“Dopo vent’anni, finalmente vogliamo tornare a casa”: guerra e non-ritorno tra Ágota Kristóf e Sándor Márai

Nicolò Dal Bello

 

Abstract:

“After Twenty Years, We Finally Want to Go Home”: War and Non-return between Ágota Kristóf and Sándor Márai

The following contribution analyses the memorial and autobiographical component in novels where Ágota Kristóf’s memories converge in the creation of traumascapes and the subsequent loss of these roots, culminating in a stateless and often aphasic condition. The analysis focuses on Le Grand Cahier (The Notebook, 1986), the first novel in the Trilogy of the City of K. By comparing Kristóf’s narrative approach with that of Sándor Márai, the study explores the narrative and autobiographical methods employed to transpone personal experiences into literary form. The aim is to identify the subtle link between fiction and autobiography, encapsulated in the question: “How does one become Ágota Kristóf?” This perspective highlights the uniqueness of a body of work that, through a formal linguistic detachment from Hungarian roots, reflects the author’s self-imposed isolation and the way trauma shapes her writing.


Quando si parla di traumascapes ci si riferisce a paesaggi – fisici, mentali o emotivi – influenzati o formati da esperienze traumatiche. In ambito letterario, tale concetto può essere esplorato attraverso la rappresentazione di luoghi che riflettono o rievocano turbamenti e memorie sconvolgenti, descrivendo degli ambienti che sono stati scenario di eventi traumatici o attraverso la rappresentazione di paesaggi interni che convergono alla mise en page di un traumascapes e la perdita dello stesso, fino all’apolidia.

Lo scenario mitteleuropeo di metà Novecento, con la stabilizzazione del dominio sovietico nei suoi paesi satelliti, riflette perfettamente le dinamiche di un traumascapes nazionalmente e culturalmente radicato nella memoria dei suoi esuli. Passando dal generale al particolare, si ponga il focus su quella diaspora magiara che vide il suo inizio nell’estate del 1949, quando il Partito comunista ungherese prese il controllo di tutti gli aspetti della quotidianità dando il via ad un’atmosfera oppressiva e carica di minacce ai legami sociali, alla sicurezza economica e alla libertà personale, lasciando a quegli intellettuali rifiutanti il dogmatismo del regime solo limitate linee d’azione: accettarne i principi e produrre opere dalla forte impersonalità, scrivere per la stampa sotterranea, intraprendere la via dell’esilio fisico o “interiore”, scrivendo soltanto per “il cassetto della scrivania” (Cfr. Mészöly 1989). Quelli che in Ungheria soffrirono gli orrori della guerra, la devastazione del paese e un’ideologia aliena che sarebbe durata per cinquant’anni possono essere caratterizzati come la “generazione isolata”, tagliati fuori da quell’Occidente in cui la loro cultura millenaria era in gran parte radicata.

Per questi autori la sola forma di esistenza possibile era attraverso l’opera letteraria, poiché capace di rintracciare “una ‘Pannonia’ interiore inalienabile” (Cfr. Mészöly 1989). Vi furono però una serie di intellettuali che intrapresero la strada dell’esilio volontario, lasciando la madrepatria per poter continuare all’estero l’attività letteraria intrapresa in Ungheria ma stroncata con la presa del potere della dittatura del realismo socialista. In tal modo l’attività letteraria degli scrittori dell’emigrazione significò – oltre alla loro opposizione politica e morale contro il regime totalitario – anche la “continuità” delle maggiori tendenze della letteratura moderna e contemporanea ungherese.

Nel contesto dell’esilio la scrittura si fa spesso minimalista, diventando una critica alla condizione essenzialista a una letteratura strettamente legata a una lingua determinata dall’identità tradizionale: il soggetto si fa discontinuo, la potenza del linguaggio debole, i luoghi di nascita dei paesaggi traumaticamente connotati. Esistono però dei casi nei quali la scrittura minimalistica sceglie di affrontare corpo a corpo sia la discontinuità del soggetto reciso che la potenza del linguaggio straniero, chiarendo nella letteratura un nuovo aspetto etico che è la realizzazione di un’intenzione, di una scelta derivante dalla situazione di ambivalenza linguistica tipica dell’esilio.

