L’esperienza alienante della Prima guerra mondiale nel “Dnevnik o Čarnojeviću” (1921) di Miloš Crnjanski

Lara Pasquini Perrott

 

Abstract:

The Alienating Experience of the First World War in “Dnevnik o Čarnojeviću” (1921) by Miloš Crnjanski

This paper focuses on Miloš Crnjanski’s first novel Dnevnik o Čarnojeviću (“The Journal of Čarnojević”, 1921), dedicated to his personal experience of the First World War on the frontlines of Galicia and Italy, where the Serbian writer fought in the Austrian army. It is an anti-militarist testimony of great literary value, which emblematically portrays the horrors of the conflict. The protagonist, Petar Rajić, appears as a sick and melancholic anti-hero. During the war the Dalmatian loiterer Čarnojević rescues Rajić from his depression, introducing him to Sumatraism, a philosophy of life. The style of the novel is poetic and metaphorical, favouring fragmentary and associative writing. The analysis examines the depiction of the terrible consequences of modern weaponry on soldiers and the environment, the psychological alienation of the protagonist, and the philosophy of Sumatraism, conceived as the only source of liberation from the suffering experienced. Finally, this war testimony carries a strong commemorative and ethical value that calls for peace.

 


La Prima guerra mondiale è stata la prima guerra moderna, totale e di massa, che ha segnato indelebilmente il secolo breve (Hobsbawm 1994: 23-35). Secondo Walter Benjamin, questo conflitto rappresenta una delle esperienze più devastanti della storia (Benjamin 2011: 38). Lo storico americano Eric Leed ha analizzato come l’esperienza traumatica della guerra abbia causato non solo gravi danni psichici nei reduci, ma abbia anche mutato la loro identità (Leed 1979: 1-2). La maggior parte dei soldati sosteneva di aver vissuto due mondi diversi, uno di pace e uno di guerra, e di aver percepito la propria identità come quella di due uomini differenti (Leed 1979: 2). Questo ha provocato una dissociazione e una discontinuità a livello esistenziale: i combattenti non riuscivano più a riconoscersi e avevano cominciato a temere sé stessi (Leed 1979: 2-4). Inoltre, la vita dei reduci veniva condotta su un limite chiamato “terra di nessuno”, dove si trovavano continuamente esposti al fuoco delle mitragliatrici e dell’artiglieria (Leed 1979: 14). Si trattava di uno spazio che la forza distruttrice della tecnologia aveva trasformato in un immenso deserto.

Ciononostante, questa guerra non ha solo prodotto nuovi modi di uccidere e di distruggere l’ambiente, ma ha anche messo in discussione la struttura narrativa dei racconti di guerra, proponendo nuove tecniche e forme di scrittura (Rasson 1997: 12). Leed, ispirandosi al concetto di Paul Ricoeur, afferma che per i soldati l’esperienza traumatica del conflitto si è trasformata in un “testo” (Leed 1979: 35). Pertanto, dopo la Prima guerra mondiale, molte opere redatte da “scrittori-combattenti” vengono pubblicate (Prungnaud 2014: 10).

Nel vasto corpus letterario sul primo conflitto mondiale si colloca il primo romanzo Dnevnik o Čarnojeviću (“Diario di un reduce”, 1921) dello scrittore serbo Miloš Crnjanski (1893-1977) (Vaglio 2019: 8). Egli nacque a Csongrád nella regione multietnica del Banato, nell’Ungheria meridionale (Cox 2015: 151). Durante la Prima guerra mondiale, Crnjanski dovette combattere come soldato austriaco in Galizia e in Italia (Vaglio 2019: 5). Questo romanzo breve è considerato un classico della letteratura serba e presenta uno stile modernista, paragonabile all’Espressionismo (Vaglio 2019: 8). Tuttavia, Crnjanski è portavoce di un’avanguardia, da lui stesso definita come “Sumatraismo” (il nome si ispira all’isola indonesiana di Sumatra), che illustra nella sua poesia-manifesto Sumatra e nel suo commento Objašnjenje Sumatre (“Spiegazione di Sumatra”), entrambi pubblicati nella rivista letteraria serba Srpski književni glasnik (“Messaggero letterario serbo”) nel 1920, un anno prima del Dnevnik (Vaglio 2019: 8). La poetica del Sumatraismo propone una visione “panteistica del mondo, con l’idea del collegamento reciproco di ogni cosa, di ogni elemento del reale con tutto ciò che costituisce il reale stesso” (Vaglio 2019: 8). Si tratta di una visione metafisica, che inaugura un’unione mistica con il cosmo (Andrejević 2014: 5). In quest’avanguardia si riscontrano echi della filosofia di Nietzsche e delle filosofie orientali (Cfr. Zani 1992).

