Alice Greco
Nel dicembre 1931 Frankenstein di James Whale debutta nei cinema prima americani e poi mondiali. Il 1931 in America è anche l’anno di un’ennesima epidemia di polio ed è inoltre da poco scoppiata la Grande Depressione: il clima è così pesante che subito all’inizio del film verrà posto un avvertimento al pubblico per le forti tematiche e immagini presenti al suo interno, ma nonostante i timori e le censure subite in vari paesi essa sarà una pellicola destinata a fare la storia, nonché ad essere il film con più incassi di quell’anno. Probabilmente per gli stessi timori, nell’allora Cecoslovacchia ne fu vietata la proiezione – d’altronde cinema e teatro sono per eccellenza i luoghi in cui l’immagine si muove e viene esaltata dai primi effetti speciali, e in un contesto che vede l’inizio di una crisi economica brutale e di un‘epidemia di poliomielite, Frankenstein in particolare, insieme ad altri film horror dell’epoca, con i suoi immaginari di cadaveri, paralisi e nuova vita infusa artificialmente, si comporta da crogiolo esplosivo di ansie e paure collettive.
Dopo il crollo dell’Impero austro-ungarico, nel periodo tra le due guerre mondiali, la Cecoslovacchia si assestò come uno dei paesi centroeuropei più stabili economicamente, ma ciò non volle dire che la Grande Depressione non ebbe le sue conseguenze, in un clima che prometteva guerra e incertezza. Questa crisi si riflesse nel mondo dell’arte – significò per i teatri e tutti i settori “non essenziali” un drastico calo di partecipazione e un cambio di volto di tutta la produzione artistica, che naturalmente volle concentrarsi su opere che aiutassero ad interpretare il presente storico e a provare a disegnare una traiettoria del futuro. Forse è per questo che in piena crisi Frankenstein risulta un tale successo, ma anche un’opera largamente controversa e criticata – e forse è per questo che lo stesso succede per Čapek con R. U. R. prima e, forse in minor misura, con Bílá nemoc poi. I giudizi negativi riguardo quest’ultima opera provennero infatti dalle più diverse aree, a partire dalla critica letteraria stessa fino a medici che lo accusano di ignoranza e pregiudizio e politici scettici sulle tendenze ideologiche dell’opera.
Nella seconda metà del 1936 Čapek mette in scena per la prima volta Bílá nemoc (“La malattia bianca”), allo Stavovské divadlo, il Teatro degli Stati di Praga. Si tratta di un’opera che vede come contesto quello di una pandemia che va avanti ormai da anni senza apparente speranza di rallentamento. Le primissime scene introducono uno dei personaggi principali, il dottor Sigelius, direttore della prestigiosa clinica Lilienthal, in una prima sbrigativa intervista con un giornalista. Qui viene spiegato che la “malattia bianca” in questione – anche chiamata morbo di Cheng, data la sua provenienza cinese – colpisce gli adulti sopra i quarant’anni d’età e si manifesta inizialmente tramite una piccola macchia bianca insensibile al tatto. Chiunque la contragga è destinato a morire entro quattro o cinque mesi, poiché tranne alcuni trattamenti palliativi non esiste alcuna cura.
Il primo elemento che salta all’occhio dell’approccio del dottor Sigelius riguarda appunto questi palliativi: il dottore spiega che ai pazienti che ne soffrono, “[il dottore] prescriverà loro degli unguenti: ai più poveri il permanganato e ai più abbienti il balsamo del Perù”, in maniera che venga coperto l’odore sgradevole che ne consegue, poiché, dirà più in là, “alla fin fine siamo qui per alleviare le sofferenze – almeno ai clienti paganti”. Questa puntualizzazione è fondamentale per capire il suo personaggio: Sigelius pratica la medicina come un affare economico, come se lui fosse il dirigente di un’azienda e i malati clienti da trattare secondo una gerarchia basata sul moc, il potere. Questo è da intendere come ciò che il malato-cliente può – la possibilità di permettersi una cura, possibilità di fargli avere un ritorno economico e anche di fama per la propria clinica. La malattia stessa viene descritta come una malomocenství, termine che viene normalmente tradotto come “lebbra”, ma che alla luce della prefazione che lo stesso autore include all’opera va letta come malomoc, una “paucipotenza” (malo significa “poco”). È infatti da escludere che la malattia si rifaccia ad un male reale, sebbene il contesto storico e la scelta del lessico potrebbero indicare altrimenti – Čapek, non nuovo a fraintendimenti della sua opera, avrà cura di specificarlo in una prefazione, il quale contenuto potrebbe riassumersi – anche se ciò non è poi del tutto vero – in un “ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale”.
