Giulio Scremin e Julia Stępińska
Eliza Orzeszkowa (1841-1910), una delle principali voci del positivismo polacco, è ritenuta tra le figure fondamentali per lo sviluppo delle idee femministe nel paese. Nelle sue scelte di vita e nelle sue opere si riflette la visione di donna emancipata di cui la scrittrice si è sempre fatta fervente apostola. Nativa delle terre multietniche e multiculturali dell’ex-Granducato di Lituania (oggi Bielorussia) e vissuta nel tempo in cui la Polonia era spartita tra le potenze limitrofe, Orzeszkowa partecipò attivamente alle operazioni legate alla Rivolta di Gennaio e, nel giugno 1863, nascose per due settimane l’ultimo comandante della Rivolta, Romuald Traugutt. Il marito Piotr Orzeszko, pur non avendo mai preso parte attiva alle operazioni rivoluzionarie, fu esiliato in Siberia. Contro il costume del tempo, ella decise di non accompagnare suo marito in esilio. Scrittrice fecondissima e convinta che l’attività letteraria dovesse essere uno strumento di sviluppo sociale, rivolse particolare attenzione verso alcune delle categorie più svantaggiate e discriminate della società del suo tempo, tra cui, soprattutto, le donne. A tal proposito, con il saggio Kilka słów o kobietach (“Sulle donne”, 1870), una delle sue opere di carattere sociale, l’autrice fornisce un quadro sullo stato dei rapporti tra donne e società e si propone di dare una definizione al concetto di emancipazione della donna, tentando di decostruire le immagini che la società del suo tempo associa a tale concetto.
Orzeszkowa racconta infatti che al solo sentir pronunciare le parole “donna emancipata”, le menti dei suoi contemporanei si riempiono di “leonesse” inserite nell’alta società che fumano e bestemmiano; “pizie” che, avendo accesso alle biblioteche e all’istruzione, sciorinano con boria paroloni pseudo-intellettuali e hanno le teste piene di “mari e orizzonti”, donne ricche che decidono di abbandonare la propria vita familiare per abbandonarsi all’ozio. Tali immagini, nell’opinione dell’autrice, scaturiscono perché donne che tengono simili comportamenti si attribuiscono la condizione di “donna emancipata”, per cui l’idea di “donna emancipata” viene coperta di ridicolo e respinta dalla società, arrestando di fatto ogni tipo di discussione seria e sensata in materia.
Nella società esiste però un concetto che dà ragione d’essere all’espressione “donna emancipata”, esiste un giogo che grava sulle donne e da cui devono liberarsi. Tale giogo è per Orzeszkowa il fatto che la società considera le donne creature “fragili e angeliche”, di fatto le infantilizza, le parole che vengono usate sono “bambino viziato della società”. A causa di ciò, alle donne si nega l’accesso all’istruzione e la possibilità di trovare un riscatto sociale nel lavoro. Queste idee trovano una loro esemplificazione in un romanzo successivo della stessa autrice, Marta (1873), la cui storia gravita intorno una giovane vedova che, non avendo avuto accesso all’istruzione, si trova impossibilitata a trovare un lavoro adeguato che le permetta di mantenere la sua bambina e finisce per togliersi la vita.
Alcuni punti che caratterizzano la critica di Orzeszkowa, letti oggi, potrebbero arrivare anche ad offendere chi si riconosce nel pensiero femminista e lo mette in pratica. Com’è possibile prendere a modello una scrittrice che considera quella della vita in famiglia “la felicità più pura” delle donne? Come ignorare la sua critica verso le donne che vogliono decidere liberamente come apparire o sentirsi libere dagli obblighi della vita in famiglia? Al giorno d’oggi nessuno si azzarderebbe di affermare che la donna è il “bambino viziato della società”. Non sono forse questi gli atteggiamenti che il femminismo contemporaneo desidera debellare?