Dopo l’esperienza alienante del conflitto, molti scrittori si sono interrogati su come descrivere l’orrore vissuto. Crnjanski predilige una prosa poetica, descrivendo le sensazioni vissute al fronte in maniera frammentaria e atemporale, proponendo una visione ciclica del dolore vissuto (Vaglio 2019: 10-11). La forma diaristica – ispirandosi al modello di Novembre (1842) di Flaubert, del quale lo scrittore serbo aveva redatto la prefazione per l’edizione serba – si presta emblematicamente a una scrittura associativa, onirica e simbolica (Vaglio 2019: 13). Il Dnevnik o Čarnojeviću adotta una retorica antimilitarista, descrivendo la brutalità della tecnica sul fronte galiziano e italiano. Il protagonista, Petar Rajić, è un antieroe malato e disilluso che commenta in chiave ironica e disincantata la violenza che lo circonda (Vaglio 2019: 11-14). Il narratore lo descrive cinicamente, elencando i suoi dati personali così: “Nome: Petar Rajić; Grado: carne da cannone; Confessione: greca orient.; Classe: celibe; Età: 23; Mestiere: regicida; Diagnosi: tubercolosi.” (Crnjanski 2019: 65)

Il diario si apre su una visione ambivalente dell’esperienza della guerra. Il narratore-personaggio commenta la complessità esistenziale della vita sul fronte con queste parole:

Autunno, e vita senza senso. […] Dov’è la vita? Quelle selve insanguinate, rosse, calde, le sterminate selve polacche, come mi hanno stancato. Sono un soldato; oh, nessuno sa, cosa vuol dire. Ma in questa bufera, che ha fatto girare la testa al mondo, sono pochi gli uomini che vivono in modo così dolce e tranquillo come me. […] le esercitazioni e la fetida, logora e pidocchiosa caserma, così poco mi toccano. Io sono innamorato di queste acque e degli alberi, dietro le mura, che si smarriscono tra le gialle e verdi pozze, accanto a cui è l’erba così soffice, bruciata e calda. E amo la vita con l’incanto che provai lo scorso anno, quando ritornavo da quelle selve polacche, giovani, fangose, dove tanti sono rimasti, laceri e insanguinati, con la fronte fracassata.” (Crnjanski 2019: 25)

Nel passaggio citato, il narratore-personaggio si interroga sul senso della vita. In primo luogo, emerge una visione cupa della sua condizione di soldato. Esausto dalle lunghe giornate trascorse a combattere, afferma amaramente che nessuno può comprendere ciò che sta vivendo. Il reduce si sente solo e alienato, vittima del volere dei potenti che lo hanno costretto a partecipare a questo conflitto insensato. Il colore che domina è il rosso, quello del sangue che ha visto scorrere e bagnare i campi di battaglia di tanti giovani come lui. In seguito, si mostra indifferente e calmo di fronte alla sua misera condizione. La poetica del Sumatraismo subentra così nell’incipit del romanzo: il soldato ritrova la sua pace interiore grazie al contatto con la natura. Dietro le mura della caserma, oltre il fango delle trincee devastate, intravede le acque, gli alberi e l’erba soffice.

Nel Dnevnik, le battaglie sono descritte con frasi brevi dal ritmo pungente che alternano visioni poetiche a immagini apocalittiche della violenza estrema del fronte. Il narratore racconta gli attacchi senza slancio combattente o partecipazione emotiva, mostrando un’attitudine antimilitarista.