Sigelius consiglia quindi ai malati più poveri il permanganato di sodio, un elemento che è stato in tempi recenti soggetto a restrizioni a livello europeo: in Italia viene oggi venduto solo come farmaco galenico, ovvero preparato in appositi laboratori da un farmacista specializzato. Ciò è dovuto al suo basso costo, alla sua lieve potenzialità di creare irritazione e al fatto che esso sia un precursore, ovvero un elemento chiave nella sintesi di eroina e cocaina. Il balsamo del Perù, consigliato ai più benestanti, è invece un prodotto molto costoso: originario di El Salvador, viene prodotto nella Cordigliera del Balsamo, esportato in Europa principalmente da Germania, Inghilterra e Francia e qui processato per diventare un unguento piacevolmente profumato. Sigelius, molto fiero dell’aver avuto il primo caso europeo della malattia bianca nella sua clinica e di aver dato il proprio nome ad uno dei sintomi, rappresenta l’autorità: le sue connessioni si spingono ai massimi vertici statali ed economici. Egli ammira profondamente Maršál, il capo di stato autoritario del paese – nella trasposizione cinematografica del 1937 diretta e interpretata da Bruno Haas, al muro dello studio privato del medico è appesa una sua grandissima fotografia. La si vede quando il secondo protagonista della pièce si reca alla clinica del dottore.
Si tratta di Galén, un medico che lavora nei quartieri più poveri della città e che è riuscito a trovare un vaccino per la temuta malattia bianca. Immediatamente il suo nome riporta al famoso medico greco – e proprio come lui anche il Galén della storia è originario di Pergamo – ponendo il suo personaggio in antitesi a Sigelius: quest’ultimo è il capo di una clinica ed è legato in maniera convinta ad un regime autoritario, Galén invece rappresenta la medicina dei primordi, libera da ideologie moderne e da interessi che non siano quelli del giuramento di Ippocrate. Mentre Maršál fomenta una guerra, appoggiato da Sigelius e dal barone dell’industria bellica Krüg, Galén è uno strenuo sostenitore della pace:
“la cura per la malattia di Cheng, si tratta della mia cura, capite? E io non la darò finché… finché non si giurerà di non uccidere più! […] Come medico… devo essere contro armi e iprite, no? […] È proprio questo il compito del medico, eliminare la guerra! […] che abbandonino la violenza della guerra, e io darò loro la cura per la malattia bianca, no?”
La pratica medica di Sigelius è basata sulla rigidità scientifica che come principio supera gli ideali di Galén – lui si proclama il medico dei poveri, ha fiducia nei risultati della propria accurata ricerca e la vincola ad una morale pacifista; Sigelius ha un atteggiamento rigoroso e scettico delle speranze di Galén, il quale si aggiudica il suo rispetto solo quando viene associato a figure di autorità – al dottor Lilienthal, fondatore della clinica e suocero di Sigelius, di cui Galén fu assistente – e solo per poi riprenderlo per il suo sentimentalismo. Galén, con la benedizione di Lilienthal, può operare sui clienti più poveri della clinica e distribuire la cura al male che affligge il mondo, a patto che i leader mondiali cessino tutte le guerre in atto e in potenza. A questo punto sarebbe semplice relegare Sigelius al lato dei “cattivi” e Galén al lato dei “buoni”, giungendo alla conclusione che queste due figure apparentemente antitetiche siano i rappresentanti di una scienza corrotta che ha perso di vista il suo compito e di una scienza invece pura e fedele alla propria chiamata. È però più interessante la prospettiva che vede i due in senso più complesso, e non semplici burattini di due ideologie monolitiche e fedeli a se stesse.
Sulla complessità della realtà, specialmente in tempi di guerra, è pregnante la riflessione di Thomas Mann: il Mann del saggio del 1918 Considerazioni di un impolitico, entusiasta della partecipazione della Germania nel primo conflitto mondiale, maturerà un senso di delusione per i risvolti culturali di guerra e crisi economica, e a partire dal 1933, anno del suo esilio, il suo ritorno in patria si farà molto attendere e la questione delle colpe e delle responsabilità, semplificato dall’opinione pubblica in un accentramento di entrambe alla società nazista convinta, sarà fondamentale per capire che non esiste un ambito umano che non sia toccato dalla contraddizione. Ciò non significa impossibilità di movimento, ma anzi è una messa in discussione che costringe a cercare una terza via tra la manifesta bramosia di denaro di Sigelius e con l’ultimatum idealistico di Galén, che alla fine della storia verrà travolto dalla folla rabbiosa mentre si reca a curare il despota Maršál, contagiatosi nel suo cieco sforzo di dimostrarsi superiore alla debolezza e alla malattia. Maršál è infatti colui che più di tutti sembra rimanere fedele e coerente ad una visione che ignora il rischio della malattia – a tal punto da avere contatti con l’amico e barone Krüg pur sapendo egli sia infetto – e che spinge verso la necessità della guerra come risoluzione del malcontento sociale.