Eppure è possibile trovare un tratto d’unione tra il pensiero di Orzeszkowa e quello del femminismo contemporaneo: la consapevolezza che le donne ancora oggi non vengono prese sul serio e devono ancora combattere contro gli ostacoli creati dal pensiero patriarcale. Gli eventi degli ultimi anni in Polonia, anni di mobilitazione generale, di proteste e manifestazioni per i diritti delle donne tra cui quello all’accesso legale e sicuro all’aborto, ne sono un esempio: hanno dimostrato che la questione dell’emancipazione della donna è quanto mai attuale. Così come il dialogo intorno all’idea che, prendendo in prestito le parole dell’autrice, è “rappresentata dalla sua definizione”.
Senza l’esempio di Eliza Orzeszkowa e del suo attivismo, oggi probabilmente non sarebbe nemmeno pensabile vedere manifestare a testa alta per le strade di Varsavia donne e ragazze fiere della propria femminilità. Le donne di oggi, cresciute nel segno del pensiero di emancipazione, sono adesso pronte per riorganizzare il ragionamento delle loro madri con la stessa persistenza coraggiosa e potente. Avendo una buona memoria del passato, sono pronte a proiettare nel futuro quello che già era il sogno di Orzeszkowa: far sì che le donne si liberino da tutti i gioghi che le tengono relegate a una condizione di subalternità, così che finalmente questo airone “un po’ cieco e un po’ sbilenco” riesca spiccare il volo, svegliando col fiero battito delle sue ali tutti gli addormentati.
Il testo proposto costituisce la prefazione del saggio Kilka słów o kobietach ed è stato tratto dall’edizione pubblicata nel 1873 dall’editore A. J. O. Rogosz di Leopoli, città che all’epoca faceva parte dell’Impero Austro-Ungarico.
Eliza Orzeszkowa, Prefazione a Sulle donne
Una delle idee più diffusamente discusse nel nostro secolo è la cosiddetta idea dell’emancipazione della donna.
A chi non è mai capitato di vedere un’anziana bambinaia che, circondata da bambini che l’ascoltano, racconta la vecchia favola: “Un airone dalle gambe lunghe camminava su un tavolo. Devo andare avanti?“. I bambini ascoltano e attendono invano di sentire come continua la storia di questo uccello “un po’ cieco e un po’ sbilenco“, credono invano che il racconto della tata si concluderà con l’airone che finalmente spiegherà le ali e si alzerà in volo da quel tavolo su cui aveva camminato per tutto il tempo; invano ascoltano e aspettano, ma l’airone continua a camminare, non si trasforma in aquila, e con il movimento monotono delle sue gambe lunghe che procedono lungo il tavolo, addormenta tutti coloro che si aspettavano che avrebbe spiccato il volo.
La questione dell’emancipazione della donna gioca nell’umanità un ruolo simile a quello che ha la favola dell’airone nei bambini che circondano la bambinaia. Ogni bocca la ripete, fluisce da ogni penna, si rilassa in tutte le menti illuminate e le distoglie da altri pensieri, il suo battito vitale pulsa nei bisogni della società contemporanea, ma nella sua applicazione pratica essa rimane sempre “un po’ cieca e un po’ sbilenca”, e invece di spiegare le ali e alzarsi in volo con coraggio, continua il suo cammino a passi d’airone su un tavolo tremolante e traballante costruito delle più diverse opinioni, dei pregiudizi, delle paure di alcuni e delle esagerazioni di altri.
