Il peso della memoria negli occhi verdi di Hanka in Arnošt Lustig

Linda Caregnato

La letteratura ceca vanta diversi scrittori di origine ebraica, Ota Pavel, Ivan Klíma (grande amico di Philip Roth) e Arnošt Lustig. Lustig è nato a Praga nel 1926 ed morto nel 2011. È uno dei tanti cechi ebrei a essere stato internato a Theresienstadt, una sorta di ghetto muragliato destinato proprio agli ebrei cechi. Questa “grande fortezza” viene chiamata anche Terezín e per alcuni anni venne usata con fini propagandistici dal partito nazista, facendo credere che tutti i campi di concentramento in cui venivano rintanati gli ebrei fossero così. Infatti, non si trattava di un campo di lavoro, bensì una città-ghetto con delle regole da rispettare, in cui le persone potevano però vivere abbastanza normalmente e mantenere le tradizioni ebraiche, anche se in spazi molto più ristretti delle reali possibilità date dalla struttura. A partire dal 1944, però, si abbandonò tutta questa costruzione manipolatrice e, per velocizzare lo sterminio degli ebrei, tutti gli “abitanti” di Theresienstadt furono deportati in veri campi di concentramento, soprattutto ad Auschwitz.

Lustig, invece, doveva essere trasportato a Dachau ma, grazie a una sommossa fatta dagli Alleati al treno, riuscì a scappare e tornò in Cecoslovacchia, prendendo parte alla resistenza contro i nazisti. Finita la guerra, studiò Giornalismo all’Università Karlová di Praga e nel 1948 partì per combattere a favore dell’indipendenza del nascente Stato d’Israele. Viaggiò in seguito in diverse parti del mondo, partendo e ritornando diverse volte in Cecoslovacchia, a causa dell’instabilità politica del Paese. Nel 1993 gli venne dato il passaporto ceco e Václav Havel lo nominò esponente di spicco della cultura nazionale. L’autore morì nel 2011, a 84 anni, a causa di un tumore ai polmoni.

Arnošt Lustig non ha scritto molti romanzi durante la sua carriera e l’unico a essere tradotto in italiano è Krásné zelené oči (“Nei suoi occhi verdi”, 2000), pubblicato dall’editore Keller nel 2014. Nel libro si parla di Hanka, una giovane ragazza ceca di 15 anni che, per salvarsi dal lager di Auschwitz-Birkenau, fingerà di essere di razza ariana per lavorare in un Feldbordell, un bordello di campo. Si tratta infatti di un vero e proprio bordello destinato ai soldati tedeschi cui è concesso approfittarsi della compagnia e dei corpi delle Feldhure, ovvero le prostitute del campo. Il libro è diviso in diverse parti, dove si alternano momenti della vita passata di Hanka (la vita spensierata con la sua famiglia e il periodo terribile passato in campo di concentramento, dove ha perso tutti i suoi cari) e della sua vita presente a Praga.

Ciò che è interessante in Hanka è la sua estrema passività di fronte agli avvenimenti tragici a cui assiste durante gli anni della guerra. Questo, però, non va interpretato come un’insensibilità da parte della protagonista, bensì come la ricerca continua di sopravvivere e di superare a quello che lei spesso definisce un “inferno sulla terra”. Hanka ha di sicuro una personalità enigmatica, l’esperienza della guerra e le sue orribili conseguenze le hanno lasciato una cicatrice ben più profonda di quella che le hanno tatuato sul polso (il suo numero di prigioniera) e sul ventre (Feldhure appunto, perché non dimenticasse il suo lavoro e per sancire la sua appartenenza al bordello, nel caso riuscisse a scappare). La ragazza, dopo la guerra, trova rifugio a Pécs, in Ungheria, a casa del Rabbino Gedeon Schapiro, fortunato superstite ad una fine certa. Infatti, è l’unico, tra i membri della sua famiglia, a non essere stato catturato, ed è anche l’unico a non essere morto. Il rabbino è tormentato da una fase in cui non crede più in Dio, in cui continua a farsi domande esistenziali su come sia potuto succedere che qualcuno abbia permesso che un intero popolo venisse martoriato e come si potesse permettere che una ragazza così giovane si prostituisse. Hanka, invece è tormentata dai sensi di colpa, soffre di una vera e propria sindrome del sopravvissuto perché avrebbe preferito morire lei al posto dei suoi famigliari e soprattutto perché, durante il periodo passato nel bordello, si sentiva continuamente osservata e giudicata dalla sua famiglia. Infatti, si colpevolizza di aver scelto la via della prostituzione per salvarsi, quando sarebbe stato meglio morire nel campo dignitosamente.

