Federica Florio
È stato da poco pubblicato da Bottega Errante Edizioni nella collana Estensioni il nuovo romanzo di Darko Cvijetić, L’ascensore di Prijedor. La traduzione è stata realizzata da Elisa Copetti, docente universitaria e traduttrice di autori provenienti da Bosnia, Serbia e Croazia per Nutrimenti, BEE e altre case editrici.
L’autore, poeta, scrittore e drammaturgo bosniaco, è nato nel 1968 a Rudnik-Ljubija, nei pressi della città di Prijedor, dove vive tutt’ora. Sarà forse per questo motivo che ciò che racconta nel suo romanzo ha un carattere fortemente nostalgico, a tratti sconfortato, ancora incredulo. I ricordi di Cvijetić iniziano ben prima della guerra che portò alla disgregazione della Jugoslavia, ma è innegabile che la fama internazionale derivi proprio da lì. D’altronde, orrori come quelli avvenuti nella cittadina bosniaca non si dimenticano, anzi, destano sempre un interesse particolare, una macabra curiosità che inorridisce e affascina. L’autore non riesce proprio a lasciarsi alle spalle la propria città natale, e abita proprio nel “Crveni soliter”, il condominio di mattoni rossi protagonista del romanzo. Ed è proprio per questo che le storie raggruppate ne L’ascensore di Prijedor, per quanto possano sembrare assurde, hanno sempre quella sfumatura realistica capace di convincere totalmente il lettore.
Link al libro: https://www.bottegaerranteedizioni.it/?product=lascensore-di-prijedor
Il Condominio rosso, ufficialmente denominato Grattacielo 101, viene inaugurato nel 1975 con lo scopo di ospitare fino a centoquattro famiglie di ogni fede e provenienza. È a tutti gli effetti l’incarnazione del progetto jugoslavo, un simbolo di integrazione:
“E il palazzo era pieno di operai e di insegnanti e tutti mescolati, per ogni piano otto appartamenti, così due famiglie serbe, due musulmane/bosgnacche, due jugoslave, due croate, il tutto frullato e condito con almeno due famiglie rom.” (p. 40)
Un villaggio verticale dove risuonano le urla giocose dei bambini e l’aria si impregna dell’odore del cibo. Tredici piani che ospitano Radio Prijedor, il notiziario settimanale e, addirittura, una discoteca; dalla terrazza in cima al grattacielo si riesce a vedere tutta la città, una vista che solo gli aviatori possono sognare.
A collegare il tutto, l’ascensore, la cui marca (Schindler) viene ripetuta ogni volta che esso viene nominato. Il motivo di tale ripetizione può passare inosservato nella traduzione italiana, ma assume particolare significato nella versione originale. Il titolo del romanzo in bosniaco, infatti, è Schindlerov lift (L’ascensore di Schindler): un vero e proprio gioco di parole che rimanda al film Schindler’s list. Benché l’assonanza venga persa nella versione italiana, è evidente che l’ascensore acquisisca un ruolo determinante all’interno del romanzo:
“L’ascensore (marca Schindler) era uno status, una prova di urbanità. […] Molti durante gli studi, una volta partiti da Prijedor, per molto tempo sognavano ancora gli ascensori del Condominio rosso, il rumore del freno o quello dei tacchi. Con gli ascensori: si portavano via i morti oppure i malati gravi, sui grandi (marca Schindler) se ne andavano le spose e si partiva per la guerra.”(pp. 21-22)
L’ascensore è un luogo di scambio e di relazione, dove i ceti sociali si mescolano: operai e medici, impiegati e architetti, intellettuali e aspiranti attori si incontrano e condividono uno spazio comune per andare a lavorare o per tornare dalle loro famiglie. Lo utilizzano perfino i bambini per gioco.
