Richárd Janczer
Nell’agosto 2020, Keller editore ha pubblicato Tutti i giorni (Alle Tage, 2004) nella traduzione di Margherita Carbonaro. Romanzo acclamato dalla critica tedesca e non, è frutto della penna di Terézia Mora. Autrice bilingue ungaro-tedesca emigrata in Germania dopo il crollo del muro o autrice tedesca, nata, scolarizzata e vissuta in Ungheria che è approdata alla “Heimat” a 19 anni? A quale letteratura appartiene? A quella ungherese o a quella in lingua tedesca? Certo è che Terézia Mora, autrice affermata e pluripremiata, traduttrice di autori ungheresi come Esterházy, Örkény, Darvasi e Parti Nagy e nata nel 1971 a Sopron, città al confine austriaco dalla forte identità bilingue, è ella stessa perfettamente bilingue ma riconosce come propria lingua madre il tedesco. Sfugge a ogni tentativo di categorizzazione tanto quanto il suo romanzo-mondo, così intitolato in omaggio all’omonima poesia di Ingeborg Bachmann del 1953, e il suo protagonista, Abel Nema.
Link al libro: https://www.kellereditore.it/prodotto/tutti-i-giorni-terezia-mora/
“Raccontare tutto questo e possibilmente anche in ordine cronologico sarebbe stato impossibile e superfluo…” (p. 53)
Abel si presenta al lettore fin da subito come alterità. È in fin di vita, appeso come un pipistrello a testa in giù nel suo abito nero, emigrante proveniente da un luogo non ben definito, uno stato che non esiste più, traduttore e interprete simultaneo che conosce alla perfezione, per uno strano miracolo, ben dieci lingue ma in maniera astratta, con cadenza neutra e “senza luogo” (p. 18), e fresco di divorzio. Già dalle prime pagine Mora inaugura un vero e proprio romanzo della conoscenza, invita a conoscere gradualmente i personaggi dopo un primo incontro brusco e repentino, invita a non fermarsi al pregiudizio, a lasciare sedimentare poco alla volta l’ingente quantità di briciole d’informazione, di segni gettati nell’Esserci del testo che diventeranno sì più comprensibili ma mai chiari o univoci.
Abel è un personaggio fortemente estraneo, instabile, sviene dantescamente, barcolla, cade, si ferisce, vaga senza meta e senza orientamento, perde la memoria, sembra quasi mancare dell’istinto di autoconservazione. Mora si rifiuta fin da subito di fissarlo in una presentazione realista o in una genealogia esaustiva, la sua telecamera narrativa rimane quasi sempre esterna al personaggio, i suoi pensieri sono raramente rivelati, le sue azioni riportate ma non spiegate. Visto dall’esterno, infatti, sembra un automa o un “uomo senza umanità” (p. 139) non per un carattere maligno ma per la sua assoluta anedonia, in parte giustificata dalla perdita quasi totale di olfatto e gusto, per un’impassibilità aliena a ogni stoicismo, per la mancata manifestazione di sentimenti e un’estrema passività di fronte alle azioni altrui. Questa sua anomalia “attrae come un magnete tutte le cose strane, ridicole e tristi” (p. 216), la sua insondabilità incuriosisce e al contempo la sua inafferrabilità lo rende talvolta sospetto, irrita soprattutto chi ha un’ignoranza ermeneutica ed è propenso a sopprimere la comunicazione o la conoscenza con la violenza.
“Questo non-c’è-la-parola-adatta, questa provocazione che lui irradia e che in ogni persona che incontra suscita una tensione nervosa, la spinta coatta a voler avere a che fare con lui, in un modo o nell’altro.” (p. 82)
La sua caratteristica principale però è il mutismo. Già il cognome “Nema” richiama l’aggettivo ungherese “néma”, muto. Abel non comunica a cenni, rapidi gesti e monosillabi solo nelle interazioni con gli altri abitanti del romanzo-mondo ma anche con il lettore.
“Perché sei sempre così triste, eh?
Non sono triste.
E allora cosa?
Alzata di spalle.” (p. 164)
Mora chiede al lettore di convivere con la sospensione di molti quesiti riguardo al magma esistenziale che ribolle all’interno del protagonista e che mai si raffredda in formazioni rocciose definite e stabili. Quanto di quello che è Abel Nema si fonda sul trauma dell’abbandono da parte del padre? E la sua omosessualità (o bisessualità), più accennata che effettivamente tematizzata, come viene vissuta o repressa al di là dei pochi elementi forniti al lettore? E perché nella sua radicale passività instaura un rapporto filiale con figure femminili come Bora e Kinga che assumono un atteggiamento materno esclusivamente nei suoi confronti? Abel non è solo ironicamente l’eroe di questo romanzo, ne è anche la colonna portante, il fulcro del suo vortice picaresco, Abel lega a sé il lettore proprio perché rimane un mosaico dai tasselli sempre mancanti e lo educa a rinunciare a un atteggiamento normativo-classificatorio o persino clinico. Abel è un territorio incolonizzabile.
Tutti i giorni espande quest’iniziazione gnoseologica attraverso un continuo rimestio temporale. I vari flashback o flashforward non si fondano su madeleines proustiane, su oggetti tematici o scene chiave. I personaggi vengono introdotti spesso nella loro forma più recente, irrompono in scena in maniera vivida ma la loro biomeccanica esistenziale diventa conoscibile solo gradualmente, negli intermittenti vagabondaggi narrativi a ritroso. L’architettura del romanzo si fonda su continue giustapposizioni di “in media res”. È così che entrano in scena personaggi stramparloni come Konstantin e Kinga, il cui parlare convulso e incontrollato crea un gioco di contrasti con Abel.
