“Il ponte sulla Drina”: metafora di abbandono della rivalità nella tormentata terra balcanica

Alice Bettin

 

Abstract:

“The Bridge on the Drina”: a Metaphor for Abandonment of Rivalry in the Troubled Balkan Land

A metaphor and emblem of the fusion of historically opposing worlds, East and West, Ivo Andrić paints his literary fresco against the backdrop of the small town of Višegrad, a city located in present-day Bosnia and Herzegovina. The ‘stone miracle’ that rises above the waters of the Drina River witnesses the unfolding of events and the lives of Višegrad’s inhabitants. The bridge embodies the link between the Christian and Muslim worlds, protagonists of various conflicts that have shaped the region’s history, and the centuries-long coexistence of Muslims, Orthodox Christians and Catholics in Ottoman-ruled Bosnia from the sixteenth century until World War I. Amid shifting historical epochs, the bridge remains the sole constant, symbolizing cultural coexistence, a precarious spiritual harmony, and a crossroads where diverse peoples intersect – often in conflict – shaped by rival aspirations and historical tensions. This paper aims to analyze Andrić’s mindset and experience, exploring how he merges realism and myth, integrating historical accuracy with subjective authenticity.


Ivo Andrić (Dolac, 1892 – Belgrado, 1974) è stato un indiscusso interprete della vessata terra balcanica, alla confluenza di due mondi, l’Oriente e l’Occidente, eretto ad eroe nazionale per il suo essere diventato la voce di una fetta di continente ignorata prima del suo riconoscimento a premio Nobel dalla letteratura internazionale.

Figlio unico, a soli due anni perde il padre, malato di tisi, e lascia Sarajevo insieme alla madre per Višegrad, una piccola città verde sulla Drina, dove trova ospitalità dai parenti, mastri artigiani esperti nella lavorazione del legno. È proprio Višegrad l’ambientazione del suo romanzo più famoso, una cittadina attraversata dal fiume Drina, sopra alle cui acque è stato eretto il famoso ponte, conosciuto storicamente perché la sua costruzione è stata fortemente voluta da Mehmed Paşa Sokolovič, nel XIV secolo.

In questo romanzo, l’autore decide di rendere protagonista questo “miracolo di pietra” e lo erige a metafora della fusione di mondi diversi, simbolo di multiculturalità e dell’incontro fra popoli che, con una straordinaria resilienza, sono vittime del tempo e dei conflitti che li coinvolge.

Il romanzo è stato scritto nel 1945, periodo in cui l’autore decise di ritirarsi a vita privata, nonostante il suo forte coinvolgimento nella realtà pubblica del Paese, coltivando la sua silenziosa opposizione nei confronti del regime nazista. È proprio sulla terra della sua infanzia che Andrić ritorna a scrivere, quando gli sconvolgimenti nazionalisti del Novecento lo mettono a tacere e lo costringono a comporre tacitamente i suoi scritti, che verranno resi pubblici solo dopo la fine del secondo conflitto mondiale.

Ivo Andrić e il ponte sulla Drina

Parabola e simbolo di fusione di mondi, la presenza del ponte rimane immutabile nel corso del tempo e diventa il contesto di un affresco, attorno a cui ruotano le vite dei suoi abitanti, che si succedono di generazione in generazione, quotidianità costituite dalla complessità di contesti culturali differenti, una convivenza amalgamata nel tempo tra musulmani, serbi e croati.

Il romanzo si sviluppa attorno a questo miracolo di architettura, un ponte lungo 179,50 metri che consta di undici grandi arcate in muratura, anch’esse altrettanto ampie, alcune delle quali vennero distrutte durante i conflitti mondiali. Il ponte è il testimone dei drammi quotidiani, delle gioie e delle sofferenze, nonché dei conflitti e dei contrasti culturali fra il mondo musulmano, ortodosso e cattolico, che raccontano il microcosmo di Višegrad e alla convivenza fra religioni diverse e le pratiche culturali talvolta incompatibili fra loro, allo stremo però mescolate in un melting pot che iscrive l’allora Jugoslavia, in particolare la Bosnia, sulla cartina culturale europea.

“«Grazie. Niente, dunque, del nostro progetto…niente America?»

