Cristiano Schirano
“Fuori dalla portata
della nostra presenza.
Nel paradiso perduto
della probabilità.
Altrove.
Altrove.
Come risuona questa parolina.”
(Szymborska, La stazione)
“solo l’inessenziale come una mucca si trascina
l’essenziale è così rapido che accade all’improvviso
poi il silenzio normale perciò insopportabile”
(Twardowski, Affrettiamoci)
Tutti gli uomini, per natura, temono l’irrazionale, l’imprevedibile e l’inconscio. Modellata sulla più celebre apertura della Metafisica aristotelica, questa proposizione potrebbe di fatto assomigliare alla conclusione di un sillogismo. Verrebbe da chiedersi quali possano essere le premesse per una simile conclusione, e se vi si possa fare davvero affidamento. La vita, il caso, il destino ‒ qualunque cosa questi tre significanti designino ‒ pongono in dubbio tanto le premesse quanto, di conseguenza, la validità della conclusione. Quali certezze abbiamo, allora? Da questi, e simili altri, interrogativi è nata tanta parte della riflessione alla base della cinematografia di Krzysztof Kieślowski, cineasta e sceneggiatore polacco, ritenuto fra i più grandi geni della storia del cinema.
Puntando sull’intreccio di casualità e di coincidenze nella vita dei protagonisti delle sue pellicole, Kieślowski ha spesso cercato di tradurre in immagini la necessità per l’essere umano di spingersi oltre i propri limiti, di infrangerli, spesso fino a farsi travolgere dalle conseguenze imposte da un ordine preciso, che non sta all’uomo sovvertire. Questa, infatti, sembrerebbe contraddire l’avvertimento contenuto nel Libro del Siracide (“Non cercare cose troppo difficili per te | e non scrutare cose troppo grandi per te”, 3, 21). E il massimo dei limiti imposti alla vita dell’uomo, il principe degli enigmi del suo quotidiano è la morte; la quale, pur essendo una condizione umana, un transito obbligato, resta di fatto un mistero finché non ne siamo vittime in prima persona. Fino ad allora, alle innocenti domande di un bambino curioso che si affaccia alla vita su un argomento così delicato, si risponderà in maniera calcolata e sicura, come accade nel dialogo centrale del primo mediometraggio della serie Dekalog (1988):
Paweł: Perché la gente muore?
Krzysztof: Per diverse ragioni. D’infarto, di cancro, di incidenti, perché si è vecchi…
Paweł: No, ma io dico… Che cos’è la morte?
Krzysztof: La morte? Il cuore smette di pompare sangue. Niente sangue al cervello. E così, tutto si blocca. È andata. Fine.
Poiché è insolito che un bambino della sua età, pur così precoce, si interessi di cose simili, Krzysztof risponde al figlio in modo sfuggente. Ma quando si scontra con l’insistenza del piccolo Paweł, che gli pone altre domande sull’anima, egli si sforza di capire cosa possa esserci all’origine di quell’interesse così singolare. La risposta, fra le lacrime, non si fa attendere:
Paweł: Ero così contento, stamattina, quando ho fatto quei calcoli… quando il piccione ha mangiato le briciole… Poi, andando al negozio, ho visto un cane lupo morto. Mentre m’inginocchiavo, mi è venuto un pensiero: perché questo? Che m’importa sapere quanti minuti ci mette la signorina Piggy a raggiungere Kermit? A che cosa serve?
Domande forse inconsuete per un bambino così piccolo; e per un padre, riconosciuto come autorità intellettuale, cui vengono posti quesiti che vanno al di là dell’esperienza sensibile, tangibile, attorno alla quale Krzysztof cerca di far ruotare tutta la propria esistenza.
Di fronte all’elaborazione di un lutto, infatti, tutto viene messo in discussione: è un momento necessario in cui si considera superflua la propria stessa esistenza, crudele il dover sopravvivere a qualcuno, in cui l’individuo vorrebbe annullare ogni emozione, desiderio, pulsione. Così è per Paweł, e così è per Julie, la protagonista di Trois Couleurs : Bleu (1993). In una scena-chiave della pellicola, che vede la personaggia interpretata da Juliette Binoche far visita all’anziana madre, ospite di una maison de retraite, il confronto fra le due ‒ pur apparendo un dialogo ordinario, tipico di quando si ha a che fare con chi soffre di amnesie o di malattie che portano alla perdita della memoria ‒ assume, nel contesto (e senza che le stesse personagge se ne rendano conto), una valenza simbolica del dramma che si è consumato nella vita di Julie in seguito all’incidente in cui hanno perso la vita suo marito e sua figlia.
