Intervista con Bruno Osimo, le sue idee sulla traduzione poetica – 2 parte

Intervista a cura di Marianna Kovacs

Intervengono Martina Mecco
Yuliya Oleksiivna Corrao Murdasova

Trascrizione di Marianna Kovacs

 

La prima parte di un’intervista a Bruno Osimo è stata pubblicata il 20 maggio 2021. Questa seconda parte è riservata alla traduzione di poesie ed ai rapporti con l’editoria.

Bruno Osimo è semiotico, da settembre 2020 è consulente scientifico della Scuola Superiore per mediatori linguistici di Padova.  È docente alla scuola Civica Altiero Spinelli di Milano con i corsi di traduzione editoriale e saggistica da russo e inglese verso l’italiano, è traduttore professionale, ha tradotto Čechov, Tolstoj, Dostoevskij, Bulgakov, Propp e molti altri, ha pubblicato numerosi testi e articoli di Teoria delle traduzioni, con particolare attenzione alle teorie di Jurij Lotman e Anton Popovič, è suo il Manuale del traduttore del 1998 edito da Hoepli.

Tra le ultime traduzioni troviamo anche il volume Anna Achmatova. Tutte le poesie (1904-1966). Versione metrica. Ne ha curato direttamente la pubblicazione, così come per altri interessanti suoi precedenti lavori.


MM: Quando si traduce poesia si tende a preferire una traduzione filologica che va a riprodurre lo schema metrico o ritmico, oppure si cerca una traduzione che invece vada a giocare su quello che è il significato stesso della semantica. Ho letto moltissime liriche di Rilke tradotte in italiano e mi sono accorta che, con questo autore, in italiano si tende molto a privilegiare l’aspetto metrico piuttosto che il contenuto, quindi molto spesso ci si allontana dalla versione originale. Mi viene in mente anche il caso di Ripellino con Esenin oppure l’idea di Fortini sul fatto che, anche un po’ sulla lezione di Montale, la traduzione della poesia debba essere una sorta di prodotto autonomo rispetto all’originale. La mia domanda è se, secondo lei, non sarebbe meglio lavorare su compensazioni quando si traduce per un pubblico ampio e naturalmente quando non si fa una traduzione indirizzata ad un certo tipo di esperti?

BO: Bella domanda, da centomila dollari, anzi rubli! Si tratta del problema del target e quindi del lettore modello. Ci sono lettori modello che vogliono un intrattenimento e ci sono lettori che invece vanno in cerca di una realtà diversa dalla propria realtà locale. Per loro bisogna fare due tipi di traduzione diversa. Nel caso della poesia c’è la dominante del metro, c’è la dominante del contenuto e c’è anche un’altra dominante che è quella  della rima. Purtroppo, o per fortuna, a seconda dei punti di vista, nella poesia russa spesso c’è la rima, in Achmatova c’è la rima.  Io ho fatto una scelta di questo tipo: ho scelto di non privilegiare la rima perché la rima secondo me in italiano,  soprattutto se abbinata con dei versi di un numero di sillabe pari (6, 8, 10, 12), produce un effetto simile a La vispa Teresa che è molto sgradevole, soprattutto è molto poco poetico, e la trasforma alle orecchie del lettore italiano in una filastrocca, poco lirica. Sono d’accordo sulla questione del principio di compensazione. Sicuramente io l’ho usato molto nella traduzione di Achmatova, mi sono posto come dominante quella del metro perché, in un modo che io trovo poco giustificabile, spesso le traduzioni dal russo delle poesie vengono fatte in italiano o in prosa oppure in endecasillabi. Noi abbiamo gli endecasillabi, d’accordo, un po’ di patriottismo lo posso anche capire, però quando sto traducendo per esempio Evgenij Onegin di Puškin l’endecasillabo non c’entra niente. Evgenij Onegin è composto da tetrametri giambici e quindi, secondo me, l’unica traduzione che va fatta di quella poesia è una traduzione in tetrametri giambici, dove magari si può evitare di fare rima perché si può privilegiare come seconda dominante, dopo il metro, il contenuto delle parole, andando poi a compensare tutto quello che non si riesce a dire in un certo punto in un altro punto del testo, per riuscire a dare al lettore italiano già soltanto l’idea almeno un po’ vaga del metro dell’originale. Teniamo presente che stiamo parlando di poeti, per esempio nel caso di Puškin, che sono famosi per il loro metro.  Cioè si parla del metro oneghiniano che un italiano non sa che cosa sia perché nella migliore delle ipotesi ha visto solo degli endecasillabi.