Il sottile filo che lega fiction, autobiografia e guerra si può riassumere nella domanda “Come si diventa Ágota Kristóf?”. Questa sottolinea l’unicità di una produzione caratterizzata da un monolinguismo che sembra cancellarne la formazione ungherese, sottolineando al contempo il forte auto-isolamento che l’autrice si impose. Con l’emigrazione in Svizzera nel 1956 – dopo la fallita rivoluzione contro lo strapotere sovietico –, il translinguismo della Kristóf si fece condizione imposta, avversario di una “lingua nemica” che nella discontinuità del soggetto fece della sua opera un’etica realizzazione del proprio passato. Quell’Europa centrale che “c’era una volta” prima della guerra ritornò sotto forma di non morto, in cui l’emersione dell’indicibile si fece biografia linguistica e non tema letterario. Se – come riporta Roland Barthes – “la lingua è quindi al di sotto della letteratura” (Barthes 2003: 16) e “sotto il nome di stile si forma un linguaggio autarchico che sprofonda solo nella mitologia personale e segreta dell’autore” (Barthes 2003: 16), nei romanzi della Kristóf sono da cogliere quei riferimenti che sono al livello di una biologia, di un passato che è la solitudine di un altro autore indifferente e trasparente alla società costretto a dire l’indicibile filtrando il trauma per mezzo di una lingua nemica.

Nella Trilogie des jumeaux (“Trilogia della città di K”, 1998) questa scrittura minimalista si esprime appieno. Nel primo volume del trittico, Le grand cahier (“Il grande quaderno”, 1986), si legge:

Siamo seduti al tavolo della cucina con i nostri fogli a quadretti le matite e il Grande Quaderno. Siamo soli. […] Alla fine delle due ore ci scambiamo i fogli; ciascuno corregge gli errori di ortografia dell’altro con l’aiuto del dizionario e, in fondo alla pagina, scrive: Bene o Non Bene. […]

Per decidere se è Bene o Non Bene, abbiamo una regola molto semplice: il tema deve essere vero. Dobbiamo descrivere ciò che vediamo, ciò che sentiamo, ciò che facciamo. […]

Le parole che definiscono i sentimenti sono molto vaghe; è meglio evitare il loro impiego e attenersi alla descrizione degli oggetti, degli esseri umani e di sé stessi, vale a dire alla descrizione fedele dei fatti.” (Kristóf 1998: 26-27)

Il commento del narratore omodiegetico in questo romanzo opera di “due gemelli che scrivono il loro diario” mentre la città dove vivono è assediata dalla guerra mostra che la verità e la fedeltà ai fatti sono l’intenzione primaria dell’affermazione minimalista: “dobbiamo descrivere ciò che è, ciò che vediamo, ciò che sentiamo, ciò che facciamo” (Kristóf 1998: 26). Nel mondo dove esistono la lingua madre e le lingue nemiche, la scrittura è l’interminabile marcia destinata a superare l’“analfabetismo” dovuto alla tirannia simbolica della lingua del paese ospitante.

La scrittura bianca, che secondo Barthes è scrittura neutra, liberata da un marcato ordine di linguaggio (Cfr. Barthes 2003), è strettamente legata al discorso dell’esilio e della guerra. Non si tratta solo di alienazione, sradicamento e isolamento, ma anche di esperienze traumatiche estreme, della cosiddetta scrittura dei limiti. Il concetto di traumascapes mostra al massimo la sua influenza nella Trilogia, inserendosi tra diverse forme di interazione tra mondi simbolici dello spazio ideologico comune – dal feroce confronto al compromesso fino all’accordo – la creazione attraverso l’ibridazione letteraria una nuova realtà: “L’œuvre littéraire cherche précisément à rendre une cohérence au monde, à travailler, du cœur de cet éclatement et de cette insécurité, à une unité symbolique” (Moura 1999: 55).