La ragazza abbandona il bordello il giorno in cui arrivano gli americani a liberare il campo di concentramento di Auschwitz. Viene trasportata dai soldati tedeschi ma riesce a scappare entrando in un treno merci, nascondendosi sotto a del carbone. Dopo la settimana passata dal rabbino Schapiro, torna a casa sua a Praga, dove però i fantasmi del passato non la lasciano vivere serenamente.

Quello che veramente impedisce ad Hanka di ricominciare a vivere è il peso della memoria. Vorrebbe dimenticare, odia ogni persona che incontra perché le vengono chieste informazioni sul suo passato, ma è lei stessa a non riuscire a lasciare andare ciò che ha vissuto. Sogna di uccidersi, sogna di ritrovarsi di nuovo in circostante intime con l’ufficiale Sarazin, un uomo che l’ha tormentata psicologicamente. Sogna suo fratello che cresce e la sua famiglia che si riunisce.  Ma una mattina, quando si sveglia e passeggia per Praga, si sente libera, perché non deve più mostrare il suo corpo, né stare attenta alle sue parole per non tradire la sua origine ebraica. Hanka, alla fine, riesce a trovare l’amore, che sa sempre di libertà.

Il peso della memoria significa non poter dimenticare e fare in modo che anche le generazioni future non dimentichino ciò che è stato. In un articolo scritto da Rosa Montero per “El País” il giorno 10 maggio 2020, la giornalista scrive:

“C’è un paragrafo emozionante dello scrittore ungherese Imre Kertész, premio Nobel della Letteratura, che tormenta la mia testa da quando l’ho letto. Kertész fu incarcerato a 15 anni nel campo di sterminio di Auschwitz; molto tempo dopo, ricordando quell’esperienza terribile, scrisse: «Malgrado la considerazione e il sentire comune, non potevo ignorare un desiderio sordo che era scivolato dentro di me, vergognosamente insensato e tuttavia così ostinato: volevo vivere ancora per un po’ in quel bel campo di concentramento.» Una frase trivellante, illuminante: quell’adolescente era così pieno di voglia di vivere che finì per abituarsi all’inferno.”

Come afferma Kertész, le sue parole potrebbero non essere condivise eppure è proprio questo “cercare di adattarsi” comune che è, forse, la vera chiave della salvezza e non importa con quali mezzi si riesca a sopravvivere, l’importante è uscirne vivi. Hanka è un personaggio immaginario ma è naturale pensare che un simile peso sia stato sopportato da moltissime persone reali che, dopo la guerra, hanno dovuto ricominciare daccapo una vita che prima era stata interrotta e in cui si veniva accusati del male del mondo, quando il vero male del mondo era pensare di distruggere un’intera “razza”, usando metodi orribili.

La speranza è sempre quella che la Storia insegni qualcosa alle persone, perché il peso della memoria riguarda tutti, indipendentemente dalla nazionalità e della generazione, perché abbiamo tutti il dovere di tramandare il peso che ha avuto la Storia sulle vicende comuni e su quelle individuali anche se non ci riguardano direttamente.

 

Bibliografia:
Arnošt Lustig, Nei suoi occhi verdi, Rovereto, Keller, 2014.

Sitografia:
https://elpais.com/elpais/2020/05/06/eps/1588784450_031868.html (Traduzione realizzata per l’occasione da me, L.C.)

Apparato iconografico:
Immagine 1: http://www.stylenew.cz/srdecni-zalezitost-terezy-pokorne-arnost-lustig/