 

MM: Qual è la difficoltà di tradurre in italiano il metro da una lingua come il russo dove comunque il sistema sillabo-tonico è diverso?  In tedesco c’è la tendenza, ad esempio, al verso trocaico piuttosto che al verso giambico per la distribuzione degli accenti. 

BO: La principale difficoltà credo sia più o meno la stessa che incontrano i traduttori delle canzoni. Adesso non si usa più, per fortuna, ma negli anni 60 venivano tradotte tutte le canzoni, non parlo dei Beatles che di solito venivano lasciati in pace. C’era quella, che adesso chiameremmo la cover, che veniva tradotta quasi sempre perché allora cantare in inglese era una cosa abbastanza strana. Shapiro per esempio, che tutti conosciamo, era uno che cantava anche in italiano i testi tradotti da lui o da altri. A me piacciono tantissimo queste canzoni pronunciate in modo impreciso da persone che non sono di madrelingua italiana, trovo che siano molto più affascinanti i cantanti che cantano in una lingua che non è la loro, ma questo non c’entra. Credo che la difficoltà sia la stessa, la difficoltà principale dell’italiano è che abbiamo poche parole tronche e quindi, quando vogliamo che finisca il verso in italiano, ci si ritrova ancora ad avere una sillaba o due che non si sa dove mettere. Quindi bisogna ingegnarsi. Io certe volte ho fatto delle scelte che probabilmente i miei professori dell’università di quarant’anni fa, se le vedessero, si rivolterebbero nella tomba. Per risolvere questa difficoltà delle parole tronche, che sono molto poche, a volte sono dovuto ricorrere a parole non del tutto italiane, magari a parole straniere, per tradurre certi concetti, oltre ad aver lasciato alcune parole in russo, naturalmente. Io comunque rivendico queste scelte. Credo che tutto sia lecito se si dichiara quello che si sta facendo, è importante non nascondere la polvere sotto al tappeto.

 

YM: Abbiamo parlato delle difficoltà che si incontrano nel tradurre dal sistema sillabo-tonico. Quali sono state le maggiori difficoltà che ha incontrato in Achmatova e come le ha risolte? Quali espedienti ha usato oltre a quelli che ci ha detto e se ce ne sono altri?

BO: Io non ho la pretesa di avere riprodotto con esattezza e con precisione tutta la metrica russa. Ho cercato di rendere lo schema di base tradotto in italiano, quindi come se fosse un sistema sillabico e non sempre sono riuscito a mettere l’accento tonico nel posto giusto del verso. Mi è sembrato già molto faticoso quello che ho fatto, cioè riuscire a riprodurre lo stesso numero di sillabe. La difficoltà principale è stata quella di tradurre i versi di numero di sillabe pari, come dicevo prima. È vero che in italiano abbiamo gli endecasillabi che sono dispari, però in generale trovo che tutti i versi che hanno un numero pari di sillabe siano dei versi che facilmente diventano una filastrocca e che, in qualche modo, uccidono l’aspetto lirico del testo. Quelle rare volte che riuscivo a riprodurre otto sillabe russe con otto sillabe italiane, rileggendole sembravano poesie per bambini. Poi ho cercato di modificare ulteriormente la mia traduzione per darle un aspetto liricamente valido. Da quel punto di vista devo dire che ho scritto poche poesie in italiano, però comunque sono un autore di poesie in italiano, e se non lo fossi stato non credo che sarei riuscito a tradurre Achmatova perché comunque certe volte ho dovuto produrre delle interferenze della mia visione poetica con la visione poetica di Achmatova.  Il frutto della versione è una interazione tra la poetica di Achmatova e la mia. Secondo me non ci può essere in traduzione la poetica pura dell’autrice, deve essere per forza una contaminazione tra la poetica del traduttore e la poetica del poeta. Quindi da quel punto di vista l’unica scusante che posso avere è che non è possibile fare diversamente, volevo che i miei testi fossero delle poesie. Non volevo che fossero soltanto la traduzione di una poesia, ma che fossero anche delle poesie a loro volta. Credo che non sia giusto tradurre delle poesie con qualcosa che non è poetico, in questo modo si uccide la voglia di conoscere un certo autore.

 

YM: Sto traducendo alcune poesie dall’ucraino. A cosa si può pensare quando si traduce una poesia, quali altri spunti mi può dare per tradurre in modo più o meno fedele?