Il battaglione si trascinò per tutta la notte attraverso campi bagnati e secciai. Dondolavano i fuocherelli delle sigarette. Ci si fermava lentamente. A destra e a sinistra percepivamo che si trascinavano, attraverso la notte e i campi, delle masse. L’artiglieria strepitava, tintinnava e imprecava. […] Calavano le prime nebbie mattutine; alle prime luci freddamente strisciavamo sotto un colle e cominciavamo a trincerarci. Io no. Ero insonnolito, stanco di tutto ciò. […] Pian piano anche la terra cominciò a farsi sempre più rubiconda. Allora sfolgorò, sfavillò, come un latrato selvaggio, dietro di noi. Spararono alcune tese sopra le teste nostre. […] i cannoni sopra di noi rombavano orribilmente. […] Poi tremò la terra su in alto, e alcuni cavalli si misero a correre via dalla collina. In alto le nubi giocavano ancora a mosca cieca e si udiva solamente: come se dei treni pesanti, carichi, gattonassero per l’aria. […] Lontano, dietro la collina, sparavano a raffiche orribili i mitra.” (Crnjanski 2019: 32-33)

Il narratore-personaggio si cela dietro il soggetto collettivo “noi”, designando la massa anonima di soldati, nella quale lui e i suoi compagni avanzano, trascinando i loro corpi per inerzia. Le armi sono personificate (“strepitava”, “imprecava”) per rendere la loro brutalità e la loro cacofonia (attraverso il verbo onomatopeico “tintinnava”). Come sottolinea giustamente Leed, il senso dell’udito in guerra diventa il senso più sollecitato, anche rispetto alla vista (Leed 1979: 124). Il protagonista si presenta nuovamente come un antieroe stanco, esausto dell’assurdità del conflitto, non rispettando l’immagine del soldato valoroso. Per descrivere l’atrocità della guerra, il narratore ricorre ad un simbolismo apocalittico. L’episodio biblico dell’Apocalisse, privato però del suo significato escatologico, viene spesso riscritto nei racconti di guerra. L’atmosfera del Giudizio Universale, che raffigura la brutalità dei disordini cosmici e dei cataclismi naturali attraverso immagini suggestive come il terremoto, l’eclissi solare, l’arrossamento della luna e dell’oceano, evoca le esplosioni, le distruzioni e i massacri che i soldati vedono nelle trincee (Apocalisse di Giovanni: 1-22). Anche in questa scena, la terra diventa “rubiconda” a causa del boato animalesco (“latrato selvaggio”) delle esplosioni (“sfolgorò, sfavillò, come un latrato selvaggio”) e dei cannoni (“rombavano orribilmente”). La violenza estrema della tecnologia scuote la terra, ma non è solo il suolo a frantumarsi; anche i valori della cultura occidentale che hanno legittimato un tale conflitto sono in crisi. Infine, l’immagine poetica delle nuvole personificate viene contrapposta al rumore dei treni, probabilmente carichi di merci e armi. Eppure, i treni sono al contempo leggeri, innalzandosi in aria, gattonando come dei bambini. Dopo questa breve allucinazione, il narratore riporta alla nube densa di proiettili di mitra, mostrando chiaramente il trionfo della macchina sull’uomo.   

Un altro aspetto evocato nel romanzo di Crnjanski è quello delle vittime del conflitto. Seguendo un intento commemorativo, il narratore dipinge in modo drammatico le conseguenze delle armi moderne e la dura realtà del fronte, nonché la convivenza del soldato con la morte.

Sedevano i feriti, insanguinati, sporchi, tremavano, avevano freddo. Un morto prono in pozze di sangue. Lo denudarono del tutto. Nelle gole sedevano, giacevano, sparavano. […] Alla nostra destra uscivano, come formiche, dalle trincee, nugoli del 33° reggimento e correvano tra urla, grida e gemiti orribili. Sgusciammo tra i fili spinati. […] Tutta l’aria intorno a me vibrava come se fosse stata piena di proiettili. Caddi nella segale. La terra vorticava e schizzava in alto dinanzi a me. Correvo come un folle. Ci precipitammo in certe pozze. Qualcuno mi cadde accanto nella melma. Nell’erba dinanzi a me giacevano degli zoccoli; alla mia destra vidi dei morti con le bocche contorte, le gambe ridicolamente contratte e le ginocchia dure, stranamente dure. […] Di nuovo ci mettemmo distesi. […] Noi ci trincerammo proprio dinanzi al bosco. Giacevo e respiravo, respiravo velocemente dal naso mi colava lento il sangue. Pi…u…ft… si fermò un proiettile accanto alla mia testa, nella terra. Tutto era così intricato. Sparavo da destra e da sinistra. Premetti il volto sulla terra e respiravo, respiravo. Tremavo per quel respiro.” (Crnjanski 2019: 33-34)