Noël Cordonnier propone due modelli di ricezione della Trilogia della città di K secondo il rapporto con la lingua e la cultura franco-svizzera. Da un lato, la lettura può essere dispiegata nella prospettiva essenzialista, secondo la quale la scrittura minimalista di Kristóf, liberata dal registro affettivo, è la scoperta della “natura” cartesiana del francese, lingua della chiarezza, della ragione e filosofia (Cfr. Cordonnier 2001). D’altra parte, il linguaggio della Trilogia è distaccato dal contesto letterario francese e funziona eccezionalmente come mezzo di comunicazione neutrale. Da questo punto di vista, la non identificazione delle lingue di Kristóf testimonia la natura traumatica del legame lingua-identità, per il quale l’Europa continua a pagare un prezzo troppo alto a causa delle sue esagerate fantasie imperialiste. Se la periferia significa la rottura tra l’enunciazione stessa e lo spazio in cui si dispiega, la convivenza linguistica e letteraria genera mondi simbolici funzionanti come sistemi di legittimazione della realtà sociale che esercita l’influenza cognitiva e normativa sulla scrittura del soggetto: l’universo simbolico si presenta quindi come una “matrice di tutti i significati” (Cfr. Moura 1999).

La scrittura dell’esilio è un modello di scambio complicato, quello che Jean Rousset chiama “scambio impedito” e “scambio proibito” (Cfr. Rousset 1990): non solo il destinatario è inaccessibile o assente, ma la sua esistenza reale è costantemente messa in discussione. Per i personaggi di Kristóf, così come per l’intera generazione degli esuli, l’esilio è soprattutto una catastrofe comunicativa e la disperata ricerca di mezzi per riallacciare i legami. I segni della finzione nei testi di Kristof rimandano in un modo o nell’altro alla scrittura, al mero fatto di scrivere: in questo senso sono esemplari gli elementi paratestuali della Trilogia dove il titolo del primo romanzo parla da solo, e gli altri due sono sinonime parafrasi del “quaderno”, di un manoscritto, che è “la prova” nel secondo romanzo e “la menzogna” nel terzo. Ciò che è scritto, è per sua natura inventato, perché la parola non riflette la realtà ma la trasforma. La questione della sincerità, importante per il minimalismo kristofiano, imposta una serie di strategie narrative, tra cui il minimalismo di Kristóf è una forma di autolegittimazione di fronte al conflitto dei mondi simbolici linguistici e alla tentazione di evidenziare l’identità incerta dell’esiliato. Ma si tratta davvero di ristabilire l’ordine dell’identità simbolica?

Se il rifiuto di parlare e scrivere nella propria lingua madre è il punto di partenza per la creazione di una nuova identità culturale che nell’utilizzo della lingua francese spoglia il proprio passato di ogni legame affettivo e traumatico per una nuda verità – inserita in una nuova dimensione spazio-temporale illimitata capace di colmare il vuoto dell’esilio e di dare una nuova ragione di esistere –, e se come riporta il critico letterario Jean Rousset la scrittura dell’esilio è un modello di “scambio impedito” (Cfr. Rousset 1990), poiché il destinatario è inaccessibile e la sua esistenza è messa in discussione da una modalità di scrittura compromettente, è possibile affermare come nell’opera kristofoniana la parola non rifletta la realtà, ma la trasformi, costruendo un mondo parallelo dove il trauma dell’esilio evolve da catastrofe comunicativa a tema letterario capace di riallacciare i legami della propria “Pannonia interiore”, che però non corrisponde nel ritorno a casa non corrisponde più ai propri ricordi.

Un tempo, quando ci sono arrivato io, era una deliziosa cittadina col suo lago, il suo bosco, le sue vecchie case basse, i suoi numerosi parchi. Adesso un’autostrada la separa dal lago, il bosco è devastato, i parchi sono scomparsi, alti casamenti nuovi l’hanno imbruttita. Le sue vecchie stradine strette son ingombre di automobili fin sui marciapiedi. Al posto delle vecchie osterie ci sono degli anonimi ristoranti e dei self service in cui si mangia in fretta, talvolta perfino in piedi. Guardo questa città per l’ultima volta. non ci tornerò più, non voglio morire qui.” (Kristóf 1998: 289)

