Claudia Deretti
La prosa di Hemon vale una sosta, il dubbio che dietro all’ironia o la naturalezza si nascondano allegorie dal retrogusto amaro. Un lettore medio che chiude questo libro può percepire nettamente la sensazione di confusione: le date e gli avvenimenti storici saettano pagina dopo pagina, e l’impressione è quella di essere un cane randagio uggiolante che cerca di evitare i pestoni dei passanti. O forse il passante è proprio lui, il lettore, che ha rubato a quelle righe grappoli di ricordi dolorosi.
Aleksandar Hemon è di origini ucraine, nato nel 1964 in Bosnia a Sarajevo ma rimasto bloccato con lo scoppio della guerra a Chicago negli Stati Uniti, dove si è stabilito poi a vivere. Tra il 1992 e il 1995 la Bosnia viene dilaniata da un tiro alla fune tra Serbia e Croazia, iscrivendosi nel panorama della dissoluzione jugoslava.
Questo è un romanzo che sembra sfuggire dalle mani, ripartito in sette sezioni dove il punto di vista viene strappato a turno da personaggi diversi. In “Pasqua Ebraica” (anno 1994) il protagonista principale, Jozeph Pronek, viene ritrovato per caso da un vecchio compagno d’infanzia in una scuola di inglese di Chicago. Infanzia, adolescenza e giovinezza di Pronek vengono narrate in “Yesterday” (19671992) da questo stesso amico. Il 1992 è l’anno in cui viene ufficializzata l’indipendenza della Bosnia ed il ritiro delle truppe della JNA (Jugoslovenska Narodni Armija), ma l’esercito rimane sul territorio cambiando semplicemente nome. Alla ricerca di un’adultità consistente in un mondo che sta perdendo i suoi fulgori adolescenziali, poche decise pennellate dipingono i giovani jugoslavi degli anni ottanta, in fondo per nulla diversi dai loro coetanei europei. “Nowhere man, non è un po’ come me e come te?” suonano i Beatles dagli stessi EP consumati.
È nella terza sezione, “Fatherland” (Kiev, agosto 1991) che ci è permesso di liberare uno sguardo indiscreto sulla vita di Pronek attraverso quello del compagno di stanza Victor Plavčuk. La personalità dell’autore tracima dalle vicende e si incarna nel racconto poco a poco con una sottigliezza inusuale, una sorta di microscopico sassolino nascosto che rende scomodo il cammino e necessario avanzare con i sensi tesi. Corre di fianco ai due amici mentre scappano ammanettati per le foreste ucraine, coglie di sorpresa un bacio rubato nella confusione della folla. Le stesse labbra di Victor che hanno baciato quelle calde di Pronek, in un gesto intimo, dolorosamente perfetto, sigillano più tardi l’estremo saluto a quelle fredde del padre morto prima che Victor tornasse: “Adesso so quand’è che uno è vivo e quando è morto” (p. 132).
Il tempo accelera e si riavvolge senza preavviso, dai diciotto ai ventiquattro anni di tempo ne passa “un sacco“. Immersi nel panorama di un’Ucraina antica e impolverata, Hemon mira direttamente al nervo sepolto che riconosce e collega la fibra dei ricordi al cervello, alla memoria. Il parlato secco di Pronek agisce sul malessere dell’incomunicabilità legando il lettore a doppio filo, stordito dalle date stranamente recenti, dagli avvenimenti concentrati in pochi anni. La lingua è un altro elemento conturbante che balena a più riprese. La goccia che farà esplodere Pronek più avanti è una correzione al suo modo di parlare, perché usa senza troppi ragionamenti grammaticali gli articoli determinativi e indeterminativi.
Nella quarta sezione “Tradotto da Jozef Pronek” (dicembre 1995) figura una lettera da Sarajevo di Mirza, con cui Pronek ha condiviso sogni e band adolescenziali. In una lingua ibrida Mirza racconta dell’assedio, non riesce a parlare d’altro. E’ tutto guerra, la guerra è tutto. “Vorrei tua lettera. Devi scrivere. Mandami libro.” La lotta alla sopravvivenza passa anche attraverso una breccia su un altro mondo, una pausa qualsiasi. “Leggo un po’ di inglese, magari un giallo, magari un libro su bambini. Vedi che sono un poco pazzo.“ (p. 138)
La quinta sezione si intitola “Il sonno profondo” (Chicago, 1 settembre 15 ottobre 1995). La guardia all’ingresso della pagina e della storia sta dormendo, Pronek la oltrepassa senza far rumore. Silenzioso il passato scivola nel presente, e il suono di una pistola graffiatrice trasforma un operaio in un killer di una dimensione parallela perduta. Ghiaccia il sangue nelle vene.