Ci si ritrova di fronte a uno scenario apocalittico. I feriti, disumanizzati e impotenti, giacciono sul campo di battaglia. Un cadavere viene denudato della sua uniforme senza alcuna pietà. I combattenti non hanno tempo per occuparsi dei feriti o per congedarsi dai morti; devono avanzare per salvaguardare la propria vita, perché la guerra di trincea continua e non risparmia nessuno. I soldati sono animalizzati, associati a delle “formiche”, sottolineando il loro stato di fragilità e precarietà. Il narratore, in mezzo al caos di questa estrema violenza, corre disperatamente per salvarsi. I sensi dell’udito e della vista sono costantemente sollecitati per farci percepire lo straniamento del protagonista circondato dal pericolo delle armi e da cadaveri grotteschi – “morti con bocche contorte, le gambe ridicolamente contratte e le ginocchia dure, stranamente dure”. Dopo aver scampato quasi per miracolo la morte – un proiettile, evocato emblematicamente dall’onomatopea “Pi…u…ft…”, gli sfiora la testa –, il protagonista preme il viso sulla terra e respira, sapendo quanto quel respiro non sia scontato.

Il narratore si sofferma in seguito a descrivere un soldato morente. Questa scena riflette la ricerca della normalità nell’anormalità della guerra.

Dietro di noi strideva orribilmente il bosco e tremava sotto un diluvio di shrapnel. Accanto a me gemeva qualcuno e si mise a cantare. Sollevai il capo. Dietro l’orecchio aveva il capo tutto nel sangue, masticava sangue e soffocava. Si raddrizzò e si sedette, si mise a cantare e menzionava la moglie e i figli, mi chiamava per nome e mi guardava, guardava solo me. Ficcai il capo nella terra e tacevo. Il sole scottava. Intorno a me correvano e urlavano. Mi addormentai.” (Crnjanski 2019: 36)

La natura personificata è devastata e dilaniata dalla potenza delle armi moderne – “strideva”, “diluvio di shrapnel”. Il narratore si trova accanto ad un soldato, che seppur gravemente ferito, trova la forza di alzarsi e cantare. Si assiste a una scena perturbante che mostra la condizione alienante del veterano. Per allontanarsi mentalmente dall’atrocità del fronte, evoca i suoi familiari, guarda il suo simile e gli ricorda le difficoltà del rientro alla quotidianità e la minaccia costante della morte. Il narratore tace e si nasconde di fronte questa cruda visione, cercando un attimo di tregua, tra le urla dei combattenti.

Dopo aver descritto l’esperienza traumatica del fronte, nelle pagine successive del diario, il narratore-personaggio richiama con maggiore intensità la poetica sumatraista. Il reduce afflitto dalla violenza e dalla perdita dei valori può forse trovare pace solo grazie alla bellezza della natura.

Stavo disteso, nella sera nebulosa per via dei lillà, […] così mi liberai e mi straniai da tutto. E niente più mi lega, né al bene, né al male. Tengo la mia piccola vita tutta scossa e impaurita tra le mani, stupendomi di essa […]. Essa è fra le mie mani, ma non è mia. Sono stanco, soddisfatto, pensoso e sorrido. Cos’è per noi uccidere tre milioni di uomini? Noi siamo liberi e sappiamo: che il cielo è ovunque al mondo uguale e azzurro. È giunta la morte ancora una volta come già tempo fa, ma dopo di lei giungerà la libertà. Sapremo che il cielo è ovunque bello, e che nulla può e sa trattenerci. Tutto è rovinato, ma ciò si propagherà con un urlo da un oceano all’altro. Volti pensosi e pallidi, tutti quei volti, tutte quelle teste amare, maschili, stanche, quando ritorneranno dagli immensi confini insanguinati, avranno desiderio di ciò che finora hanno potuto solo le piante e le selve e le nubi. Abbiamo imparato a bere la vita più a fondo che mai, da quando esiste il mondo. Con orrore, spavento, attenzione, io guardo la vita e la tengo con mani tremanti, e guardo intorno a me le selve e le strade e il cielo.” (Crnjanski 2019: 42)