L’esperienza della sofferenza o del dolore fonda il soggetto sia fisicamente che temporalmente in uno stato di stasi dove né il tempo né lo spazio possono avanzare. Nella spazio-temporalità kristofoniana sono presentati a partire dal primo romanzo della trilogia ritmi e spazi lenti, confusi, continuando a fuggire anche nel secondo volume, La preuve (“La prova”, 1988). È solo ne Le troisième mensonge (“La terza menzogna”, 1991) che gli spunti autobiografici fino a quel momento lasciati sotto la superficie della carta si fanno preponderanti e sinceri, smentendo tutta la narrazione precedente e spostando l’attenzione da un mondo di magico naturalismo a una realtà concreta e da riscoprire sia nella lettura che nel fisico ritorno a casa: “Da qui vedo tutta la città. La città dove ho vissuto quasi quarant’anni” (Kristóf 1998: 289).

Lo spazio metropolitano diventa l’esperienza del futuro nella traumatica riscoperta di un passato che la guerra ha cancellato, il ritorno da una regressione temporale di apprendimento infantile verso la realistica realizzazione del presente: “Cammino per le strade della città della mia infanzia. È una città morta, le porte e le finestre delle case sono chiuse, il silenzio è totale” (Kristóf 1998: 277). Se la “piccola città” di Claus e Lucas faceva sperimentare al lettore l’assenza di una degenerazione tecnologica, il ritorno al presente segnala un vuoto temporale dovuto alla riabilitazione di un tempo lineare, la ricostruzione delle strutture cronormative che sembrano obbligare l’autrice a un confronto con un presente dal quale è fuggita per troppo tempo.

“«[…] Lei viene da lontano, non è vero?»

«Sì, da molto lontano. Da un altro paese.»

Gli do una banconota ed entro nell’albergo.

Scelgo una camera d’angolo, da lì vedo tutta la piazza, la chiesa, la drogheria, i negozi, la libreria. […] Mi metto davanti a una delle finestre della mia camera, guardo la piazza, le case fino a tarda notte.

Da piccolo ho sognato di abitare in una delle case della piazza Principale, una qualsiasi, ma in particolare la casa azzurra dove c’era, dove c’è sempre una libreria.

Ma in questa città ho abitato soltanto nella casetta scalcinata di «Nonna», lontano dal centro, ai confini della città, vicino alla frontiera.” (Kristóf 1998: 296)

La casa della nonna dove il narratore de La terza menzogna afferma di aver vissuto è sovrapponibile alla nuova vita dell’autrice in Svizzera, oltre la frontiera del suo paese natale. Kristóf, dietro la maschera del suo personaggio, si ritrova a casa ma spaesata e smarrita in un mondo che ormai non le ricorda più nulla: entrambi sono andati avanti, trasformandola in uno straniero.

“«Se posso fare qualcos’altro per lei… Vedo che lei è forestiero»

«E da cosa lo capisci? […]»

«Nella nostra città nessuno porta dei vestiti come i suoi. E le persone della nostra città hanno tutte la stessa faccia. Una faccia conosciuta, famigliare. Le persone della nostra città, anche se non si conoscono di persona, si riconoscono. Quando arriva uno straniero, lo si nota immeditatamente. […]»

Parte in direzione della città, ma invece di prendere la strada principale, svolta a destra, in una stradina polverosa, e si siede tra due cespugli. Io mi siedo accanto a lui e chiedo:

«Sta cercando di nascondersi? Perché?»

mi domanda:

«Conosci la città?»

«Sì, perfettamente».

«E la frontiera?»

«Anche. […]»

«Dove abiti?»

«A casa mia. Nella casa di Nonna che è morta. […]»

«Dov’è la tua casa?»

«All’altro capo della città. Vicino alla frontiera».” (Kristóf 198: 301)

L’esperienza nel terzo romanzo è una sorta di non ritorno, il ritrovarsi in una città allo stesso tempo familiare e sconosciuta, nella quale l’estasi e la gioia del rientro lasciano pian piano spazio alla consapevolezza che la casa a lungo sognata è ridotta in cenere. Ma per realizzare come e quanto lentamente questa combustione avvenga, può tornare utile l’esperienza di Sándor Márai.