Madre: Marie-France?
Julie: Sono io. Sono Julie.
Madre: Ah, Julie! Avvicinati! Mi avevano detto che eri morta… Hai un bell’aspetto! Sei giovane. Giovane, giovane… Sei sempre stata la più giovane, ma ora dimostri trent’anni. Quando eravamo piccole…
Julie: Non sono tua sorella, mamma! Sono tua figlia. Ho trentatré anni.
Madre: Lo so, lo so… Scherzo…
La seconda battuta della madre, nello scambio, inizia con fortuita ambiguità. Spettatrici e spettatori non riescono a intendere fino a che punto ella mantenga la propria lucidità, e quando, invece, la perde nuovamente. Se è vero, infatti, che lo stupore della madre di trovarsi nuovamente di fronte a sua sorella, Marie-France, è sincero e plausibile in quanto quest’ultima è morta, è pur vero che una simile affermazione paradossalmente poteva dirsi di Julie. La madre poteva averla effettivamente creduta morta, sulla base di una falsa informazione da parte del personale della maison. E se quella dell’incidente può dirsi, di fatto, un’esperienza di pre-morte, va detto anche che l’innocente affermazione della madre rivela molto dell’attuale condizione e identità di Julie. Come sostiene Emma Wilson, “[t]he fact that Julie looks fine, that she is in fact surviving, may itself surprise the viewer as much as Julie’s mother. Her mother seems to recognize, unthinkingly, Julie’s status here as revenant” (p. 39). E Julie trova nei disturbi di memoria della madre l’impulso per confessare, a sé stessa prima e a sua madre poi, la sua condizione.
Julie: Prima, sai?, ero felice. Io li amavo e loro mi amavano. Mamma, mi ascolti?
Madre: Ti ascolto, Marie-France.
Julie: Adesso so che farò una sola cosa. Niente. Non voglio più né proprietà né ricordi, amici, amore o legami. Sono tutte trappole.
Senza avere la certezza che la donna abbia pienamente compreso le parole della figlia, il monito che segue a queste parole, “Non si può rinunciare a tutto”, è un momento che tanto Julie quanto spettatrici e spettatori desiderano sia di improvvisa benché passeggera lucidità. Cos’è, ora, il tutto di Julie? Un sorriso beffardo da riservare a un uomo che le dichiara la sincerità dei suoi sentimenti verso di lei mentre immerge una minuscola zolletta di zucchero nel caffè; i pochi ed estemporanei rapporti che intrattiene con chi, come lei, è un sopravvissuto. Può definirsi davvero un tutto? O è piuttosto paragonabile all’immagine con cui il regista ci mostra la sua protagonista durante il dialogo con la madre, in cui la metà superiore, dalla fronte di Julie in su, è come offuscata? Quindi privazione?
L’idea della trappola tormenta anche Krzysztof quando si troverà ad affrontare il proprio dramma. Un cumulo di fogli macchiati da un lago d’inchiostro blu sono il primo di una serie di segnali della tragedia consumatasi. Il piccolo Paweł, che dopo i calcoli e i controlli minuti e rigorosi del padre si era recato sul lago ghiacciato a provare i nuovi pattini da questi regalatigli, muore nelle acque gelate in seguito al cedimento del ghiaccio. Nella sceneggiatura viene esplicitata la ragione per cui il ghiaccio abbia ceduto e i calcoli di Krzysztof fossero inesatti, ma nel cinema ciò che non è tradotto in fotografia muore, diventa irrilevante. Del resto, quand’anche la ragione fosse stata resa nota nella pellicola, la mente di Krzysztof è come paralizzata, mentre egli fissa con sguardo assente il vuoto, lo schermo di un computer su cui compare la scritta I am ready. Dove prima non c’era spazio per il dubbio, ora si fanno largo quesiti simili a quelli che il figlio gli aveva posto pochi giorni prima: perché questo? Secondo Žižek, proprio Dekalog, jeden:
“sets the basic matrix of the entire series: the intrusion of the meaningless Real which shatters any complacent immersion in sociosymbolic reality and thereby gives rise to the desperate question: ‘Che vuoi?’ – what do you really want from me? Why did it happen?” (p. 123)