La coerenza di questo romanzo-mondo si fonda proprio sulle sue plasticità. Oltre a un’eterogeneità di ambienti, di fili temporali-narrativi e di stili espressivi, quello che si viene a formare è un mosaico di personaggi vivi, imprevedibili, irriducibili a simboli, alla barbarie normativa dell’interpretazione, anche quando presentano chiari ma ironici riferimenti culturali, come l’odinico Omar, bambino senza un occhio “dato via in cambio della saggezza”, o Thanos, proprietario del night club-labirinto chiamato “Mulino dei matti”. La scrittura di Mora si delinea inoltre come una polifonia effervescente che può presentare in un singolo paragrafo, talvolta persino in una singola frase, diversi enunciatori ed enunciatari. Avviene una vera e propria moltiplicazione degli scriventi: i personaggi non sono solo oggetti della scrittura ma prendono la parola nel mezzo del discorso per modificare o commentare il testo o addirittura mettendo in corsivo singoli termini o frasi, come esplicita l’autrice stessa.
Tanto quanto il romanzo-mondo si delinea come un mosaico linguistico-enunciativo, anche la città-metropoli occidentale di B., uno sfondo anonimo e sconfinato, irriconoscibile e non identificabile come i suoi nuovi abitanti, diventa un mosaico carnevalesco dove Abel non è l’unico a smarrirsi ma intere comunità di emigranti, bande di ragazzi rom, musicisti bohémien o “barboni” che hanno fissa dimora nei suoi parchi, B. diventa labirinto al cui interno si formano altrettanti labirinti, autenticamente kafkiani, come il complesso residenziale soprannominato Bastiglia o il Mulino dei Matti (uno specchio deformante del Moulin Rouge?). Una rappresentazione del basso che si trova a suo agio proprio in questo bassofondo, in questi ambienti underground, senza bisogno di emergerne, in cui il dettaglio e la precisione diventano del tutto irrilevanti, non è casuale infatti che non verranno mai rivelate le dieci lingue imparate da Abel.
“Non è ancora troppo tardi, dissero un interprete di musica sacra lituano, un poeta albanese, una coppia polacco-slovena in viaggio di nozze, un’ex prostituta ungherese, una studentessa andalusa e la sua amica.” (p. 131)
In un mondo globalizzato, impazzito, in cortocircuito, plasmato da visti, passaporti, permessi di soggiorno, borse di merito e aiuti umanitari, Mora sceglie una multiculturalità aprogrammatica, e autoironica, che nulla ha a che vedere con l’umanitarismo spicciolo del mondo accademico o dei cosiddetti “white saviour”. I personaggi non hanno passaporto sulla carta, la loro estraneità è implicitamente o esplicitamente denotata ma il loro nome rimane vagamente collocabile in un’area, non rimandano a un contesto altro ben definito e preciso. Sono emigranti rispettati come tali. E l’autrice-emigrante Mora si dimostra molto abile a demistificare continuamente le proprie origini giocando con la scomoda etichetta di émigré. Ad esempio, Abel Nema ha padre ungherese ma, pur essendo cresciuto in una città che ricorda Sopron (la “torre dei pompieri” di p. 142 è una chiara allusione al monumento più celebre della città, il Tűztorony), non mostra un particolare attaccamento. Pal il biondo ha solo perso l’accento di “Pál” (Paolo); il cognome di Konstantin, Tóti, ricorda il diffusissimo cognome “Tóth”, e nomi come Kinga o Zoltán contribuiscono a questo depistaggio, per non parlare di Tibor e dei suoi colleghi. È sotto una lente giocosa, autoironica che andrebbero letti anche i pastiche linguistici, in cui spesso compare sottotraccia anche l’ungherese, delle frasi multilingue che episodicamente Abel enuncia, giochi che non si conformano mai come operazioni celebrali e letterarie joyciane.
Abel non emigra alla ricerca di una casa altrove e Tutti i giorni ignora le tradizionali definizioni di “casa” o “famiglia”, decostruisce la fissa dimora, la fissità delle radici, l’appartenenza dell’uomo a un centro di gravità. L’esiliato non viene più formulato secondo il modello letterario diventato quasi archetipico ma passa quasi in sordina, come un mero status burocratico. Abel è trascinato come un detrito nella corrente, gli altri emarginati sembrano, per quanto attivi, fare altrettanto ma nessun “Angelus novus” si volta indietro. In Tutti i giorni lo smarrimento esistenziale non si caratterizza quasi mai come esilio. Il nomadismo diventa infine vera e propria pratica scrittoria, non solo per la scelta di attori erranti ma anche per la liquidità della regia narrativa. Di capitolo in capitolo Abel sosta, apre una finestra e lascia la scena, sempre presente e quasi mai agente lascia ad altri attori il palco.
Mora non fa adagiare mai il lettore, non rende mai il testo una routine domestica. La sua letteratura non ha più bisogno di spiegare il segno, di normare la deflagrazione polifonica di vite ma riesce anzi a ricalcarla, ad assumerne la forma senza colonizzarla con forme che non le sono proprie. Nel suo labirinto si perde solo chi resta ancorato ai suoi pregiudizi, chi pretende di conoscere già la meta, chi è chiuso in se stesso e non dedica del tempo a conoscere l’altro da sé.
Apparato iconografico:
Immagine copertina: https://www.dw.com/en/terezia-mora-day-in-day-out/a-44624826
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