Il ritorno dei reduci del primo conflitto mondiale alla vita civile è stato doloroso e difficile. La loro psiche era profondamente segnata dalla nevrosi di guerra: la violenza estrema vissuta nei campi di battaglia tormentava ossessivamente le loro notti con incubi e insonnia (Loughran 2012: 101-103). In una notte, disteso sull’erba, Petar Rajić riflette sul suo ritorno. La sua giovane vita è stata traumatizzata a tal punto da non riconoscerla. Come ha mostrato Leed, i reduci percepiscono una discontinuità identitaria, provando ribrezzo per sé stessi. L’isotopia della paura viene però annullata dall’isotopia della libertà. Il protagonista, avendo perso la cognizione del bene e del male, si allontana dalla società civile. È proprio a causa della società che il combattente non ha più una chiara percezione etica. Durante la guerra, l’uccisione è stata legittimata, violando il valore morale più fondamentale dell’uomo: garantire e proteggere la vita (Tavaglione 2005: 11-12). L’approdo alla libertà spirituale per Rajić e per tutti i redivivi è quello di congiungersi con l’immensità del cielo e dell’oceano. Solo la comunione con la natura potrà far rinascere gli spettri della Prima guerra mondiale.

Infine, durante la convalescenza in un ospedale di Cracovia, il protagonista, disteso nel letto, rimembra un uomo che assume le sembianze di un profeta. Il suo incontro è stato percepito da Rajić come una folgorazione. Il narratore lo descrive all’infermiera con queste parole:

Le voglio raccontare. Di un uomo, che non posso dimenticare, e che per me era più che un fratello. Un unico uomo. Un giovane nel mondo. […] Allora, una sera, giunse lui, io mai più lo dimenticherò. […] Pareva che le sue gambe lunghe e sottili, come pertiche, non calcassero la terra, come se levitasse sopra la terra. Non era cencioso, e tuttavia, il colore dei suoi pantaloni non lo indovinai mai. Sopra di essi, un nero cappotto da marinaio, su di esso un unico bottone dorato […]. La sua voce era fosca e dolce. Io imparai da lui a parlare sinceramente. Si appressò al tavolo in silenzio e salutò: «Polinesia, signori». […] Guardò me, sconosciuto, solo me guardò; e quegli occhi erano chiari, limpidi, essi mi ricordarono il cielo. […] Egli mi porse la mano e disse: «Lei somiglia a me, che non sia anche lei in viaggio?… mi faccia un prestito, la prego…». Le sue mani tremavano, ed erano piene di segni e di ferite, sporche, si contraevano in una rete di vene intricate, piene di nodi. Ma i suoi capelli con la scriminatura erano soavi e graziosi, come oro antico.” (Crnjanski 2019: 65-67)

In questo passaggio, viene svelato il vero protagonista di questo diario. Si tratta del dalmata vagabondo Čarnojević, che può essere considerato un doppelgänger di Rajić, essendo il portavoce del Sumatraismo (Cfr. Biti 2018: 56). Inoltre, il suo nome non è fortuito, perché come spiega Milojković-Djurić, si riferirebbe al patriarca Arsenije III Čarnojević (Cfr. Milojković-Djurić 2015: 250). Si tratta di un personaggio storico molto importante per la storia serba, perché guida la prima Grande Migrazione dei Serbi nel 1690, durante la Grande Guerra Viennese, che durò dal 1683 al 1699, di cui Crnjanski tratta nel suo capolavoro Seobe (“Migrazioni”), pubblicato nel 1929 (Milojković-Djurić 2015: 250).

Nel Dnevnik, Rajić diventa un discepolo di Čarnojević. Il marinaio dalmata lo introduce alla nuova filosofia di vita, spiegandogli a più riprese che le azioni umane lasciano sempre una traccia su un’isola lontana, poiché il potere dell’uomo è “infinito” (Crnjanski 2019: 71). Il Sumatraismo si delinea con un atteggiamento anti-modernista, che condanna la tecnica della guerra e trova rifugio nella natura: “[…] il futuro di un popolo non dipende da enormi turbine, neanche dal lavoro, bensì da un colore azzurro delle coste, di un’isola lontana” (Crnjanski 2019: 72). Čarnojević, come Rajić, è nichilista e non conosce più il bene e il male. La sua unica certezza sono le “coste azzurre […] [e] che la sua vita [esiste] soltanto per una pianta rubiconda, a Sumatra” (Crnjanski 2019: 75). Infine, l’episodio della sua morte è emblematico, perché racchiude la poetica sumatraista e anche l’idea della reincarnazione:

Sentì che sarebbe morto, e cominciò di colpo a cadere a capofitto da qualche parte. Si consolava pensando che al suo posto sarebbero vissuti degli abeti rubicondi, pieni di bei cacatua, su un’isola lontana. […] cominciò a urlare, sollevando le mani: «Signori, sorridete, forse qualcuno a Sumatra lo percepirà». […] Cadde e tutti si raccolsero intorno a lui. Sì; egli farneticava di continuo di pioppi, piante rubiconde che venivano al suo posto; un anziano sacerdote con un nero cappotto alla marinara gli si accostò e gli chiese: se era cattolico, ed egli gli disse: «Io sono sumatraista».” (Crnjanski 2019: 76-77)

La morte è dunque interpretata positivamente, poiché è un ricongiungimento con la madre terra. Dopo la scomparsa del filosofo sumatraista, il protagonista, sempre in ospedale, continua a riflettere sulla sua condizione esistenziale. La vita del reduce di guerra sembra non avere più senso, l’esperienza alienante del conflitto lo ha reso estraneo al mondo civile. Per questo motivo, solo la natura può abbracciarlo e fargli dimenticare l’orrore vissuto. I suoi polmoni malati saranno infatti guariti da “abeti ghiacciati” che gli “fasciano il petto” (Crnjanski 2019: 78). Il sopravvissuto, disincantato, disilluso e apatico è ritornato al suo Paese natio, ma con le sembianze di un’ombra: “Noi siamo ritornati, ma noi siamo ombre” (Crnjanski 2019: 99).

Non ha più fiducia nei suoi simili, non è nemmeno capace di amare e di occuparsi della sua famiglia. Può solo ammirare quella natura così lontana di Sumatra:

Starò disteso tutto il giorno sull’erba e guarderò il cielo. Ogni giorno avrà un colore nuovo. E quei colori placheranno i miei occhi, e io sono tutto calmo, quando mi si calmano gli occhi. […] Noi ci estingueremo e verrà un secolo migliore, esso viene sempre. Noi ci trascineremo con un lacero pastrano verde, pallidi e sorridenti, ovunque per le strade. Noi non chiediamo nulla, noi non rimpiangiamo nulla, vero, noi non rimpiangiamo nulla? Le zie smetteranno di piangere. Esse adornano di continuo l’immagine dello Zar Dušan e sperano che anch’io sorriderò serenamente. Tutto il giorno, esse mi fanno riconciliare con mia moglie, mi portano il latte come a un bambino […]. Dicono, due-tre anni e oblieremo ogni cosa. Le zie piangono intorno a me e mi fanno visita, come se fossi una tomba. Sopra di me è il cielo, esso ha delle strisce rubiconde, soavi, quelle strisce ritornano a ogni alba. Esse ritornano a me, sulle nubi, transeunti e soavi. Io le guardo ogni mattina e vivo solo per loro. Qua e là cade una foglia gialla. E verso sera suonano le campane. Io tossisco, sebbene i medici dicano: vivrò altri trent’anni. Qua e là cade una tegola, qua e là un recinto verso sera è freddo, le zie mi infagottano come un bambino […]. Non lontano abita mia moglie. Abita di fronte, e spera ancora. Ma se muoio, guarderò per l’ultima volta il cielo, la mia consolazione, e sorriderò.” (Crnjanski 2019: 102-103)

In questo passaggio, con cui si conclude il Dnevnik, viene messa emblematicamente a nudo la condizione del reduce tornato allo stato di un bambino. La sua mente traumatizzata e il suo corpo malato lo rendono indifeso e non gli permettono di integrarsi attivamente nella vita civile. È diventato apatico e non riesce più ad amare sua moglie. È un morto vivente, la cui unica speranza è un universo migliore, lontano, dove gli elementi naturali e gli esseri umani potranno ricongiungersi e vivere in armonia. Così si chiude il cerchio della profezia sumatraista di Čarnojević, sensibilizzando il lettore alla brutalità della guerra e ammonendolo per evitare altre forme di violenza.

 

 

Bibliografia:

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Apparato iconografico:

Link immagine 1 e immagine di copertina: https://ilbolive.unipd.it/it/event/milos-crnjanski-sumatra-serbia

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