Il fatto di essere nato sotto l’Impero austro-ungarico caratterizza in Márai un’infanzia bilingue divisa tra l’ungherese e il tedesco. Nella prima produzione si nota l’emergere alcune costanti che si cementificheranno nei romanzi dell’esilio, tra cui la riflessione sulla condizione disperata della letteratura ungherese imprigionata nel suo idioma e vittima non soltanto di una lingua muta, ma di una tragedia storica e nazionale che finisce con l’universalizzarsi dietro l’idea che qualsiasi idioma costituisca una “barriera eterna” (Cfr. Papp 2021). Le ricerche sugli scritti personali che compongono Il diario – ad esempio il volume di Judit Papp Lingua, identità e una Babele linguistica. Riflessioni di Sándor Márai nelle sue opere autobiografiche (2021) o il saggio di Roberto Ruspanti Sándor Márai: la duplice perdita della patria e il tormento dell’esilio (2013) – mettono in luce l’evoluzione del nostro autore e della sua “carta di identità” (Cfr. Papp 2016), che annichilerà progressivamente la personale considerazione di uomo ungherese che si riconosce nella lingua ungherese portandolo a identificarsi con il solo linguaggio materno: “Ho un legame con la mia anima e con la lingua ungherese; con alcuni libri, paesaggi, poesie, in ungherese. Tutto il resto è indifferente e senza speranza.” (Márai 2006: 94)

Márai, che non desiderò mai di vivere da “straniero” – ma neppure da uomo profondamente offeso – scelse di ritirarsi dentro la sua madrelingua, abbandonando la società ma non il contratto stipulato con la sua identità interiore. “Uno scrittore può vivere e lavorare soltanto nell’atmosfera della lingua materna, e la mia lingua materna era l’ungherese” (Márai 2011: 87), mentre qualunque lingua straniera diventa soltanto una “stampella” per autori incapaci di vivere la propria identità fuori dai confini nazionali. Una condizione di alienazione che dalle pagine del Diario si riversa nei successivi romanzi – trascurati dai vari contributi critici alla produzione maraiana –, che rispondono a un’Ungheria traumatica fondando una sorta di “Pannonia interiore”.

Prima del definitivo esilio, Márai visse però un ulteriore allontanamento non dalla sua terra natale, ma dal piccolo paese della sua infanzia, Kassa (ora Košice in slovacco). Dopo il Trattato del Trianon e il depauperamento del territorio ungherese, nel corso del secondo conflitto mondiale l’Ungheria fu in grado di riannettere il Felvidék – l’Alta Ungheria – dalla Cecoslovacchia grazie all’assistenza di Hitler e Mussolini. Il popolo ungherese aveva reclamato per anni una revisione dei trattati di pace: il 2 novembre 1938 fu firmato il Primo Arbitrato di Vienna e nello stesso periodo Márai fu nominato corrispondente militare del Pesti Hírlap e assegnato alle truppe di liberazione ungheresi. Il resoconto che ci è giunto ritrae geografie e paesaggi carichi di emozioni, nonché la gioia sincera degli ungheresi che tanto avevano sognato un’Ungheria riunita. Negli anni precedenti Márai aveva mantenuto la città nella coscienza del pubblico compatriota mediante numerosi scritti sul destino della città, “come se qualcuno preparasse un referto burocratico di una ferita di cui una persona si era dissanguata” (Cfr. Papp 2021): per Márai la riannessione di queste regioni al Regno d’Ungheria non era assimilabile a un’occupazione, ma il ritorno alla città della sua infanzia e del passato, “della generazione di suo padre e di uno spirito del tutto singolare” (Cfr. Papp 2021): “la mia unica ‘patria’ sarebbe rimasta sempre l’Alta Ungheria” (Márai 2003: 426).