«No, non ‘niente’. Se tu avessi accettato quando te l’avevo proposto un mese fa, ora potremmo essere molto lontani da qui. Ma forse è meglio così. Hai visto cos’è successo! Devo partire con i miei compagni. C’è la guerra, e il nostro posto è ora in Serbia. Dobbiamo farlo, Zorka, è il nostro dovere. Ma se ne esco vivo e se saremo liberi, forse non ci sarà nemmeno bisogno di emigrare in America e di attraversare l’oceano, perché ce l’avremo qui la nostra America, un paese dove potremo vivere bene e in libertà e lavorare molto ed onestamente. Troveremo qui il nostro posto, tutti e due, se vorrai. Dipenderà da te…Io ti…penserò, e anche tu…qualche volta…».” (Andrić 2024: 386)

Il ponte diventa il legame di una contrapposizione sofferta fra mondo cristiano e musulmano, sempre protagonisti di conflitti nella storia di questa terra e la convivenza secolare di musulmani, ortodossi e cattolici nella Bosnia della dominazione ottomana dal 1500 fino alla Prima guerra mondiale.

Andrić racconta l’origine del ponte, tanto voluto da un dignitario dell’Impero Ottomano, Sokollu Mehmed Pascià. Quest’ultimo ricorda il fatto di essere stato strappato dalla sua casa in Bosnia all’età di dieci anni, per essere educato alla corte del sultano, rievocando il devşirme, tragica pratica di reclutamento dei bambini cristiani da parte dei giannizzeri. Le rive di quel fiume sono l’ultimo sguardo a sua madre, prima di essere portato via e assumono così il grande valore umano, oltre che storico, che la struttura imponente simboleggia, ossia la volontà di unire il luogo a cui era così legato e che gli ricordava la sua infanzia al luogo in cui aveva vissuto la sua gioventù.

Andrić ha l’abilità di raccontare il susseguirsi delle generazioni celebrando la storia di questo ponte, che continua a sopravvivere ancora oggi e che per il suo straordinario valore storico, politico e sociale è stato riconosciuto nel 2007 come patrimonio dell’umanità da parte dell’UNESCO.

Non senza scontri viene accolta l’idea della creazione del ponte. Anzi, vengono descritte le torture agli infedeli e le punizioni inflitte con accurato realismo, ricostruendo dettagli che ricalcano la coabitazione travagliata fra religioni diverse. Dall’impalamento di un cristiano oppositore e dubbioso sullo scopo della creazione del ponte, alle antiche torture turche che ledono il corpo senza danneggiare gli organi vitali, per rendere più tagliente la morte, Andrić definisce idee e posizioni nel flusso della storia dell’ex Jugoslavia, terra che ha visto susseguirsi vicende tragiche e a cui sono stati concessi solo brevi intervalli di prosperità e indipendenza.

Ergersi al di là della storia, sopravvivere per secoli e non avere un proprietario è l’armonia spirituale che Andrić ha voluto conferire al ponte, crocevia di etnie che si incontrano, passando da una parte all’altra della sponda e abbattendo così ogni rivalità.

E così, tra il cielo, il fiume e le montagne, una generazione dopo l’altra imparava a non compiangere troppo ciò che la torbida acqua si portava via; ché la vita è un miracolo impenetrabile perché si fa e disfà incessantemente, eppure dura e sta salda, come il ponte sulla Drina.” (Andrić 2024: 270)

Il continuo dipanarsi di epoche storiche, rispolvera e crea miti e leggende sull’immagine del ponte e risveglia credenze popolari che ne definiscono l’immagine. La scrittura di Andrić, secondo il critico letterario serbo Petar Džadžić, mischia uno stile realistico e mitico, integrando autenticità storica all’autenticità soggettiva.