Al sentire l’espressione “emancipazione della donna”, gli occhi di alcuni si riempiono di immagini spiacevoli, spesso ridicole, a volte molto tristi. Ecco allora ad esempio che, in una stanza piena di una fitta nebbia di fumo di tabacco, appare sdraiata una donna leonessa, in una posizione di sfida, con in mano un sigaro o una pipa, che bestemmia con fragorose risate quanto di più sacro vi è nel mondo. È immersa in un’atmosfera da corpo di guardia, le sue parole sono piene del cinismo dei Parny e dei Diderot, il disordine è incarnato nei suoi movimenti, ma comunque questa donna alza la testa con orgoglio ed esclama “sono emancipata!”. O ancora una signora capricciosa e viziata, vuota, che spinta da una follia momentanea o da una fantasia originatasi nella pigrizia, rompe i legami familiari, rinuncia agli obblighi di moglie, madre e cittadina e senza altre ragioni se non l’immaginazione infastidita e viziata dall’ozio e dalla lettura di romanzi ardenti, si getta in un mondo di scandali e alla domanda su cosa sia e cosa faccia, risponde “sono una donna emancipata!”. Oppure ancora, seduta su un moderno divano come l’antica Pizia sul treppiede, sta una donna pseudo-intellettuale, una donna che in francese si chiamerebbe bas bleu, impone il silenzio con la sua voce piena di saggezza pretenziosa. “Tacete tutti, parlo io. Ascoltatemi, perché soltanto io, tra voi, sono intelligente. Perché io ho letto Bacon, Cartesio, Leibnitz, Kant, Hegel e compagnia cantante. Perché io vi parlo di economia politica, filantropia, idealismo, materialismo, realismo e così via. Quante cose capisco, quanti termini altisonanti e vocaboli accademici posso sciorinare per tutti voi e per me stessa, quanti concetti sani e contenuti razionali, non è un vostro problema. Sappiate solo che, proprio come i fondali scenografici arrotolati nei teatri, ho in testa enormi riserve di mari e orizzonti, giardini e quartieri, città e palazzi, che posso dispiegare per voi a piacimento. Quando le luci delle mie sale si spengono, i miei mari e i miei orizzonti, immobili e inutilizzati, come i fondali teatrali alla fine di uno spettacolo, si arrotolano e vanno a dormire nella mia testa. Ma nel frattempo voi, miserabili mortali, nel momento in cui mi degno di scendere a voi dalle mie altezze, guardatemi, ascoltatemi e ammiratemi.”. Così parla la donna sapiente, avvolta nella toga come un antico romano, con solennità e gravità olimpica. Intorno a lei si diffonde un’atmosfera di noia e superbia, e lei, quando le viene chiesto quale sia il suo ruolo su questa terra, quali siano i suoi compiti e i suoi doveri, risponde “sono una donna emancipata”.
Non c’è da stupirsi, in presenza di tali immagini generate dalla fantasia umana, che l’espressione “emancipazione della donna” suoni nelle orecchie delle persone inequivocabilmente come una mancanza di decenza, come disprezzo delle responsabilità familiari e come eliminazione della più soave tra le virtù, ovvero la semplicità, e che il solo menzionare tale “emancipazione” generi sorrisi beffardi e severi rimproveri anche dalle menti più illuminate e progressiste. E alcune illogiche fanatiche, perdutamente innamorate del suono di questa parola di cui non comprendono i contenuti, hanno portato indietro di molti anni il progresso dell’idea col cui vessillo vogliono coprire le loro stravaganze viziose e ridicole. Per un’idea che si è appena generata nel grembo dell’umanità e fatica a stabilirvisi, nulla è più disastroso che gettarle addosso un’ombra di ridicolo. E il concetto di emancipazione della donna è stato proprio coperto di ridicolo: leonesse che fumano la pipa e bestemmiano come i cinici, antiche pizie con orizzonti che si arrotolano e si spiegano nelle loro teste e altre simili immagini fuorvianti di rappresentanti e apostole di questo concetto. Non c’è dunque da stupirsi che il grande pubblico si allontani dall’idea di emancipazione della donna, ma bisogna credere che la verità possa essere separata dalla menzogna, la ragione dallo scherno, la vera luce che si diffonde sul mondo per correggere il male dagli scherzi, o persino dai crimini della stupidità e della debolezza umana.
Guardiamo la moltitudine di miserie morali e materiali che funestano metà delle società umane, le menti appassite nella vanità e i cuori delle donne ricche deteriorate dall’ozio, i volti pallidi e bisognosi e le forze morali delle donne povere che temono per il proprio futuro e, lasciando perdere le leonesse e le pizie, che sono sempre più rare al giorno d’oggi, consideriamo se un’emancipazione della donna correttamente compresa e messa in pratica non sia in grado di prevenire o al meno in parte ridurre queste esistenti e innegabili miserie e disgrazie che ancora appaiono davanti ai nostri occhi.