“Una volta che diventi sfollato, sei sempre sfollato. Essere uno sfollato significa che non c’è nessun posto dove tornare. Essere sfollati cambia la maniera in cui si concepisce ogni cosa: se stesso, la lingua, casa, il mondo, la giustizia e questo cambiamento nel pensare è irreversibile. Mi viene spesso chiesto se mi domando cosa sarebbe successo se fossi stato a Sarajevo durante l’assedio e la guerra. Lo faccio sempre, anche se so che non ha senso.” (A. Hemon durante un’intervista)
È sorprendente come questo scrittore sia in grado di mescolare perfettamente il suo vissuto al romanzo. Da ogni parola si percepisce tutta la pressione, come imbottigliata, di urlare il proprio “perché” in faccia al mondo. C’è un “io esisto” pressurizzato in ogni frase di Hemon. Forse finalmente è possibile dare un nome a quel fastidio insistente che si materializza fin dalle prime pagine: una solida rabbia. Impotenza davanti alla desolazione. L’onirismo del romanzo è una contromisura intellettuale proporzionata a una espropriazione geografica.
In “I soldati che arrivano” (Chicago, aprile 1997-marzo 1998) c’è finalmente spazio per l’amore Pronek inizia a lavorare per Greenpeace e conosce Rachel ma in fondo alla quinta sezione esplode la prima lite di coppia. E’ un alternarsi nella penombra della notte tarda tra il volto di Hemon e quello di Pronek, che sfoga per la prima volta la sua furia sugli oggetti reali, sensibili dell’appartamento di Rachel. Rachel esce dalla stanza con una macchina fotografica, scattando a raffica: “Che cosa ti ho fatto?”, chiede. Lo guarda, lo fotografa, ma non lo tocca. Lo lascia nel suo inferno senza punti di riferimento. È facile leggere tra le righe la polemica contro un’Europa che tratta la polveriera balcanica come un animale in gabbia senza darsi troppa pena di comprenderne la natura. Esotica, estirpata, filtrata e riprogrammata per adattarla ai gusti del nuovo pubblico ma incandescente scotta le mani dei lettori impreparati. In questo mondo parallelo non è possibile mentire. “Vuoi vedermi? Vuoi vedere il mio vero io?” (p. 223) Pronek si batte i pugni sul petto “come cercando di sfondarlo”. È un personaggio schietto, così trasparente da riuscire a far passare inosservato il fatto che stia camminando completamente esposto, il cuore a fior di pelle e il petto squarciato.
C’è una terza presenza nella stanza con Pronek e Rachel. Nessuno sa chi sia, non si presenta. Ma è sua la mano che carezza Pronek e raccoglie le sue lacrime, è lui che gli sussurra ne placi. Sve biti u redu. Non piangere. Andrà tutto a posto.
“Cerchiamo solo di sistemare quello che hai distrutto. Cerchiamo solo di ricordare com’è che siamo arrivati a questo punto. Proviamo solo a ricordare”. (p. 223)
Nowhere Man è un libro che lascia perplessi. E agitati. Il modo migliore per leggere un libro come questo è essere di rimando il più trasparente possibile. Tuttavia non è una trasparenza che manca di sostanza, forse il contrario: i dettagli nascosti nei singhiozzi della narrazione sono le briciole di pane che Hemon lascia al lettore, quelle che portano alla strada di casa. Non è mai ben tracciabile il suo confine sicuro, nei muri bucherellati dai proiettili di Sarajevo si può vedere da parte a parte. “La migrazione,” dice lo scrittore durante un’intervista :
“L’atto di spostarsi da un posto all’altro divide la vita in un prima ed un dopo. […] L’unità del tempo viene rotta, e anche l’unità dello spazio. […] Il modo in cui vivevamo a Sarajevo prima della guerra, eravamo tutti costantemente nello stesso spazio. Abbiamo una nozione di privacy completamente differente: mio padre, oggi, mentre sto lavorando al computer si sporge semplicemente al di sopra della mia spalla e legge le email senza la minima preoccupazione. […] Penso che sia questa rottura traumatica che rende del tutto impossibile sentirsi a casa, quel dividere la vita tra il prima ed il dopo ed il qui ed ora.”
Il filo invisibile che lega la storia di Aleksandar Hemon racconta della convivenza con la maledizione di aprire bocca e venire inquadrati non semplicemente per ciò che si dice, ma per come lo si dice. É il doppio fardello dello straniero. Ma proprio in questo sta il genio di Hemon: trapassare l’ostacolo anziché aggirarlo, e lasciare una granata nel petto di chi legge.
Bibliografia
Aleksandar Hemon, Nowhere man, Torino, Einaudi, 2004.
Sitografia
https://www.youtube.com/watch?v=ke_6wh8uwKo
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Balcani/Aleksandar-Hemon-il-continuo-fallimento-nel-diventare-Europa-199902
https://www.theguardian.com/books/2003/jun/28/featuresreviews.guardianreview18
Apparato iconografico
Immagine in evidenza: https://pen.org/pen-ten-aleksandar-hemon/
1. https://images.app.goo.gl/aEEeYDkpxJr1iY7MA