Tanto tempo fa il mio defunto padre ha sentito da seh-Dedija, e me l’ha raccontato quando ero ancora bambino, per quale ragione esistono i ponti e come il primo ponte vide la luce. Quando il potente Allah, gloria a Lui, creò l’universo, la Terra era piatta e liscia come un bel vassoio. Questo faceva arrabbiare il Diavolo, che invidiava all’uomo quel dono divino. E mentre la Terra era ancora com’era uscita dalle mani del Signore, morbida e umida come argilla ancora non cotta, il Diavolo si avvicinò di nascosto e con le unghie ne graffiò il volto quanto più profondamente poté. Così, dice la storia, nacquero i fiumi profondi e le gole che separano una regione dall’altra, dividono gli uomini tra loro e non permettono loro di viaggiare da un capo all’altro di questa Terra che Allah ci ha donato, come un orto, perchè l’umanità possa nutrirsi e mantenersi. Allah, affranto dopo aver visto quel che aveva combinato il Maligno, ma non potendo riprendere la propria opera una volta sporcata dalla sua mano, inviò gli angeli in soccorso degli uomini. Quando gli angeli video quella povera gente che non riusciva ad oltrepassare precipizi e ripide gole per condurre a buon fine i lavori, ma continuava a richiamarsi invano da una riva all’altra, dispiegarono le loro ali e gli uomini poterono traversare i baratri camminandoci sopra. Fu così che l’uomo apprese dagli angeli come si costruiscono i ponti. E poiché l’edificazione di un ponte rappresenta, dopo quello della forma, la più sacra delle opere, toccarlo è il più grande dei peccati, dato che ogni ponte, da quello di legno sopra un ruscello di montagna fino a questa grande costruzione di Mehmed-pascià, ha il suo angelo che lo protegge e lo tiene in vita finché Dio decide di mantenerlo.” (Andrić 2024: 283)

Il tentativo di Andrić di utilizzare un universale simbolismo e di coniugare una sferzante intuizione psicologica crea lo sfondo di una Bosnia in fermento, che mantiene il proprio romanticismo, ma si fa portavoce di una realtà composita e affascinante.

Il fluire del tempo e l’eterna immagine del ponte in pietra che guarda ciò che lo circonda trasforma la vita in un nembo sospeso, nonostante ogni epoca porti con sé il fermento delle nuove ideologie, che si spalmano in lunghe discussioni e conversazioni tra i personaggi che affollano ogni capitolo. Simbolicamente la struttura del romanzo è molto articolata, un risultato che l’autore ha partorito omologando i protagonisti, qualunque sia la loro religione, l’etnia o il ceto sociale, cercando di porsi sopra le parti e mantenendo una visione oggettiva al di là delle differenziazioni culturali. Ogni personaggio sembra venga guardato con rispetto dall’autore, che ne affronta passioni, sofferenze e circostanze in maniera del tutto obiettiva.

È evidente l’interesse per l’animo umano, vittima in questa terra di innumerevoli conflitti svoltisi nel corso della sua storia, elemento che emerge dalla prosa saggistico-storica dell’autore. I personaggi, infatti, si esprimono con un linguaggio modulato sulla base della loro provenienza sociale e del periodo storico che vivono.

Finalmente giunse l’anno 1914, l’ultimo della cronaca del ponte sulla Drina. Venne come tutti gli anni precedenti, al ritmo tranquillo del tempo terreno, ma con sullo sfondo, la sorda eco di avvenimenti sempre nuovi e sempre più insoliti, che, come onde, si accavallano gli uni sugli altri.

Tanti anni il Signore ha mandato sulla kasaba vicino al ponte e tanti ancora ne manderà. Ci sono stati e ci saranno di ogni tipo, ma il 1914 resterà per sempre ben distinto dagli altri. Almeno così sembra a coloro che l’hanno vissuto, convinti che, per quanto si possa dire e scrivere sull’argomento, non si riuscirà mai ad esprimere completamente tutto quello che avvenne allora nelle profondità della natura umana al di là del tempo e al di qua degli eventi. Chi sarà capace di descrivere e tramandare (almeno così pensano!) quei brividi collettivi che percorsero improvvisamente le masse e che dagli esseri viventi si trasferirono anche alle cose morte, ai paesaggi e agli edifici?

