Martina Mecco
“Sì, tutti loro vivono della propria visione sbagliata del mondo, più che della vita stessa.”
Ivo Andrić, Na obali
Questo anno è uscita presso la casa editrice Bottega Errante Litigando con il mondo, una raccolta scelta di racconti dello scrittore Ivo Andrić tradotti da Alice Parmeggiani. Nel 2017 la stessa casa editrice ha pubblicato In volo sopra il mare e altre storie di viaggio, mentre il 2019 è stato l’anno de La vita di Isidor Katanić. L’edizione è ulteriormente arricchita dalla postfazione curata da Božidar Stanišić, a sua volta scrittore, poeta, saggista e traduttore di origini bosniache.
Link del libro: https://www.bottegaerranteedizioni.it/?product=litigando-con-il-mondo
Per cercare di analizzare i racconti di un autore della portata di Ivo Andrić (1892-1975) sono necessarie delle premesse. Andrić è uno dei più grandi scrittori del Novecento, titolo suggellato nel 1961 con il conferimento del Premio Nobel per la letteratura. Egli è riconosciuto soprattutto per il suo romanzo Na Drini ćuprija (“Il ponte sulla Drina”, 1945), opera all’interno della quale viene compresso un arco temporale di cinque secoli di storia che riguardano il centro di Višegrad, cittadina che si trova nel cuore dell’attuale Bosnia-Erzegovina. La Bosnia, definita dallo stesso Andrić come “un piccolo paese tra mondi”, rappresenta, con la sua atmosfera multietnica e i suoi paesaggi, il nucleo della sua ispirazione letteraria. Nonostante ciò, definire Andrić uno “scrittore bosniaco” risulta un’operazione tronca nei confronti della sua intera opera. Il respiro della sua prosa penetra con le sue radici nel profondo dei territori dell’Ex-Jugoslavia, nutrendosi della storia e della tradizione. La forza di Andrić consiste nella sua innata capacità di tenere insieme elementi che sfuggono, si rincorrono e che hanno un’origine profondamente comune.
Litigando con il mondo è, come detto, una raccolta scelta di sette racconti. La forma del racconto è centrale all’interno di tutta la produzione andrićana, rappresenta il genere prediletto dall’autore accanto a quello poetico, sviluppato soprattutto nella fase giovanile, e al romanzo. Anche nei suoi grandi romanzi, come Travnička hronika (“La cronaca di Travnik”, 1945) o il già citato Na Drini ćuprija, la cellula narrativa a livello profondo è sempre quella del racconto. Difatti, in riferimento a questo si parla nella critica di una episodoska komposica, vale a dire una composizione di tipo episodico e aneddotico. Uno dei modelli a cui si rifà è quello di Peter Kočić, autore considerato il padre della narrativa bosniaca, nella cui opera si osserva chiaramente l’utilizzo di un processo narrativo che si basa sulla forma dell’aneddoto. Per Andrić, infatti, il compito dello scrittore è quello di raccontare. In Znakovi pored puta (1976) spiega chiaramente come la scrittura sia un mestiere al servizio della verità, un processo dove non c’è spazio per una qualche forma di alterazione della realtà. Accanto alla componente della verità, di cui lo scrittore si erge a portatore silenzioso, emerge quella della leggenda, elemento che necessita di essere sviscerato e spiegato. In questo modo, la dimensione della hronika e quella della legenda si intersecano in modo indissolubile sullo sfondo della Storia. L’opera di Andrić è, per concludere questa breve introduzione, sull’umanità e al servizio dell’umanità. Il respiro dei suoi scritti ingloba una dimensione che non presenta confini e che incalza un ritmo senza tempo.
Sebbene i racconti scelti in Litigando con il mondo siano eterogenei, è possibile ritrovare alcuni Leitmotiv che si ripresentano anche in altre opere. Nel racconto Na obali (“Sulla riva”, 1952, pubblicato su “Republika” nel 1953) emerge innanzitutto il tema della sponda. L’elemento del fiume è ricorrente all’interno di tutta l’opera di Andrić e si lega profondamente all’immagine del ponte, metafora della vita stessa. L’idea di due mondi contrastanti e che non si toccano, in mezzo ai quali tutto scorre imperterrito, è un’immagine molto forte nella visione andrićana del mondo. I ponti sono i mezzi attraverso cui è possibile connettere queste istanze separate, citando il testo I ponti (1963):
“Di tutto ciò che l’uomo, spinto dal suo istinto vitale, costruisce ed erige, nulla è più bello e più prezioso per me dei ponti. I ponti sono più importanti delle case, più sacri perché più utili dei templi. Appartengono a tutti e sono uguali per tutti, sempre costruiti sensatamente nel punto in cui si incrocia la maggior parte delle necessità umane, più duraturi di tutte le altre costruzioni, mai asserviti al segreto o al malvagio.”