La parola è semplicemente un’enfasi dell’idea: se esiste, deve esistere nella società un concetto che le abbia dato una ragione d’essere. Ogni concetto nasce dal grande respiro che scorre dal grembo dell’umanità, quando l’umanità desidera o necessita di qualcosa e si sforza di realizzare tali desideri e soddisfare tali bisogni. L’espressione “emancipazione della donna”, dunque, trae origine dall’idea che esiste nell’umanità il bisogno di liberare le donne da un giogo, un vincolo che le tiene legate.
Qual è il giogo che le donne devono togliersi di dosso? Di quali anelli sono fatte le catene da cui desiderano liberarsi? Tale giogo dovrebbe forse essere, come si pensava in passato, la tirannia degli uomini, quegli uomini crudeli che impongono alle donne il proprio brutale primato col potere della forza fisica? Così si diceva un tempo, ma oggi anche questa immagine allucinata della tirannia dell’uomo sulla donna ha vissuto la stessa sorte dell’ “airone dalle gambe lunghe”. È venuta a noia a chi l’ha ascoltata e tutti hanno perso interesse nei suoi confronti. Al giorno d’oggi, ogni uomo assennato e anche ogni donna assennata sanno bene che questo genere maschile crudele, una volta tanto famigerato, è esso stesso un comune insieme di persone in cui c’è di tutto, grandi e piccoli, cattivi e buoni. Ogni persona dotata di senno oggi sa che, almeno nella classe delle menti illuminate, gli uomini non sono affatto tiranni nei confronti delle donne, e se trovassimo tra di essi qualche seguace del crudele Barbablù che abbia dato tormenti così terribili alle proprie mogli, è anche vero che esistono signore rappresentanti del gentil sesso che hanno le pantofole ferrate, quelle di cui si scriveva che “si fanno portare a spasso i cagnolini dal marito”.
Se allora la tirannia dell’uomo sulla donna non esiste se non in via eccezionale, quale giogo grava sulle donne? Che sia forse la loro vita familiare? Che siano forse gli obblighi e le fatiche della quotidiana vita domestica? Ma la vita familiare è la pietra angolare dei costumi, su cui si fonda la struttura dell’ordine sociale e della moralità pubblica, è il cantuccio silenzioso e sacro nel quale la donna trova rifugio dai tormenti del mondo, che subirebbe necessariamente, se fosse sola: la vita di famiglia è per la donna la fonte di gioie ardenti e innocenti, è un percorso nel quale, quando si stancherà e vacillerà, ci sarà sempre un’amorevole mano maschile a sorreggerla e troverà sempre sollievo e ristoro nel sorriso di un bambino, e in una dolce ninna nanna cantata sulla sua culla. Senza famiglia non è possibile una società giusta e illuminata, senza famiglia, non esistono mariti che fin dall’infanzia crescono imparando la virtù e l’amore per la patria, non esistono mogli educate fin dall’infanzia ai sentimenti umani e civili. Nella famiglia risiedono i doveri più importanti, i compiti più elevati e la felicità più pura per una donna. Dov’è allora questo giogo? Dove sono queste catene che tengono le donne legate, dal momento che né la tirannia degli uomini, che non è più di attualità, né i sacri e piacevoli doveri della vita familiare possono essere considerati tali? Eppure nell’umanità esiste un’idea secondo la quale le donne hanno bisogno di emanciparsi da alcune costrizioni che non permettono loro di diventare ciò che potrebbero e dovrebbero per il bene loro e della collettività.
