Sara Deon
“Il Trinity test romba nel cielo, inizia l’Antropocene.
C’è qualcosa di nuovo sotto il sole.”
(p. 87)
Lo scorso gennaio, Del Vecchio Editore ha pubblicato in Italia il romanzo d’esordio della scrittrice ungherese di Transilvania Zsuzsa Selyem Piove a Mosca (“Moszkvában esik. Egy kitelepítés története”, 2016) nella traduzione di Andrea Rényj. L’opera ricostruisce la storia transilvana del secolo scorso, dalle persecuzioni, la nazionalizzazione delle proprietà e l’esilio, fino alla caduta del regime di Ceaușescu. Ma la peculiarità del romanzo di Selyem sta soprattutto nella decentralizzazione da una narrazione antropocentrica e nell’adozione di un punto di vista straniante, che segue lo sguardo e la voce narrante di animali e piante per raccontare il trauma storico e politico, l’impatto umano e ambientale, in una narrazione corale post-umana che pone al centro della sua osservazione le vicende del secolo scorso tra Ungheria e Romania.
Link al libro: https://www.delvecchioeditore.it/prodotto/piove-a-mosca/
L’esordio di Zsuzsa Selyem si presenta al lettore come un’opera che sfida le strutture narrative convenzionali, per raccontare una storia familiare intrecciata con le grandi trasformazioni storiche e ambientali del XX e XXI secolo. Il romanzo segue la storia di István Beczásy e della sua famiglia, che ha vissuto in una regione segnata da continui cambiamenti geopolitici e che l’uomo, ormai ultranovantenne, inizia a raccontare per la prima volta alla nipote Zsuzsa Selyem. Il racconto del nonno, che viene registrato mentre ricostruisce fatti e ricordi in maniera disordinata, è l’unica opzione che Zsuzsa ha a disposizione per ricomporre la storia della sua famiglia, dopo che la madre e la zia hanno disatteso la stessa promessa – una perché veniva colta da singhiozzi inarrestabili, l’altra per amnesia. Nel corso del Novecento il territorio di Háromszék passa più volte sotto il controllo di Ungheria e Romania, influenzando profondamente il destino della famiglia e costringendola a confrontarsi con la violenza e l’arbitrarietà del potere politico. La narrazione non è lineare, procedendo invece per frammenti non sequenziali, saltando tra epoche e punti di vista, mettendo in discussione il concetto stesso di memoria e identità storica.
L’autrice, infatti, esplora in profondità il tema della memoria collettiva e personale. Nel romanzo si alternano episodi che raccontano momenti di resistenza e di adattamento, tra cui la persecuzione politica subita dalla famiglia Beczásy attraverso la sua polizia segreta, che sottopone István Beczásy e i suoi cari a torture e vessazioni, e a sopportare la perdita della loro libertà e gli espropri. Tuttavia, nonostante i tentativi di rimozione da parte dello Stato, la memoria della famiglia sopravvive, seppure frammentata e poi ricostruita attraverso le generazioni.
L’aspetto più interessante del romanzo risiede però nell’utilizzo dei punti di vista: infatti, Selyem ricorre a un approccio sperimentale, dando voce non solo agli esseri umani ma, soprattutto, ad animali, piante e oggetti, creando un mosaico di prospettive che sfidano il tradizionale antropocentrismo. Questa pluralità di voci umane e non-umane permette a Selyem di raccontare la storia della famiglia Beczásy attraverso una lente più ampia, che non solo documenta eventi storici e politici, ma invita anche a una profonda riflessione sulla relazione tra l’uomo e l’ambiente. In questo legame si inserisce il tema dell’Antropocene, ossia l’epoca geologica attuale in cui l’attività umana ha modificato radicalmente l’ambiente terrestre. Il tema risulta essere sempre più centrale nella letteratura contemporanea degli ultimi anni, tanto che un’operazione simile a quella di Selyem si può ritrovare anche in altri due romanzi contemporanei di area europea: Nella quiete del tempo (“Prawiek i inne czasy”, 1996) della polacca Olga Tokarczuk, e Io canto e la montagna balla (“Canto jo i la muntanya balla”, 2019) della catalana Irene Solà.
Come Tokarczuk e Solà, Selyem utilizza le voci animali e vegetali per mostrare il mondo da una prospettiva diversa, smascherando l’arroganza umana e suggerendo la necessità di ripensare il rapporto tra uomo e natura. Il tempo degli uomini è inimmaginabile per un giovane merlo che osserva un uomo – il vecchio Beczásy -, ma è estremamente limitato rispetto a quello dell’abete canadese che offre riparo a entrambi e che può arrivare anche a ottocento anni, “quasi da non credere, una vita lunga come le vite sommate di cinquanta merli” (p. 21).