BO: Credo che sia importante che tu senta la poesia come poesia quando la leggi in ucraino. Poi quando la scrivi in italiano devi concederti una certa libertà. Non puoi pensare solo alla fedeltà, ma devi pensare all’originale ucraino come uno spunto. Se hai una capacità poetica, devi attingere a quella e devi usare l’originale come se fosse la tua tavolozza, cioè la tieni in mano e lì ci sono tutti i colori che devi usare. Poi però la poesia deve essere una tua poesia, ovviamente sarà un po’ come un matrimonio tra te e l’originale, però il figlio sarà soltanto in parte della poetessa ucraina. Non dobbiamo pensare all’equivalenza, dobbiamo pensare alla scrittura di una poesia. Diamoci i vincoli che vogliamo, siano essi la metrica o la rima. Se vogliamo che sia qualcos’altro, va benissimo. Dopo esserci dati questi punti fermi, dobbiamo usare la nostra capacità lirica creativa e non dobbiamo pensare all’equivalenza.

 

MM: Affrontando invece il tema dell’editoria, dal punto di vista degli studenti che collaborano con Andergraund, si incontrano due problemi. Crediamo che in molte case editrici non ci sia una componente scientifica, qualcuno che effettivamente conosca il libro che si va a tradurre e la scelta traduttiva che si dovrebbe fare. Successivamente, quando un testo viene pubblicato e recensito, questo compito viene assegnato a persone che non sono degli specialisti, quindi molte volte capita di leggere delle critiche inadeguate che fanno sì che il lettore maturi un’idea sbagliata del libro. Cosa ne pensa?

BO: Speriamo che delle iniziative come quella di Andergraund, cioè iniziative che partono dal basso come dice la parola stessa, possano invece dare spazio ad una critica letteraria alternativa, quindi dove chi fa una recensione dice quello che pensa invece di dire quello che è bello sentirsi dire dagli altri critici. Io penso che il critico letterario debba parlare al lettore comune. Voi siete giovani e non avete un padrone e siete liberi di dire quello che volete. Apprezzo moltissimo la vostra iniziativa e non solo perché l’avete avuta, che non è una cosa da poco.

Poi ci sarebbe da fare un discorso su alcune case editrici che non si propongono di fare delle traduzioni filologiche, cioè che fin da quando sono nate hanno voluto fare traduzioni molto rimaneggiate. Tanto è vero che, se volete lavorare con loro, venite automaticamente affiancati da un revisore, cosa che succede con le altre case editrici soltanto se il lavoro del traduttore è brutto. D’ufficio viene inserito il revisore che lavora per mesi o per settimane a fianco del traduttore rimaneggiando completamente il testo, ha un potere enorme e lavora per avere un testo che deve essere molto leggibile. Non vogliono fare una traduzione di tipo filologico, non ne capiscono il motivo.

È successo per esempio anche alle opere di Nabokov. Lolita era stato tradotto nel 1958 per Mondadori da Bruno Oddera e poi è stato ritradotto intorno al 2000 da Adelphi. Nabokov aveva fatto la versione russa, la mia tesi di laurea era proprio un confronto tra Lolita in russo, Lolita in versione originale inglese e Lolita in italiano della Mondadori. Pensavo che tanti dubbi di interpretazione sulla versione russa si potessero sciogliere con il parere dell’autore stesso, quindi in modo autorevole, invece la versione di Adelphi non ha tenuto conto della versione russa, è stata fatta da una traduttrice che non sa il russo e quindi, secondo me, è stata persa un’occasione d’oro per fare una versione più filologica. Ma alla casa editrice andava bene così.

 

MM: Il caso di Milan Kundera è particolare però, Milan Kundera è un autore che ha dimostrato una volontà molto forte nei confronti delle sue opere e nella scelta anche di come debbano essere trattate. In questo caso è stato accontentato l’autore, anche per la sua popolarità.

BO: Siamo in presenza di un autore che ha ritirato tutte le edizioni che non gli piacevano. Quando ha imparato il francese e ha visto come era stato tradotto in francese ha fatto ritirare tutte le edizioni francesi delle sue opere e le ha fatte ritradurre. Mi risulta che l’abbia fatto anche con l’inglese. Non stiamo parlando di un autore che prendeva sottogamba la traduzione, stiamo parlando di un autore che aveva già imparato il russo come lingua straniera e appena espatriato aveva imparato le lingue cosiddette occidentali. Quando si è reso conto di quello che avevano fatto i traduttori si è messo le mani nei capelli e ha detto ‘questo non sono io’.  Con il suo potere di autore è riuscito a fare quello che ha fatto, Dio lo benedica. Sono gesti come quello che poi favoriscono la coscienza dei lettori. Ha scritto anche il libro I testamenti traditi dove ha parlato proprio di tutte le opere tradotte male, le sue e quelle di altri, compresi i testi sacri.