Il cervello si offusca (o cerca di vivere davvero?) e non capisce: dove si trova la libertà? A questa domanda Ota Pavel risponde mettendosi a pescare con la penna tra i suoi fogli del passato, pesca i suoi ricordi che stanno in frontiere colorate di sereno amore per le cose semplici ma importanti. Così i racconti di Smrt krásných srnců (“La morte dei caprioli belli”, 1971), o Jak jsem potkal ryby sono uno strumento che va a fondo, tra i fondali della mente liquida di Pavel e viaggia nei fiumi dei ricordi per trovare questo posto più libero. Disegnando su carta le situazioni passate quasi fossero cerchi sull’acqua che si allargano piano e continuano a crearsi nel loro lento scomparire, Ota Pavel, lucido e consapevole del suo gesto, va per altri cammini e segue il suo modo di essere libero, anche nella malattia volge la testa all’indietro, come quando pescava le anguille d’oro:
“E poi all’improvviso mi era sembrato che il mondo stesse girando. Avevo piegato indietro la testa e avevo guardato il cielo. Pareva che volesse scoppiare e spaccarsi. Si era fatto scuro, la roccia rossiccia sopra di me si era inclinata. Alla vecchia chiesa di San Lorenzo, a Nezabudice, la campana aveva suonato il mezzogiorno. Din! Don! Erano le dodici. Din! Don! Lo spettacolo fuori era pronto. Il cielo si era squarciato e ne era uscito fuori il buio. Mi era passato per la testa: Arrivano i santi! Ignoti tiratori celesti lanciavano fulmini nei boschi e nel fiume”. (p. 188)
Questo momento lo aveva aspettato da anni. Piega la testa all’indietro e guarda il cielo, il mondo gira e la magia parte, le anguille arrivano e corron via con l’esca come fossero branchi di antilopi. Ma la fine del mondo non arriva, alla pace definitiva non si giunge, mai, pur pazienti, pur nella lunga attesa che anche solo un pesce abbocchi, finalmente, se la fine arriva può coincidere solo con un temporale che non dura, uno squarcio del cielo che si riempie di nuovo di nuvole. E, dal racconto Le anguille d’oro, le undici anguille, che questa volta Ota riesce orgogliosamente a pescare, spariscono perché nulla è eterno, la bellezza, la gioia, il dolore, il temporale, le anguille, tutto sparito.
Ota Pavel siede a cavalcioni sulle finestre del museo a lui dedicato a Buštěhrad, passeggia nel tiepido solicello del paesino, sta curvo in attesa al lato dei suoi laghetti, vive nel sereno diletto di “quelli del posto”, nelle pagine fluenti dei sui racconti di velata tristezza, gioia che passa e tanta ironia, ed io, lettore, pesce che segue quell’amo, e si innamora del proprio movimento, mi chiedo: voglio anche io essere “uno del posto”? Quel posto che non si sa spiegare in modo preciso, che non si sa ingabbiare, ma che è come il mare, la piazza più grande del mondo, la cui vita sta sotto il pelo dell’acqua, nel fondale. Il fiume, la carta, la scrittura, la pesca, sono la finestra senza sbarre di un ospedale, la vita lontana dal correre del tram, la mente che scorre per conto e tempo proprio, la vita libera contro le contraddizioni confinanti del nazismo, del comunismo, delle stanze di un manicomio che i giorni li consumano senza gustare la loro carne saporita seduti su una sponda, a metà tra sogno e realtà. “E poi mi era passato allora per la testa che la cosa brutta in fondo non è quando un uomo uccide un pesce. Ma è orribile quando non lo consuma. […] Quella era stata quindi la tomba delle mie anguille d’oro. Una tomba così inutile come lo sono a volte non solo quelle dei pesci e degli uccelli, ma anche quelle degli esseri umani”. (p. 193) Questa volta, pazzo che sono, abbocco e mi gusto quest’esca buona, accetto il patto di uno scrittore che gioca con le sue regole umane, entrando e uscendo con grande umiltà, che dentro la trasparenza dell’acqua mi fa l’occhiolino e crea l’occasione di farmi toccare con mano un atto che libera sulla frontiera liquida di un fiume, di un libro.
Ota Pavel si ferma contro lo stressante tram della civiltà. Il suo movimento, il suo desiderio segreto che, come riporta Mariusz Szczygieł nella Postfazione da lui redatta a conclusione di Smrt krásných srnců, è lo scrivere della vita normale, consiste nel fermarsi a contemplare, un asintotico piegarsi. Il pescatore, lo scrittore, seduto su una seggiola sulla frontiera dello scorrere di un fiume, che sia di carta o di acqua, si piega verso uno spazio più profondo ad attendere con attenzione, rivolgendo l’animo al suo mondo plissettato, in altro modo. Come (e non cosa, non quanto)? Non in treno, non correndo, ma gustando intensamente questo muoversi restando in un malato e libero limes che mai è confine. C’è sempre qualche pesce, qualche parola, qualche bellezza, qualche gioia in più da aggiungere, anche se considerati malati e rinchiusi dietro le sbarre. Non si capisce, non si sa tutto e non si vuole spiegare con precisione cosa è stata la scrittura, cosa la pesca o cosa la malattia di Ota Pavel, ma come con i fiumi, ci si può solo gettare un paziente sguardo dentro e rimanere sorpresi in limine, nello squarcio di una maglia rotta, o di una ragnatela spezzata, da come si non si perisce ma si muore umilmente, da come si incontrano i pesci.
Bibliografia:
Pavel Ota, Come ho incontrato i pesci, Rovereto, Keller editore, 2017.
Pavel Ota, La morte dei caprioli belli, Rovereto, Keller editore, 2013.
Sitografia:
Come ho incontrato i pesci, di Ota Pavel (miracubi.it)
Golden Eels and Long Ordeals: The life and times of Ota Pavel | Radio Prague International
Ota Pavel, rompere il ghiaccio in Boemia – PoloniCult
Apparato iconografico:
Immagine 1 e 2: Photos de Ota Pavel – Babelio.com