La scelta dell’ambito scientifico e medico è in questo senso azzeccata – che esso si intrecci spesso con dubbi morali lo conferma anche la sola esistenza del campo della bioetica, ma anche il semplice concetto di ricerca scientifica presuppone che la scienza non possa essere un dogma o un campo libero dall’errore – la questione finale rimane sempre la distribuzione di colpe e responsabilità nel momento in cui essa si applica ai corpi. Mettere in dubbio ambiti ritenuti portatori di verità più o meno indiscutibili, come già detto, fece guadagnare aspre critiche all’opera di Čapek, anche considerato che la Cecoslovacchia non era e non sarà un contesto oscurantista in campo scientifico: fu il primo paese a produrre industrialmente il vaccino per la polio del medico Albert Sabin negli anni ’60 del secolo scorso e anche il primo paese nel mondo a sradicare il virus scientificamente. È noto, inoltre, il fatto che Sabin non avesse brevettato il vaccino di proposito, in modo da garantirne la diffusione su larga scala. Ciò non toglie che gli anni che portano a tali traguardi furono costellati da grandissima sofferenza, guerra e assoggettamento politico e ideologico, che difficilmente non lasciano una traccia culturale.
E se ciò è palese osservando Sigelius, che rispetta diligentemente i suoi doveri da medico pur con la sua impostazione quasi imprenditoriale, lo è forse di meno con Galén, che per una ragione più che nobile di fatto intralcia la risoluzione della pandemia, perché vuole dedicarsi esclusivamente alla cura dei pazienti più poveri finché le sue richieste non verranno rispettate.
Nel finale, la folla inneggia con entusiasmo al sovrano che sta per morire, Galén e la sua cura vengono calpestati senza pietà mentre si chiama a gran voce la guerra. L’invito di Bílá nemoc, oltre la denuncia alla pericolosità della guerra, è quello a notare che dopotutto Sigelius e Galén operano all’interno della stessa società, e in quanto tali ne vengono influenzati: se le panchine sono piene di gente che sta male non è solo per la malattia in sé. Essa esacerba tensioni, palesa contraddizioni e dislivelli, le perpetra anche – aiuta a vedere campi tradizionalmente considerati “oggettivi” come ambiti tanto ricchi di zone grigie e ideologie quanto qualsiasi altro. Costringe a rimodulare la distanza tra Sigelius e Galén, e a considerare che forse calcolarne una non sia necessariamente il punto.
Bibliografia:
Alessandro Catalano, Karel Čapek e i robot: cronaca di un tradimento annunciato, in: Karel Čapek, R. U. R. Rossum’s Universal Robots (trad. Alessandro Catalano), Venezia, Marsilio, 2015, pp. 9-42.
Karel Čapek, Bílá nemoc (1937), Praha, Československý spisovatel, 1994 (edizione open access digitalizzata dalla Městská knihovna di Praga) (la traduzione di brani tratti da questo testo sono stati fatti per l’occasione da me A. G.).
Karel Čapek, Renata Flint, Robert M. Philmus, Preface to “Bílá Nemoc”, in “Science Fiction Studies”, Vol. 28, No. 1, 2001, pp. 1-6.
Pavla Zdařilová, Inscenace Čapkovy Bílé nemoci v Národním divadle Praha (tesi di laurea, Masarykova Univerzita), Brno, 2016.
Svetlana Efimova, Vakcína a spravedlnost s Karlem Čapkem: Paralely Bílé nemoci a koronaviru si všimli i na mnichovské univerzitě (trad. Danuše Siering), “N&N Czech-German magazine”, 2021, https://www.nnmagazine.cz/clanek/vakcina-a-spravedlnost-s-karlem-capkem-paralely-bile-nemoci-a-koronaviru-si-vsimli-i-na-mnichovske-univerzite/ (ultimo accesso: 18/05/2021).
Zora P. Pryor, Czechoslovak Fiscal Policies in the Great Depression, in “The Economic History Review”, Vol. 32, No. 2, 1979, pp. 228-240.
Apparato iconografico:
Immagine 1: http://www.tresbohemes.com/2021/06/the-white-disease-aka-bila-nemoc/ Didascalia: Il dottor Sigelius (destra) che stringe la mano a Maršál (destra) in una scena del film Bílá nemoc (1937)
Immagine 2: https://dafilms.cz/film/12600-bila-nemoc Didascalia: Galén calpestato dalla folla nel finale del film Bílá nemoc (1937)