Inoltre, i giovani di Sarajevo protagonisti del racconto che trascorrono le vacanze “sulla riva del fiume natale” e che “cantando di notte sul ponte” rimandano alla dimensione autobiografica di Andrić stesso, la cui infanzia è profondamente legata alle sponde della Drina. I personaggi di Andrić transitano continuamente sui ponti, li attraversano, sostano su di essi per “osservare tutto attorno a sé con uno sguardo acuto e bramoso”. Come si nota anche all’interno dei vari racconti, il ponte dalla pietra liscia viene spesso individuato come il punto di prospettiva da cui si distende lo sguardo dei personaggi. I ponti, elementi quasi mistificati, diventano quindi il punto nevralgico, l’occhio del ciclone di molti dei suoi scritti. Sempre in Na obali si trova un alto tema importante cui si accennava precedentemente, ovvero quello del raccontare. Nel racconto viene mostrato l’odio sordo del personaggio Marko per le storie che si nutrono del “ridicolo tessuto della fantasia”. Come in Znakovi pored puta, anche in questo passaggio si sottolinea il rifiuto nei confronti dei prodotti che derivano dal processo dell’immaginazione, si legge:
“Si deve sapere la verità e raccontare la verità, e la verità è che su questa terra ci sono molte cose belle […]. Sotto l’implacabile esame della verità si deve mettere tutto, non solo i racconti, ma anche ciò che si ritiene reale e vero, ma che non è né l’uno né l’altro.”
Questa componente metaletteraia del raccontare, punto chiave di tutta la poetica di Andrić, si intreccia con la storia culturale dei Balcani affondando le sue radici nella produzione orale. Andrić è, come molti altri autori, erede moderno della tradizione. Anche nel racconto Mila i Prelac (“Mila e Prelac”, pubblicato in Pripovetke II nel 1936) Prelac stesso è preso dal desiderio irrefrenabile di raccontare, non smette di farlo nemmeno mentre mangia. In Izlet (“La Gita”, pubblicato su “Borba” nel 1953) viene presentata l’immagine di un anziano che racconta della distruzione del castello, di come questa si riproponga come effetto di istanze differenti, dall’impeto bellico del popolo turco all’ingiustizia dell’uomo stesso. Questa forza corrosiva è la stessa che compare nel racconto Kula (“La Torre”, pubblicato su “Borba” nel 1960), dove della torre dell’infanzia altro non rimane se non il ricordo:
“Solo talvolta risorge e rivive […], si è mantenuta in qualche luogo della memoria. E ciò avviene raramente […]. Talvolta in sogno, talvolta nella musica, ma talvolta anche in pieno giorno, in momenti cin cui quell’uomo si trova, almeno apparentemente, distante sia dal sogno sia dalla musica.”
Nell’episodio dell’anziano di Izlet, inoltre, si ritrova un altro elemento molto importante che in Andrić dialoga con la tradizione dei Balcani, ovvero il concetto della ciclicità del tempo, l’idea di una dimensione temporale che si ripropone e lega le epoche.
Venendo ora ai personaggi dei racconti, è interessante osservare come non siano presenti le solite figure care all’autore in altre sue opere più canoniche. Infatti, come osservato da Božidar Stanišić nella postfazione, i racconti contenuti nella raccolta si incentrano sul tema dell’infanzia e dell’adolescenza, sono gli occhi dei giovani quelli che osservano e colgono il mondo circostante. Sono dei “piccoli uomini” che si ritrovano a dover fare i conti con la propria quotidianità. Andrić pone la dimensione del sentimento in un’ottica differente, filtrata dallo sguardo di chi non ha ancora esperito la metamorfosi nella vita adulta. Gli adulti vengono, a loro volta, osservati nella quotidianità e sono anch’essi oggetto di questo filtro narrativo, nulla sfugge a questi bambini così “silenziosi, acuti, sensibili e introversi”. Nella vita dei ragazzini che si gettano nel fiume o che giocano alla guerra nei pressi della vecchia torre si respira già, però, il futuro tradimento della Storia e l’avvento della disillusione. Andrić riesce, in questi suoi racconti, a mostrare una percezione della vita che, sebbene in parte ingenua, mostra già una presa di consapevolezza nei confronti di ciò che si appresta a venire. Questo recupero della dimensione infantile viene realizzato anche con una certa malinconia di un tempo orami perduto, che è quella dell’autore stesso. Nel rappresentare queste figure egli riesce nell’intento di mettersi a tacere nell’atto del raccontare, senza snaturare le voci che compongono la dimensione corale di questi racconti.