C’è una entità, una forza che agisce in maniera così vile, prendendosi gioco degli uomini? Al principio di questa riflessione, la vita, il caso e il destino sono stati menzionati come semplici significanti, perché, mai come con Kieślowski, è opportuno scardinarli dai significati ‒ spesso metafisici o divini ‒ nei quali siamo soliti inquadrarli. Nell’indagine dell’inconscio, come precisa Gabriella Ripa di Meana, il destino è:
“la nostra divisione di soggetti, il dolore di esistere, perché non siamo mai interi negli atti che compiamo. Il destino è quel défilé di segni, di discorsi e di parole tessuti intorno e attraverso le nostre esistenze segretamente, incessantemente, imperiosamente mentre diamo immagine, forma e linguaggio ai desideri e alla vita. Il destino è ciò che non possiamo padroneggiare, solo però dopo aver tentato, e aver tentato invano, di padroneggiarlo.” (p. 46)
Anche quando ci si arrende agli effetti del suo ingresso nelle nostre vite, nel destino “resta sempre qualcosa che non solo non è comprensibile razionalmente, ma non è mai assimilato o accettato fino in fondo dai personaggi”, come osserva Chiara Simonigh (p. 129). La confusione, l’impotenza che s’impossessa dei sopravvissuti, causata dal trauma, genera l’incapacità a reagire e dominare la propria vita. Non rispondendo a questi eventi come farebbe chiunque, con comportamenti comuni, standardizzati, si destabilizza l’equilibrio di chi ci circonda (per cui la domestica si trova costretta a piangere perché Julie non lo fa, così come Irena e le persone accorse al lago piangono e si inginocchiano al posto di Krzysztof quando il cadavere di Paweł viene riportato in superficie). E se un simile dolore è difficilmente esprimibile nella sua interezza ‒ il che è rappresentato, nelle pellicole, dal sapiente uso della fotografia, fatta di chiaroscuri nella sequenza finale di Krzysztof davanti al computer (in Dekalog, jeden) e di inquadrature di dettagli sul volto di Julie mentre guarda le immagini del funerale (in Trois Couleurs : Bleu), come ha suggerito Emma Wilson (p. 50) ‒, tanto più l’individuo fatica a rispondere ai dettami comuni, abituali.
Si consuma lo scontro tra nous e ananke, le due forze più potenti del cosmo secondo Platone: la ragione non si arrende al dominio della necessità. La parola ananke (già scolpita, in terra francese, nella scrittura e nell’architettura dalla mano di Victor Hugo) deriva da un’antica radice semitica che indicava il giogo dei buoi o il collare degli schiavi: una morsa, insomma, dalla quale sperare di liberarsi si rivelerà vano, secondo Simonigh. (p. 130) La necessità stessa è, per dirla con Julie, una trappola.
Quale modo per mettersi al riparo dalla tempesta? La risposta offerta dalle ultime sequenze delle pellicole sarebbe l’amore. Ma quale? Il conforto di quante e quanti ci sono vicino? L’abbraccio consolante di un’entità superiore, come Dio? Krzysztof si reca presso una chiesa in costruzione, che aveva notato la sera in cui era uscito per verificare la robustezza del ghiaccio prima di concedere al figlio di pattinarci sopra. È assente la folla di fedeli che aveva visto quella sera lì davanti (immagine che aveva ri-vissuta poco prima, sul lago ghiacciato, mentre i soccorritori recuperavano i corpi dei bambini). Ma, a differenza di quella sera, ora non riesce a essere indifferente a quel Dio in cui, col tempo, aveva creduto sempre meno; Dio non è stato indifferente alla sua esistenza e ha voluto anzi interferire con essa. Questo pensiero lo spinge a distruggere l’altare improvvisato probabilmente messo su dai fedeli. La cera delle candele cola sull’immagine della Madonna di Częstochowa (Matka Boska Częstochowska), che ora assume un volto piangente lacrime bianche, candide, e calde. Krzysztof afferra un blocco di ghiaccio, probabilmente acqua benedetta, con una forma simile a quella dell’ostia, e lo preme contro la sua fronte. Nella forma che ha assunto, quel pezzo di ghiaccio simboleggia il pane di salvezza, di cui Gesù invita a nutrirsi. Ma l’elemento, il ghiaccio, resta pur sempre ciò che ha inspiegabilmente tradito e ucciso suo figlio.