Come descrivere l’ondeggiare di sentimenti della gente, che passava da una muta paura animalesca a un’esaltazione suicida, dagli istinti sanguinari più bassi e dalle rapine più sordide alle imprese più nobili e ai sacrifici più sublimi nei quali l’uomo trascende sé stesso e per un momento tocca le sfere di mondi superiori retti da leggi diverse da quelle umane? Non potrà mai essere raccontato niente di tutto questo, perché chi assiste e sopravvive a cose simili resta muto, e i morti, dal canto loro, non possono parlare. Sono cose che non si dicono, ma si dimenticano. Se infatti non si dimenticassero, come potrebbero ripetersi?” (Andrić 2024: 363)

Andrić rimane ancora oggi l’unico scrittore dell’ex Jugoslavia ad avere ricevuto il premio Nobel (1961), nonostante egli sia stato spesso ostracizzato e giudicato. È possibile assaporare la sua attitudine di uomo politico già nei primi anni della sua gioventù, quando istituisce la Società della gioventù progressista serbocroata (Srpsko-Hrvatska Napredna Organizacija, 1911), ispirata agli ideali mazziniani e affiliata all’organizzazione rivoluzionaria della gioventù nazionalista Giovane Bosnia (Mlada Bosna). La carriera pubblica di Andrić lo fa conoscere al mondo come ambasciatore e console fino al secondo conflitto mondiale, periodo nel quale si ritira a Belgrado. Dal 1945 in poi, raggiunge l’apice della sua carriera venendo eletto deputato al Parlamento della Repubblica socialista di Bosnia Erzegovina e poi all’Assemblea nazionale jugoslava, deputato all’Assemblea nazionale, presidente della Società degli scrittori della Serbia e della Jugoslavia e membro del Comitato federale dell’Alleanza socialista del popolo lavoratore della Jugoslavia.

Con la vivacità che gli è innata, e con una fraseologia propria della letteratura giovanile nazionalista, enumera gli obiettivi e i compiti che incombono sulla gioventù rivoluzionaria. Tutte le forze vive delle varie etnie si risveglieranno ed entreranno in azione. Sotto i loro colpi l’impero austroungarico, la prigione dei popoli, si dissolverà così come si va dissolvendola Turchia europea. Tutte le forze antinazionaliste e reazionarie che ora frenano, dividono e tentano di sopire lo slancio nazionale saranno sconfitte ed annientate. E tutto questo potrà essere realizzato perché lo spirito dei tempi in cui viviamo è il nostro più grande alleato, perché gli sforzi degli altri piccoli popoli oppressi si muoveranno insieme a noi. Il nazionalismo contemporaneo trionferà sulle differenze confessionali e sui pregiudizi arcaici, libererà il popolo dalle cattive influenze straniere antinazionali e dallo sfruttamento. È allora che verrà il giorno di uno Stato nazionale.” (Andrić 2024: 333-334)

Grande cantore della multiculturalità, ne Il ponte sulla Drina Andrić concentra l’attenzione sulle singole storie individuali dei personaggi, che vengono costantemente influenzate dagli eventi che coinvolgono la collettività. L’attenzione si sposta sui rapporti sociali, politici dei personaggi tra di loro, che hanno un unico destino comune: sopravvivere e resistere, poiché il destino tragico della morte, nonostante le differenze culturali, è un aspetto che li accomuna tutti.

Percorrendo ben quattro lunghi secoli di storia, Andrić racconta prima le vessazioni degli ottomani nei confronti della Bosnia, che per cinquecento anni è da loro governata, opprimendo ogni libertà e ignorando completamente il disastro economico del paese. Racconta poi la sottomissione agli austriaci, vissuta inizialmente con grande entusiasmo, ma che poi si rivela non coincidere con le aspirazioni gli abitanti di Visegrad. Nonostante tutto, Andrić narra di come essi hanno saputo adeguarsi alla mutevolezza dei tempi, conservando una morale propria e insieme accogliendo i valori e i modi di vita che i conquistatori hanno introdotto.

Ogni generazione ha le proprie illusioni riguardo alla civiltà, alcune credono di contribuire al suo progresso, altre di essere testimoni della sua decadenza. In realtà essa s’infiamma, cova e si spegne simultaneamente, a seconda del luogo o del punto di vista da cui la si osserva.” (Andrić 2024: 319)

A segnare fortemente un cambiamento decisivo è la guerra, descritta con incontenibile eccitazione dai più ferventi nazionalisti e rigettata da una cospicua parte della popolazione. Il feroce potere distruttivo della guerra è infatti simboleggiato da una terribile cannonata che distrugge alcune delle arcate del ponte, metafora della sfiducia nella continuità dell’esistenza, resa possibile fino a quel momento dallo stesso ponte, realtà eterna ed immutabile.

