Sara Deon e Martina Mecco
Glielo sistemai nell’addome
fra i trucioli di legno,
il tutto ricucendo.
Bevi a sazietà nel tuo vaso!
Riposa in pace,
piccolo aster!
(Gottfried Benn, Kleine Aster)
Dall’inizio della pandemia Covid-19, il tema della malattia ha saturato il discorso pubblico. L’iniziale opacità intorno alla natura del virus ha rapidamente lasciato il posto al terrore del contagio, a un ritorno della corporalità come possibile minaccia per gli altri. Il sospetto, la diffidenza verso l’altro, la fobia dei contatti si è concretizzata in due immagini: da un lato, quella del malato come potenziale pericolo e possibile untore; dall’altro, la tragica solitudine nell’esperienza del malato, isolato e costretto a confrontarsi con un virus letale. A livello socio-culturale, è evidente che gli effetti della pandemia avranno un lungo e tortuoso impatto sul futuro globale. Partendo dalla situazione vissuta negli ultimi due anni, in attesa di un tanto atteso tempo di post-pandemia, il presente numero si è posto l’obiettivo di sondare questi temi attraverso l’espressione letteraria e cinematografica dell’Europa centrale e orientale, dalla seconda metà dell’Ottocento fino all’estremo contemporaneo.
Come nei numeri precedenti, si è deciso di non delimitare in modo specifico l’argomento di analisi, qui proposto come un percorso comune diviso in tre sottotemi differenti, appunto la malattia, la morte e il trauma. A concorrere nella realizzazione di questo progetto sono presenti sia interventi di carattere teorico, sia proposte di traduzione. Questa scelta ha permesso di realizzare un insieme quanto mai eterogeneo di interventi e di sottolineare la complessa modalità con cui il tema si presenta, indagandolo attraverso la lente artistico-letteraria. Questa scelta, che preferisce la valorizzazione dell’eterogeneità a discapito della specificità, ha portato a problematiche non indifferenti, come la scelta di un titolo e di una copertina che fossero funzionali al discorso. La scelta di Morgue (1912) si rifà in modo diretto a una raccolta del primo Gottfried Benn, poeta tedesco tanto fondamentale quanto controverso nel secolo scorso. Nella raccolta, resa famosa dalla poesia Kleine Aster (“Piccolo Astro”) da cui la citazione iniziale è tratta, Benn analizza e sviscera i tre sottotemi di interesse attraverso la dissacrazione della tradizione poetica – basti pensare alla resa macabra dell’immagine del fiore – e la creazione di una forma “anatomica” della poesia. Accanto a questa scelta, quella dell’immagine copertina dove si è deciso di utilizzare un quadro – anonimo per scelta del suo autore – dell’artista polacco Zdzisław Beksiński, in quanto si ritiene che a livello artistico siano in esso condensate le tre linee d’indagine prese in considerazione all’interno del numero.
Sullo studio critico della malattia nell’età contemporanea molto si deve a Susan Sontag, che in Malattia come metafora (1978) e L’Aids e le sue metafore (1989) mette in luce la natura della malattia in Occidente come costruzione culturale, dalle profonde connotazioni metaforiche, lontana dalla pretesa di un’oggettività scientifica. Prendendo a esempio malattie come il cancro, la peste, la tubercolosi e la sifilide, arrivando all’epidemia di Aids nella seconda metà del Novecento, Sontag effettua un’operazione di decostruzione degli stereotipi sulla malattia e sui malati. In questi due saggi fondamentali sul tema, la studiosa statunitense non analizza la malattia fisica in quanto tale, bensì l’uso metaforico della malattia. Ricorrendo alla definizione di metafora fornita da Aristotele nella Poetica, dove enunciava che la metafora consiste nel trasferimento su un oggetto di un nome che è proprio di un altro, Sontag stimola ad allentare il potere interpretativo-metaforico, al fine di meglio comprendere la malattia nella sua realtà scientifica e libera da forme retoriche.
È evidente che il tema della malattia non era estraneo all’autrice di questi saggi, giacché il padre morì di tubercolosi quando lei aveva solo cinque anni. Inoltre, durante la stesura di Malattia come metafora le fu diagnosticato un tumore al seno, e successivamente si ammalò di una grave forma di leucemia, che la portò alla morte nel 2004. Analizzando in particolare la tubercolosi – il morbo più simbolico del XIX secolo – e il cancro – la malattia del XX secolo per eccellenza, prima della pandemia di Aids –, Sontag mette in luce le similitudini tra i due morbi, rilevando gli stereotipi e le associazioni popolari che li hanno storicamente accomunati. In particolare, si pensava che queste due malattie fossero strettamente legate alla sfera psicologica: le metafore impiegate nel descrivere la tbc o il cancro portarono a immaginare un legame tra la passione repressa e la malattia fisica in sé. Ciò suggerirebbe erroneamente una sorta di colpa auto-indotta dal paziente, che dalla psiche avrebbe riversato il suo malessere al soma. Inoltre, l’intellettuale attacca anche la romanticizzazione che storicamente è stata fatta di alcune malattie, in particolare la tbc: vista come il morbo dei creativi, divenne così popolare nell’immaginario pubblico da spingere alcuni individui a desiderare di contrarre il morbo. Dall’altro lato, invece, la Chiesa cattolica la interpretava come un segno di punizione divina; anche in questo caso, dunque, asserendo che la colpa della malattia fosse imputabile unicamente al malato stesso. Il ricorso al malato come unico capro espiatorio della sua malattia ritornerà con una potenza quasi senza precedenti nella seconda metà del Novecento, con lo scoppio della pandemia di Aids, che colpì in maniera sproporzionata soprattutto gruppi marginalizzati, come persone queer, trans, afroamericani e immigrati.