Il capitolo con cui si apre l’opera, intitolata “Caccia 1947”, è uno dei pochi frammenti non narrati da un punto di vista animale, ma la componente non-umana è centrale fin dalle prime pagine, fungendo da spia per il nucleo tematico dell’intera opera. László Luka è il ministro delle finanze del governo comunista rumeno nell’anno introdotto dal titolo, e insieme ad alcuni commilitoni sovietici si reca presso la residenza estiva dei Beczásy per una battuta di caccia alla lepre. La descrizione della caccia, della fuga terrorizzata delle lepri e della loro mattanza crea un ovvio parallelismo con l’esperienza della Seconda Guerra Mondiale, mentre nella disumanizzazione degli animali da parte dell’uomo riecheggia la stessa violenza di cui è stato capace nei confronti dei suoi simili.
“Allo strepito dei fucili le lepri sbucavano come pazze una dopo l’altra, i due ministri miravano a più non posso e i cani riportavano la preda. A Luka girava già la testa, si asciugava la fronte, si guardava intorno, vedeva gli animali abbattuti e stesi in file ordinate, gli occhi spalancati sembravano aver capito tutto, tutto ciò che nel mondo significa essere orfano, e Luka dovette chiudere gli occhi perché vedeva quegli stupidi moldavi stesi in fila a Fehérkút, quelli che credevano che sventolando una bandiera bianca e brandendo qualche croce di legno, dall’Unione Sovietica avrebbero potuto passare, come le lepri, in Romania.” (p. 14)
Nel finale del frammento, davanti alle rovine della cena a base di lepre, la figlia di nove anni dei Beczásy, Liliann, osserva con stupore la scena dalla soglia della porta. Come già il piccolo Useppe ne La Storia (1974) di Elsa Morante, non stupisce che i bambini godano di un punto di vista privilegiato e più empatico nei confronti degli animali, cogliendo le contraddizioni del mondo degli adulti e il loro desiderio di sopraffazione e dominio. Liliann, infatti, osserva i corpi spolpati delle lepri a cena e in quella scena legge l’intero secolo passato, vi scorge anche ciò che avverrà in futuro, accomunato dal suo desiderio oltranzista di violenza di Stato e individuale. In questo destino ineluttabile, l’uccisione degli animali è contigua con quella degli umani.
“[..] vedeva la caccia alla lepre di quel giorno, ogni singola lepre separatamente, vedeva morire di fame i leprotti orfani, vedeva altre cacce, ai caprioli, alle volpi, ai cinghiali, ai cervi, vedeva il dittatore sparare agli orsi nelle mangiatoie, vedeva sua madre immersa nell’acqua fino all’altezza delle cosce mentre tagliava il riso, vedeva suo padre picchiato a morte dalla Securitate, vedeva suo padre ottantunenne dritto come un fuso uscire in strada nel dicembre del 1989 durante la rivoluzione, vedeva il dittatore in fuga come un animale selvatico cui si dava la caccia, che poi sarebbe stato ucciso come un cane a furia di colpi di arma da fuoco e vedeva che tutto era colmo di gioia e di dolore.” (p. 19)
Selyem sembra volere trasmettere al lettore l’idea che, oltre alla reticenza di una memoria collettiva e individuale segnata da traumi, tragedie e rimossi, vi è una memoria terrestre, legata a cicli circadiani differenti. La terra, gli alberi, gli animali ricordano, e la loro memoria, anche se spesso ignorata, continua a esistere come un’eco persistente delle azioni umane. Una mosca narra il processo rivoluzionario del 1945 contro István Beczásy, osservando con distaccata ironia l’accusa di “parassitismo” mentre essa stessa è un vero parassita. Il cane, Lux, racconta la notte del 1949 in cui la famiglia Beczásy viene espulsa dalla propria casa, assistendo impotente alla scena con la fedeltà e il dolore tipici degli animali domestici. Un gatto riflette sulla natura umana, criticandone la frenesia e l’incapacità di vivere nel presente, suggerendo che gli uomini dovrebbero meditare e stiracchiarsi di più. Una zanzara, nel 1952, racconta con distacco le torture subite da István in un campo di lavoro, vedendo gli uomini solo come “nutrimenti”, un punto di vista che riconferma come ineluttabile e circolare il ciclo di violenza.
Con questa fusione di storia, ecologia e sperimentazione narrativa, Zsuzsa Selyem consegna un romanzo straordinario che si colloca tra le opere più interessanti della letteratura contemporanea sull’Antropocene. Piove a Mosca non è solo un racconto sulla fragilità della memoria umana, ma una riflessione radicale sulla possibilità di ascoltare altre forme di esistenza, abbattendo il confine tra l’umano e il non umano. Selyem invita il lettore a cambiare prospettiva, a interrogarsi su chi siano i veri protagonisti della storia e su cosa significhi, ancora oggi, abitare un tempo e una terra in crisi.
Apparato iconografico:
Immagine copertina: https://www.abirpothi.com/leonora-carrington-surrealism-and-the-wild-dreams-of-an-artist/
Immagine 2: https://www.bompiani.it/catalogo/nella-quiete-del-tempo-9788830110281
Immagine 3: https://blackie-edizioni.it/products/io-canto-e-la-montagna-balla