Marco Jakovljević
Abstract:
“A Minuet for Guitar”: Vitomil Zupan’s Partisan Anti-hero
This paper analyses Menuet za kitaro (“A Minuet for Guitar”, 1975) by Vitomil Zupan (1914-1987), widely considered as one of the most acclaimed Slovenian authors of the twentieth century. This novel offers a reinterpretation of Zupan’s experiences as a Yugoslav partisan during the Second World War. Upon its publication, A Minuet for Guitar’s reception was controversial. While hailed as a masterpiece of contemporary Slovenian and Yugoslav literature, its unconventional portrayal of partisan warfare challenged the idealised narrative promoted by Yugoslav propaganda and official culture, which depicted the partisans as untouchable and unquestionably heroic. Jakob Bergant “Berk,” Zupan’s alter ego in the novel, is portrayed as a womanizer and a dandy who, although genuinely believing in the partisan cause, initially approaches the war with a degree of detachment. Berk’s character undermines the Yugoslav myth of the heroic and morally superior partisan. The aim of this paper is to analyse Zupan’s unusual portrayal of partisan warfare in Slovenia, where the Yugoslav partisans are portrayed not only as disillusioned and fatigued, exactly like their German opponents, but also as sometimes immoral and cruel warriors.
La Seconda guerra mondiale e la lotta partigiana furono gli eventi principali per il nuovo regime socialista di Tito per legittimarsi e, soprattutto, per rinforzare e mantenere viva la memoria collettiva dei popoli jugoslavi. La lotta eroica contro gli invasori nazi-fascisti e contro i collaborazionisti e la liberazione erano il leitmotiv della narrazione ufficiale del partito, una costante nei libri di scuola, nei discorsi e, soprattutto, nel cinema. Nel glossario sulla cultura popolare ex-Jugoslava Leksikon YU mitologije (“Lessico della mitologia jugoslava”, 2004) il critico cinematografico sloveno Marcel Stefančič Jr. ha definito i film sui partigiani il dono della Jugoslavia alla cultura pop europea.
Questo tipo di film fu la risposta jugoslava ai popolarissimi western e pare che lo stesso Tito, amante del genere e ispiratosi ad esso, avesse ordinato la produzione di colossal partigiani (Vučetić 2010: 130-137). Così, i migliori attori jugoslavi e occidentali invece che vestirsi da cowboy indossavano berretti con la stella rossa e intonavano canti di battaglia sulle montagne bosniache mentre combattevano i tedeschi. Tito teneva particolarmente alla rappresentazione dei partigiani e di sé stesso in questi film, da qui la presenza della crema del cinema hollywoodiano dell’epoca. Uno degli interpreti più celebri del Maresciallo fu, non a caso, Richard Burton in Sutjeska (“La quinta offensiva”, 1973) di Stipe Delić. Tito veniva mostrato come un geniale stratega e i partigiani come guerrieri fedeli e moralmente superiori, pronti a sacrificare sé stessi per il popolo e per i propri compagni. La guerra contro l’occupatore mostrata sul grande schermo era una guerra di tutto il popolo, che con fiducia si lasciava guidare dall’esercito di Tito. I partigiani si scagliavano coesi contro i brutali, ma non poco intelligenti nazisti, che spesso non potevano competere contro la forza morale degli jugoslavi. Pochissimi furono i film partigiani in cui la guerra veniva mostrata in maniera diversa, senza eroismo e senza moralismi. Degli esempi ne sono U gori raste zelen bor (“Sul monte cresce un pino verde”, 1971) di Antun Vrdoljak o Nasvidenje v naslednji vojni (“Arrivederci alla prossima guerra”, 1980) di Živojin Pavlović. Proprio quest’ultimo è liberamente ispirato ad un romanzo, tra i più importanti e controversi della letteratura slovena contemporanea, che distrusse apertamente i canoni narrativi sulla guerra di liberazione dal nazifascismo e il cui autore era una figura tutt’altro che tipica all’interno della cornice letteraria jugoslava del periodo: Menuet za kitaro (“Minuetto per chitarra”, 1975) di Vitomil Zupan.