Nel mondo esistono famiglie nelle quali viene al mondo un bambino molto bello, ma debole e fragile. I genitori contemplano con gioia le sue guanciotte bianche, e guardando il suo aspetto così fragile e debole, lo inondano di carezze e teneri ammonimenti, non gli permettono di fare nemmeno un passo solo con le sue forze, lo proteggono dai raggi del sole e dall’aria fredda. Soltanto i cibi più raffinati, ma meno nutrienti, e i malsani dolci hanno per lui un qualche sapore, ninnoli e sonaglini sono per lui quanto di più attraente esista; questo bambinello fragile e bellino deve pensare solo a divertirsi, non deve lavorare mai! Mai, perché il lavoro fa anche male alla salute, fa venire la gobba e le rughe. Che se ne fa un bambino così bello di qualità interiori? Un bell’aspetto gli sarà sufficiente per deliziare tutti e gli aprirà tutte le porte nella vita. Perché far lavorare un bambino così debole? Ha fratelli forti, lavoreranno loro per lui. Così l’amato bambinello cresce, e tra le carezze e la sua scarsa forza fisica, circondato da ninnoli e sonaglini, con tutti che lo chiamano angioletto, divinità, gli dicono che è la cosa più bella che sia stata creata in natura, invece di diventare più forte, si indebolisce ancora di più, diventando una creatura vuota e inetta, senza più nulla di umano tranne l’aspetto esteriore. A chi non è mai capitato di vedere nel mondo moltitudini di bambini altrettanto amati e viziati?
La donna è come il bambino bello e viziato della società. È venuta al mondo così bella e fragile e mamma società ha fatto con lei quello che i genitori più irragionevoli fanno al loro dolce figlioletto, ha indebolito il suo vigore fisico a forza di carezze e ha inquinato la sua fibra morale con l’ozio e i gingilli. A volte le donne negano a torto di essere debilitate dalla società; certo, sono oltremodo viziate e esaltate, l’unica cosa è che un’esaltazione così unilaterale e sconsiderata è quanto di peggio esista per loro, perché le eleva a sfere angeliche e non insegna loro le vie umane, perché fa sì che le persone chinino la fronte al cospetto della loro bellezza, ma annienta il loro lato umano, che potrebbe davvero renderle forti e orgogliose.
In questo sta la chiave che svela il mistero dietro l’espressione “emancipazione della donna”. Emancipazione non dalla crudele tirannia degli uomini, non dai sacri obblighi della vita familiare che portano felicità, non dalla decenza e dalla semplicità; ma dalla debolezza fisica non naturale che le è stata imposta, dalla mancanza delle forze morali necessarie a una vita sensata e indipendente, dalla maledizione che l’ha relegata a una condizione di eterna creatura infante e angelica, dal dover cercare il proprio pane quotidiano nelle mani altrui, dal fatto che ogni strada a lavori utili e seri le viene preclusa.
L’articolo è frutto di una collaborazione tra me, G.S., e Julia Stępińska. Lei aiutava me a districarmi tra le insidie del testo polacco, io a dare forma ai suoi pensieri in italiano.
Bibliografia:
Anja Lange, Olha Kobylianska and Eliza Orzeszkowa: two women, one idea, in: “Studia Humanistyczne AGH”, vol. 12, Kraków, Wydawnictwa Akademii Górniczo-Hutniczej w Krakowie, 2013.
Eliza Orzeszkowa., Kilka słów o kobietach, Lwów, A. J. O. Rogosz, 1873.
Eliza Orzeszkowa, Marta, Lwów, Księgarnia Wilhelma Zukerkandla, 1907.
Marta Sikorska-Kowalska, Warunki rozwoju polskiego feminizmu na przełomie XIX i XX wieku, (Condizioni di sviluppo del femminismo polacco a cavallo tra il Diciannovesimo e il Ventesimo secolo), in “Fabrica Societatis”, No. 2, pp. 143-159, 2019 (ultima consultazione: 17/03/2021). www.fabricasocietatis.uni.wroc.pl, DOI: 10.34616/fs.19.2.143.159.
Apparato iconografico:
Foto 2: lo scatto è stato concesso dall’autrice Natalia Wojtyra.