Da quei bombardamenti, che durarono una decina di giorni, il ponte non subì danni gravi. Le granate colpivano i pilastri lisci e le arcate rotonde, rimbalzavano ed esplodevano in aria, lasciando sui muri di pietra tracce di scheggiature bianche, appena visibili. I colpi di shrapnel schizzavano sulle superfici levigate e solide come chicchi di grandine. Soltanto le granate che si abbattevano proprio sulla carreggiata lasciavano sul terreno ghiaioso piccole cavità poco profonde, ma anche queste si notavano solo passando sul ponte. Così, in mezzo a quella nuova tempesta che si era abbattuta sulla kasaba, scuotendo alle radici e rovesciando abitudini e consuetudini ancestrali, gli esseri viventi e le cose solo il ponte restò in piedi, bianco solido e invulnerabile, com’era sempre stato.” (Andrić 2024: 397)

Il vero successo di Andrić è quello di un uomo che, prima di essere un letterato o un intellettuale, ha saputo portare il vessillo degli ideali pan-jugoslavi e che ha usato la letteratura come strumento per veicolare la quotidianità del singolo, mettendola a disposizione della collettività. Uomo politico di gran notorietà, è stato fortemente criticato soprattutto a cavallo di avvenimenti storici, che lo schieravano in una posizione strettamente nazionalista.

Nel suo discorso per il ritiro del premio Nobel alla letteratura ha parlato di un popolo jugoslavo che, attraverso grandi sacrifici e poderose prove, sta tentando ancora oggi di venire a galla e di farsi spazio nella geografia internazionale letteraria, riconoscendo l’importanza e la ricchezza che la convivenza fra diversi gruppi etnici ha portato nella definizione di una cultura che ha conosciuto grandi sofferenze nella storia. La sua figura è stata celebrata dall’istituzione di un quartiere della città a lui dedicato, Andrićgrad, nella piazza nella quale si erge una statua a suo nome, inaugurata nel 2014.

Il ponte sulla Drina si innesta ancora oggi nella memoria storica degli abitanti della città e riflette sulle sue acque l’alba di un giorno nuovo, che unisce est e ovest.

 

 

Bibliografia:

Ivo Andrić, Il ponte sulla Drina, Milano, Oscar Mondadori, 2024. Traduzione di Dunja Badnjević.

Sitografia:

Seba Pezzani, Le storie di Andric sono una collezione delle ingiustizie passate, presenti e future, 2024: https://www.ilgiornale.it/news/letteratura/storie-andric-sono-collezione-delle-ingiustizie-passate-2286655.html

Danilo Mallò, Leggere i Nobel alla letteratura – IVO ANDRIĆ, 2021: https://www.scuolafilosofica.com/10879/leggere-i-nobel-alla-letteratura-ivo-andric (ultima consultazione: 31/12/2024).

Ivo Andric oggi: quando i ponti non uniscono, 2005: https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Ivo-Andric-oggi-quando-i-ponti-non-uniscono-29028 (ultima consultazione: 31/12/2024).

Visegrad raccontata da Ivo Andric, 2016: https://irintronauti.altervista.org/visegrad/U (ultima consultazione: 31/12/2024).

Giorgio Fruscione, BOSNIA: Višegrad, da Ivo Andrić al “genocidio”, 2015: https://www.eastjournal.net/archives/38747 (ultima consultazione: 31/12/2024).

Il ponte sulla Drina. Ivo Andrić, 2015: https://lettureinviaggio.it/il-ponte-sulla-drina/ (ultima consultazione: 31/12/2024).

Visegrad: la Bosnia de Il Ponte sulla Drina di Ivo Andric: https://www.2backpack.it/visegrad-bosnia-ponte-sulla-drina-ivo-andric/ (ultima consultazione: 31/12/2024).

 

Apparato iconografico:

Immagine 1 e immagine di copertina: https://culturificio.org/wp-content/uploads/2016/05/Andric-foto-2-Fondazione-Belgrado.jpg

Immagine 2: https://almerighi.wordpress.com/2024/06/05/loscurita-di-ivo-andric/

Immagine 3: https://extinguishedcountries.com/it/il-premio-nobel-contro-laustria-ungheria/