Vitomil Zupan, reduce della guerra partigiana e del campo di concentramento di Gonars, nonostante i suoi trascorsi bellici non era affatto un favorito del regime. Dandy e donnaiolo sia in tempo di pace che in tempo di guerra, sempre ben vestito e dall’animo bohémien e vagabondo – innumerevoli le esperienze lavorative in svariati luoghi d’Europa. Come ricorda nella postfazione dell’edizione italiana la stessa traduttrice, Patrizia Raveggi, Zupan era una personalità eccentrica e, per questo, emarginata nel nuovo sistema socialista. Nel 1949, due anni dopo aver vinto il prestigioso premio Prešeren per l’opera teatrale a tema Seconda guerra mondiale Rojstvo v nevihti (“Nascita in una tempesta”, 1945), venne condannato a diciotto anni di carcere – di cui ne scontò soltanto cinque – probabilmente per uno scherzo telefonico troppo spinto sul maresciallo Tito o su un’imminente invasione sovietica, ma ufficialmente per oltraggio alla corte, per condotta immorale, per tentato omicidio e per aver causato il suicidio di una sua ex amante. Tornato in libertà, continuò a scrivere, sotto pseudonimo, sia prosa che sceneggiature per il cinema e la televisione, vincendo due premi Župančič, per Potovanje na konec pomladi (“Viaggio verso la fine della primavera”, 1973) e Levitan (“Leviatano”, 1983) e un altro premio Prešeren (1984) per la sua carriera letteraria.
Menuet za kitaro è un romanzo di natura semi-autobiografica, in quanto l’autore ad inizio libro afferma che quanto narrato è una raccolta dei diari e degli appunti dell’ex partigiano Jakob Bergant (“Berk”), pur essendo evidente la somiglianza tra gli eventi mostrati e quelli realmente avvenuti a Zupan. Gli eventi hanno luogo in gran parte durante l’occupazione nazifascista della Slovenia e della Jugoslavia, più precisamente durante l’offensiva antipartigiana del 1943, e in parte nella Spagna del 1973, dove il protagonista incontra l’ex ufficiale tedesco Joseph Bitter in vacanza con la propria moglie, ai quali Berk mente sulla propria identità. È proprio durante le amichevoli conversazioni con Bitter che Zupan/Berk inizia un viaggio nei ricordi, ripercorrendo le tappe che hanno caratterizzato la propria esperienza come combattente. La guerra di Zupan/Berk è, tuttavia, poco avvincente. Non ci sono canti che intimoriscono il nemico, né il romanticismo della lotta per un futuro radioso, né, per gran parte della trama, sparatorie spettacolari e morti eroiche. “L’importante è raggiungere la vetta”, questo il leitmotiv che accompagna sia il lettore che il protagonista durante il lungo viaggio verso i colli della Bassa Carniola, dove all’inizio della narrazione Berk si dirige insieme ad altri Lubianesi per raggiungere i partigiani. Questo viaggio si rivela essere lungo e perlopiù noioso. Durante il corso di tale viaggio gli aspiranti partigiani sono principalmente concentrati nel cercare qualcosa da mangiare e nel sedurre la ragazza che è con loro nel gruppo, che poi finisce per passare la notte proprio con Berk, interrompendo il viaggio, mentre tutto il resto del gruppo continua la marcia.
Il continuo camminare, spesso per gli stessi luoghi, è ricorrente nella narrazione ed è un palese mezzo dell’autore per trasmettere non solo la monotonia, ma anche sul perpetuo ripetersi delle guerre (Bošković 2003: 278-269). Quest’ultimo concetto è espresso dall’interlocutore di Berk, Joseph Bitter, durante uno dei dialoghi tra i due:
“«Ma com’è che la Germania aveva programmato di occupare tanti territori stranieri?» gli ho chiesto.