Gli anni ’90 sono però alle porte. Il conflitto jugoslavo inizia nel 1991, prima con la guerra d’indipendenza slovena e successivamente con la guerra in Croazia. Sembra, tuttavia, una minaccia lontana e, benché qualcuno già si rechi in aiuto dei nazionalisti, sono pochi quelli che comprendono la reale portata dell’evento:
“[…] la guerra durava già da qualche tempo per metà dei vicini, nelle loro teste oppure in loro stessi, partiti volontari al fronte i Croazia, in aiuto ai fratelli – già nel 1991. Ritornavano ubriachi, scapestrati, mezzi matti, armati, rabbiosi – avevano già capito e visto – mentre nel condominio nessuno capiva né vedeva quel che stava arrivando e che si stava preparando.” (p. 53)
Naturalmente, la guerra cambia la percezione di tutto, e il primo a subire un mutamento drastico è proprio l’ascensore: da testimone dell’integrazione di etnie e religioni diverse, diviene per sbaglio – a causa di un ripristino improvviso della corrente – un cesto da ghigliottina semovente. Cvijetić presenta la prima vittima così, utilizzando il pilastro dell’intero romanzo, e da quel momento in poi il Condominio rosso assume i colori della polvere e del sangue. L’ascensore smette di funzionare, l’integrazione tanto agognata si arresta. I residenti nel palazzo, che prima condividevano la rakija nei giorni di festa e si aiutavano a vicenda, diventano soldati di eserciti nemici. L’edificio si trasforma in un grattacielo maledetto, popolato dai fantasmi: coloro che prima ridevano, spettegolavano e giocavano ora sono morti, oppure hanno perso il senno dopo l’esperienza nel campo di prigionia. L’autore cita Omarska, Keratem e Trnopoljie, nomi che fanno rabbrividire, perché vengono associati a scopi vergognosi e crudeltà inaudite. Li inserisce tra le pagine a tradimento, dove il lettore meno se lo aspetta – anche se, a dir la verità, l’associazione risulta inevitabile, perché Prijedor è strettamente collegato ai campi di concentramento degli ultranazionalisti serbi, alla pulizia etnica, alle deportazioni in piena notte, alle fucilazioni in mezzo alla strada. Secondo i dati pubblicati dal Progetto Prijedor, nella zona furono internate oltre trentamila persone tra bosniaci, musulmani e, in generale, cittadini non-serbi; più di cinquantamila furono perseguitate a vario titolo, oltre tremila vennero uccise. Sono numeri approssimati per difetto, che di sicuro andrebbero rivisti, ma che ancora tormentano gli abitanti della cittadina; dopo Srebrenica, Prijedor è l’area con il maggior numero di civili uccisi, e i loro fantasmi l’assediano ancora.
L’ascensore di Prijedor non è un libro di facile lettura: Cvijetić raccoglie decine e decine di vite in meno di novanta pagine, dando vita a un romanzo corale rumoroso, a tratti caotico, che ricorda la confusione stessa della vita o, quanto meno, di quel crocevia di religioni, etnie e professioni che animavano il Condominio rosso. L’ordine narrativo, inoltre, non rispetta quello cronologico. I personaggi compaiono in momenti diversi: vengono accennati, lasciati in sospeso, ripresi. All’inizio i nomi sono tanti e creano confusione; sfilano davanti agli occhi del lettore l’uno dopo l’altro, privi di importanza. Solo dopo il 1992, quando la guerra giunge a Prijedor, diventano decisivi e fanno la differenza tra la vita e la morte (come sottolinea Federica Manzon nella postfazione). I cognomi determinano la deportazione o la salvezza, separano chi è destinato a imbracciare il fucile da chi verrà rinchiuso nei campi di detenzione. Il Condominio rosso diventa il palcoscenico di una guerra in miniatura capace di rispecchiare totalmente ciò che avviene al di fuori, e il suo destino è il medesimo della città che lo ospita: anche quando i conflitto giungerà al termine e gli accordi di Dayton verranno firmati, non si trasformerà nel luogo spensierato e armonioso di prima. Cvijetić non vuole darci un’immagine rigogliosa e allegra del dopoguerra, perché il suo compito non è dare un lieto fine – che, oltretutto, non c’è stato –, bensì richiamare i fantasmi e ricordare, affinché la memoria non finisca nella palude dell’indifferenza.
Bibliografia:
Darko Cvijetić, Elisa Copetti (a cura di), L’ascensore di Prijedor, Bottega Errante Edizioni, 2021.
https://www.bottegaerranteedizioni.it/?product=lascensore-di-prijedor
http://www.progettoprijedor.org/
Apparato iconografico:
Immagine 1:
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Immagine 2: https://gdb.rferl.org/5469D7D7-6E24-4BC6-894C-046CA8ADA8C3_w1080_h608.jpg
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