In ultima istanza, è chiaro che al centro dell’analisi di Sontag c’è soprattutto un interesse a tutelare il paziente nell’esperienza della sua malattia; esperienza che lei stessa, come è stato detto, ha vissuto in prima persona più volte. Infatti, l’uso storico della malattia come metafora, dalla tubercolosi all’Aids, nella visione sontagiana avrebbe scoraggiato e messo a tacere i pazienti, anziché aiutarli. Tuttavia, altri studiosi hanno contestato la sua posizione, sostenendo che il ricorso alla metafora e a un linguaggio figurato può essere utile al paziente, per esempio conferendo significato alla propria esperienza. Il tentativo di dare significato alla propria malattia o a un morbo più collettivo è al centro di alcune delle opere analizzate in questo numero.
Dall’altro lato, l’esperienza del trauma si presta a oggetto di studio all’interno dei cosiddetti Trauma e Memory Studies, che iniziano a godere di grande interesse a partire dagli anni Novanta. Gli studi sul trauma sono schematizzabili in due filoni principali: uno di tipo psicanalitico e l’altro di tipo storico. È importante sottolineare la natura profondamente interdisciplinare di questa area di ricerca: nasce infatti in ambito medico-psichiatrico per allargarsi in un secondo momento agli studi letterari e sociologici. Gli eventi traumatici possono essere distinti in due diverse tipologie: una legata alla sfera individuale, che include violenze e abusi sulla persona, o perdite e lutti; una di carattere collettivo, che include guerre, persecuzioni, catastrofi, le cui ripercussioni investono la collettività, non solo un singolo individuo. Del trauma si è spesso detto che sia incomunicabile, impossibile da comprendere, tantomeno da rappresentare; tuttavia, il linguaggio artistico-letterario è stato a lungo indicato come il più adatto, se non l’unico, a rendere dicibile l’indicibilità del trauma.
Sul fronte del trauma in campo letterario una delle interpretazioni più affascinanti di questa esperienza psicologica è quella del critico letterario Francesco Orlando. Orlando recupera il concetto freudiano di “ritorno del rimosso”, secondo cui il passato, una volta rimosso, ritorna nel presente in maniera surrettizia. Il ritorno del trauma nel presente da cui era stato rimosso può avvenire secondo diverse modalità, anche ricorrendo alla “formazione di compromesso” coniata dallo stesso Orlando, che tematizza una manifestazione semiotica, testuale o formale capace di dare forza da sola a due forze psichiche contrapposte (per esempio la contrapposizione tra gioia rivoluzionaria e sordida violenza). Dunque, la forma letteraria permette la coesistenza tra il represso e la sua repressione; “represso” che Orlando deriva dal “rimosso” freudiano, traslando una categoria prettamente psichiatrica in una dal carattere più sociologico. Pertanto, il “ritorno del represso” orlandiano permette a idee socialmente scomode, personaggi compromessi, collettività e memorie rimosse di riappropriarsi finalmente della propria voce, manifestandosi nello spazio letterario.
A proposito di questa manifestazione, gli articoli e le traduzioni presenti in questo quarto numero pongono all’attenzione, come già affermato inizialmente, il carattere plurimo di quest’ultima. Si veda come la dimensione del trauma sia stata analizzata sia nel caso del singolo (Ricordi dal sottosuolo: la malattia della consapevolezza e l’illusione della razionalità), sia da un punto di vista collettivo (Macellare o essere macellati. Parafilie della violenza nichilista in Elfriede Jelinek), esplorando ulteriormente come questo si rapporti al concetto di identità (Le fatiche identitarie dei coreani di Sachalin). Inoltre, il trauma legato alla dimensione della memoria è un altro interessante aspetto messo in luce dalla traduzione di un brano tratto da Můj život po životě (“La vita dopo la mia vita”) dello scrittore ceco Michal Viewegh. Per quanto concerne, invece, il contesto della malattia, questo è stato preso in esame secondo prospettive differenti, ovvero non solo dal punto di vista del malato, ma prendendo in considerazione anche la complessa posizione del medico di fronte ad essa (“Appunti di un giovane medico” di Michail Bulgakov. Un volto pallido nella sconfinata oscurità della campagna russa). Ancora, a proposito della malattia, ad essere oggetto di analisi sono state anche due opere straordinariamente simili, in cui viene analizzato il ruolo dell’antidoto stesso, rispettivamente la pièce Bílá nemoc (“La malattia bianca”) di Karel Čapek e il racconto A szérum (“Il siero”) di Géza Török (proposto qui per la prima volta in traduzione). Infine, il tema della morte, che è quello predominante all’interno del numero. Esso, è stato preso in esame in diversi contesti e accezioni, non solo considerando il momento della morte come evento (“Derviš i Smrt” storia di un derviscio e della sua morte) o concetto contrapposto a quello di vita (Morte e vita in “La montagna magica” di Thomas Mann), ma analizzando anche gli eventi nella malattia che preparano ad essa (La malattia come istinto di vita: il percorso verso la morte di Arthur Schnitzler).
In conclusione, col presente numero, la realtà editoriale di Andergraund Rivista si augura di essere riuscita a mostrare come sia possibile tracciare delle linee di indagine tanto diversificate quanto comuni all’interno di un bacino così ampio come quello delle espressioni artistico-letterarie delle aree di interesse. A partire da questa panoramica, che si snoda all’interno di un cronotopo piuttosto vasto, ci si auspica di aver offerto una chiave di interpretazione ai temi della malattia, della morte e del trauma differenti e di aver mostrato la ricchezza dei contesti in cui si manifestano.