Ah, ma tutti gli eserciti della storia lo fanno; solo che più ci si allontana nel tempo più si dimentica. Lei pensa che i greci siano salpati per l’Asia minore a causa di una donna? Ci sono periodi poi in cui le guerre eruttano come colate di lava; e allora l’onda tracima sui paesi come li conosciamo adesso. I romani, i cartaginesi. Ancor prima Alessandro il Grande. I francesi con Napoleone. E che cosa andavano a cercare gli spagnoli in America?” (Zupan 1975: 270)
Quando Berk finalmente arriva a destinazione, viene messo in una stanza sotto osservazione da parte di un commissario politico, che fa immediatamente capire al protagonista di non essere ben visto dagli alti comandi per via della propria condotta poco consona alla vita militare, all’onore partigiano. Anche il commissario politico si presenta ciclicamente in camera, ammonendo Berk e mettendolo costantemente sotto pressione. In questo modo viene palesemente meno l’immagine dei partigiani coesi e guidati dalla fiducia reciproca. Che sia per provare la propria fedeltà al Fronte di liberazione sloveno – ovvero ai partigiani comunisti –, per scongiurare infiltrazioni nemiche o per assumere posizioni di potere eliminando elementi scomodi, i partigiani di Zupan sono sovente tesi e sospettosi.
Tuttavia, ciò non significa che Menuet za kitaro non preveda elementi di cameratismo. I compagni di lotta di Berk, quest’ultimo compreso, sono accomunati dalla guerra. In questo modo, inoltre, l’intimità e le vite di un singolo combattente sono legate a quelle dei suoi commilitoni (Lesar 2024: 20). In questo ambiente per natura ostile all’individualismo – ostilità accentuata dalla stessa ideologia profondamente anti-individualista dei partigiani jugoslavi – Berk rimane fedele alla propria personalità, nonostante le atrocità a cui assiste e alla perdita di vari amici e commilitoni.
L’antieroe di Zupan parte per la guerra di propria iniziativa, carico di vitalità ed entusiasmo, come se si stesse recando ad una gita (Lesar 2024: 18). La lotta principale di Berk non è quella contro i nazisti o i fascisti, bensì contro il sistema di cui ha scelto di far parte. Sistema che il protagonista almeno parzialmente accetta come giusto e destinato a vincere:
“Tutti siamo molto ‘dei nostri’, tutti possediamo dei meriti per quanto abbiamo fatto per la nostra causa. Adesso stiamo andando là, dove ci saranno consegnate le nostre splendenti decorazioni. Probabilmente a ognuno verrà consegnato in premio un bel castello. Dove aspetteremo la fine vittoriosa della guerra; fine che non è così lontana. L’Italia ha già capitolato.” (Zupan 1975: 30)
Dalle parole di Berk/Zupan sono evidenti non solo il narcisismo e il leggero materialismo del protagonista – che già sogna “splendenti decorazioni” e premi per aver vinto la guerra –, ma anche uno spiccato sarcasmo. Berk non è un guerriero illuso, anzi, questo suo distacco dall’euforia partigiana lo rende molto più realista di altri suoi commilitoni. Egli non crede realmente alle promesse di un futuro radioso, né disumanizza il nemico. Berk è conscio dell’ironia brutale della guerra che rende gli stessi partigiani – i giusti – degni di freddezza e di crudeltà:
“Qui invece è di sentinella per esempio il soldato tedesco mobilitato Franz Böhm. Bisogna sgozzarlo in silenzio, perché non metta in allarme il distaccamento che stiamo per attaccare. Franz Böhm è un calzolaio, ha moglie e tre figli, di natura è gioviale, il sabato gli piace alzare un po’ il gomito. E così via. Ci metteremo a riflettere sulla sorte dell’individuo, sull’assurdità della guerra, sull’ingiustizia che sta per subire Franz Böhm, sulle nostre mani insanguinate? No. […] Ma Franz Böhm non è importante. Importante è che forse dobbiamo diventare assassini dentro di noi, prima di andare a uccidere, altrimenti saremo uccisi noi.” (Zupan 1975: 75)
Sfuma, così, la divisione netta voluta dall’ideologia tra i “nostri” e i “loro”. Berk/Zupan indaga su questa dicotomia dialogando con Bitter, il proprio ex-avversario, ufficiale della Wehrmacht che ora assieme alla moglie si gode le proprie vacanze in Spagna. Il protagonista si informa sull’esperienza del proprio interlocutore in Jugoslavia, accettando quella che può essere una dura realtà per un partigiano, per un vincitore della guerra, ovvero che il Fronte di liberazione altro non era che un esercito male addestrato e male armato, assai meno temibile di quanto la propaganda jugoslava volesse far credere. Lo stesso narratore ribalta la retorica sulla guerra partigiana, mostrando azioni male organizzate e, quindi, fallimentari che portano ad un inutile bagno di sangue o morti causate dall’uso scorretto di un fucile da parte di una giovane recluta poco esperta.