Julie, da parte sua, risale la china solo dopo aver scoperto la verità sul conto di Patrice (che aveva un’amante ufficiale, di cui ella sola sembrava non essere a conoscenza; e che questa aspetta da lui un bambino): dopo essersi (ed essere stata) spogliata di tutto ciò che le restava del suo passato, finalmente agisce. Lavora al Concerto incompiuto di Patrice con Olivier. Incontra Sandrine, l’amante di Patrice, al quale dona la casa in cui lei e il marito hanno vissuto per anni. Questa le sorride, ha conferma delle parole dell’uomo sul conto della moglie: “Che lei è buona. Che lei è buona e generosa. Che così vuole essere. Si può sempre contare su di lei”. Da ultimo, resasi conto che i sentimenti di Olivier per lei non sono cambiati, andrà a vivere con lui. Sulle potenti note del Concerto, un coro recita, in greco, un brano dalla Prima Lettera ai Corinzi di Paolo:
“Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita. E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla. […] La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesserà e la conoscenza svanirà. […] Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto. Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità!” (cap. 13)
La parola impiegata da Paolo per definire l’amore, o carità, è agapê, “l’amore altruistico, gratuito, disinteressato, universale, qual è l’amore di Dio per gli uomini”, secondo la definizione del teologo Battista Mondin (p. 12); idea assente presso i greci, prima del cristianesimo. E riflesso di quell’amore, quindi votato a essere sempre più grande e più intenso, dovrebbe essere l’amore degli uomini, ai quali è stato comandato di amare il prossimo come se stessi: “è azione che supera e rifiuta l’indifferenza; […] è, per usare le parole dello stesso Kieślowski, ‘ciò che spinge verso qualcosa e che domina completamente il senso delle nostre esistenze’”, fa notare ancora Chiara Simonigh nella sua monografia dedicata al film (p. 113). Il superamento dell’indifferenza, il riconoscere d’essere parte di un tutto finiscono per infrangere il tentativo della stessa Julie di isolarsi dal resto del mondo, e “the film ends with a complex montage linking together all of the main characters and ending with Julie now openly crying, finally mourning ‒ that is, recognizing ‒ her loss”, conclude Steven Woodward (p. 68). Quasi a voler dire che tutti gli uomini, per natura, sono portati ad amare.
Bibliografia:
Bibbia, traduzione a cura della Conferenza Episcopale Italiana, 2008.
Battista Mondin, Storia della metafisica. Volume secondo, Bologna, Edizioni Studio Domenicano, 1998.
Chiara Simonigh, Krzysztof Kieślowski. Tre Colori. Film Blu, Torino, Lindau, 2001.
Ead., La danza dei miseri destini. Il Decalogo di Krzysztof Kieślowski, Torino, Testo e Immagine, 2000.
Emma Wilson, Memory and Survival. The French Cinema of Krzysztof Kieślowski, Oxford, LEGENDA, 2000.
Gabriella Ripa di Meana, La morale dell’altro. Scritti sull’inconscio dal Decalogo di Kieślowski, Firenze, Liberal Libri, 1998.
Jan Twardowski, Affrettiamoci ad amare, Genova-Milano, Marietti, 2009.
Slavoj Žižek, The Fright of Real Tears. Krzysztof Kieślowski between Theory and Post-Theory, Londra, BFI Publishing, 2001.
Steven Woodward, Blue, on second thought, “New Review of Film and Television Studies”, 15 (1), pp. 58-69, 2017.
Wisława Szymborska, La gioia di scrivere. Tutte le poesie (1945-2009), Milano, Adelphi, 2009.
Materiale audiovisivo:
Decalogo 1 (Dekalog, jeden), regia di K. Kieślowski, sceneggiatura di K. Kieślowski, K. Piesiewicz, © Studio Filmowe Tor / Telewizja Polska, 1988, 53’.
Tre Colori. Blu (Trois Couleurs : Bleu), regia di K. Kieślowski, sceneggiatura di K. Kieślowski, K. Piesiewicz, © MK2 Productions SA, CED Productions, France 3 Cinema, CAB Productions, Tor Production, 1993, 94’.
I testi dei dialoghi delle pellicole sono tratti dall’adattamento italiano delle stesse, e non dalle sceneggiature pubblicate in volume. Abbiamo sostituito alcune scelte con altre da noi ritenute più adeguate.
Apparato iconografico:
Immagine 1: dal film Trois Couleurs : Bleu, © MK2 Productions SA, CED Productions, France 3 Cinema, CAB Productions, Tor Production.
Immagine 2: dal film Dekalog, jeden, © Studio Filmowe Tor / Telewizja Polska.
Immagine 3: dal film Dekalog, jeden, © Studio Filmowe Tor / Telewizja Polska.
Immagine 4: dal film Trois Couleurs : Bleu, © MK2 Productions SA, CED Productions, France 3 Cinema, CAB Productions, Tor Production.
Immagine 5: dal film Dekalog, jeden, © Studio Filmowe Tor / Telewizja Polska.
Immagine 6: dal film Trois Couleurs : Bleu, © MK2 Productions SA, CED Productions, France 3 Cinema, CAB Productions, Tor Production.