La guerra diviene così, oltre che ciclica, un avvenimento banale, perché sciocche possono essere le motivazioni che portano alla morte di un uomo o perché chi combatte non è necessariamente spinto da un fervore ideologico. Berk va in guerra pensando ai suoi stivali da sci alla moda che si rovineranno a causa del fango, non immaginando che una sua decisione affrettata porterà alla morte dei suoi compagni, per poi, tormentato dai ricordi, cercare di capire le ragioni di un Bitter che, da ex ufficiale dell’esercito sconfitto, si sta godendo, nonostante tutto, le sue vacanze da perfetto pensionato. Berk decide di non uscire allo scoperto, rivelando di venire dalla Jugoslavia, se non alla fine, quando Bitter è in procinto di partire. Questa decisione è dettata dal fatto che, ormai, Berk ha sentito la verità dell’ex-ufficiale così com’era, senza modifiche, e da una palese stima reciproca venutasi a creare nel corso delle lunghe conversazioni tra i due. Ciononostante, Berk crede ancora che esista una divisione, un mondo in bianco e nero.
“Dopo tanti decenni, tra di noi corre ancora la linea del fronte: di là la macchina da guerra tedesca, ben ordinata, di qua un pidocchioso comunista. Di là l’esercito regolare mobilitato, di qua una banda di volontari. Di là la croce uncinata, di qua la stella rossa a cinque punte. Di là la drammatica conquista del mondo, di qua i crimini bolscevichi contro l’umanità. Di là la pura razza ariana, di qua il complotto ebraico. Di là i crucchi, gli occupanti, il criminale fascista con i suoi lacchè, di qua il popolo libero. Di là un mostro disgustoso, di qua gli eroi. Di là l’inferno di qua il paradiso. Tra queste concezioni del mondo non si dà altro che un ininterrotto conflitto, qualsiasi compromesso è un tradimento della tua parte, di te medesimo. È il mio turno adesso.” (Zupan 1975: 413)
Bitter stesso ammette di fiutare un rancore da parte di Berk, che dall’impostazione di Zupan della narrazione sembrerebbe essere in procinto di vendicarsi. Il risultato di questo exploit di Berk è un altro: Bitter era un ufficiale dell’esercito tedesco, ma non era un nazista, né è comparso nelle liste dei criminali di guerra; al contrario, ha rischiato la pena di morte in seguito all’attentato ad Hitler del 1944. Berk, dunque, deve fare un passo indietro mentre Bitter gli ricorda il ripetersi perpetuo ed inesorabile delle guerre, nelle quali tutti, giusti e non, vengono coinvolti, volenti o nolenti.
Bibliografia:
Radina Vučetić, “Kauboji u partizanskoj uniformi – američki vesterni i partizanski vesterni u Jugoslaviji šezdesetih godina 20. Veka”, in Tokovi istorije, No. 2, 2010, pp. 130-151.
Vitomil Zupan, Minuetto per chitarra, Roma, Voland, 2019. Traduzione di Patrizia Raveggi.
Sitografia:
Marcel Stefančič, Partizanski film: jugo-darilo evropopu, in Leksikon Ex-Yu Mitologije: https://www.leksikon-yu-mitologije.net/partizanski-film-jugo-darilo-evropopu/ (ultima consultazione: 29/12/2024).
Lidija Bošković, Mitski modeli i otklon od mita u Menuetu za gitaru Vitomila Zupana, Lubiana, 2003: https://repozitorij.uni-lj.si/IzpisGradiva.php?lang=slv&id=164903 (ultima consultazione: 29/12/2024).
Neža Lesar, Partizanstvo v romanih Vitomila Zupana, Lubiana, 2024: https://repozitorij.uni-lj.si/IzpisGradiva.php?lang=slv&id=162235 (ultima consultazione: 29/12/2024).
Apparato iconografico:
Immagine 1: https://reporter.si/clanek/slovenija/temna-stran-vitomila-zupana-kot-dva-mracna-hudodelca-701532
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