Il traumascapes caratterizzerà profondamente l’esperienza di Márai durante il suo ritorno a casa. A tal proposito, nell’articolo “Sándor Márai sulla riannessione di Felcidék”, Judit Papp cita uno scritto dal titolo Káldor, pubblicato il 25 dicembre 1931 sul quotidiano Újság e nel quale l’io narrante racconta i dettagli di un incontro avvenuto con un ex-compagno di scuola: viene sottolineato il fatto che la loro città natia era stato il luogo non solo della loro istruzione e infanzia, ma anche di un certo spirito, fino a far trasparire una preoccupazione verso un territorio che potrebbe non corrispondere più ai loro ricordi ed essere cambiato rispetto al passato. I timori si tramuteranno in realtà durante il ritorno in città nel 1935: l’autore non riconosce più i luoghi del suo passato e non concepisce le trasformazioni dovuto al progresso, fino a venire assalito dall’amarezza e nostalgia di fronte alla sua vecchia casa, ora abitata da sconosciuti.

Sì, tutto è rimasto esattamente com’era quando l’ho lasciato qui. Camminavo distratto, tutto era al suo posto, tutto molto curato, persino migliorato, eppure mi sembrava che a tutto questo mancasse qualcosa. Questo “qualcosa” era naturalmente l’infanzia, la mia infanzia, non c’è nulla di misterioso al riguardo. Tutti quelli che tornano a casa passeggiano così. Ma cosa dovrebbe fare una persona nella sua città natale, senza la propria infanzia?” (Márai 2005: 28)

Quando, nel 1938, nel contesto della citata riannessione, farà nuovamente ritorno a Kassa, la disillusione avrà ormai preso completamente il sopravvento, e la città – come accadrà decenni dopo per Kristóf – esisterà solo nei suoi ricordi e nel suo spirito. La loro infanzia appartiene ora alla carta e al passato. Le sue ultime parole su Kassa risalgono al giugno del 1983, a distanza di vari decenni, e sono cariche di accuse per le ingiustizie e le colpe di cui l’Ungheria si è macchiata negli anni della guerra. Riflettono soprattutto la condizione di apolide a cui è stato costretto per più di trent’anni: un uomo traumatizzato, che ha visto i luoghi della sua infanzia trasformarsi in un traumascape che non ha più nulla da trasmettergli, se non dolorosi ricordi di un passato che non tornerà.

Un milione di persone furono cacciate dalle loro case, espropriate delle loro case, proprietà e diritti sociali. Ora, solo qua e là, si leggono timidi resoconti di questa umiliazione. Della splendida Kassa, trasformata in un accampamento di zingari. Allo stesso tempo, alcuni ricordi parlano della delusione che seguì la riannessione dei territori ungheresi […]. Ogni ungherese attendeva quel momento, anche mio padre, anch’io, tutti avevamo lavorato con ogni mezzo immaginabile per la revisione pacifica – e quando arrivò la riannessione, che si rivelò deforme e grottescamente paradossale per l’Ungheria tra le due guerre, nel Felvidék si insediarono l’arroganza, la millanteria, i privilegi di classe, e tutte le caratteristiche del parassitismo ufficiale. La delusione fu umiliante.” (Márai 2018: 135)

Il narratore che ammette che la storia raccontata è una bugia vive un momento di sincerità nei confronti del lettore: in quest’ottica, il terzo romanzo di Kristóf considera la questione della sincerità non solo all’interno del testo di finzione, ma nel quadro generale dell’enunciazione: può il soggetto dell’enunciazione essere veramente sincero fino a quando in fondo non prende in considerazione il fatto che la sua identità non è mai unitaria , che la sua parola è condizionata dall’inconscio, dall’appartenenza linguistica, culturale, ideologica, e soprattutto dal ricordo, dal rimpianto, almeno fino a che non è messo di fronte alla verità che caratterizza un mondo che non può più essere trasfigurato per iscritto. Essendo permanentemente messa in discussione, l’identità instabile dell’”io” narrante – che molto spesso è l’”io” che scrive – impedisce al lettore di soccombere a due tipi di illusione, referenziale e fittizia, perché abbellire significava rifiutarsi di descrivere questa solitudine, inventando una vita insieme, in cui l’autorealizzazione fosse possibile. Di conseguenza, il problema della sincerità nell’opera di Kristóf viene risolto mediante la doppia negazione: il primo fine pragmatico dell’atto finzionale, quello di creare un mondo inventato, viene demistificato dall’osservazione della realtà contemporanea.

Per quanto Kristóf abbia voluto lanciare la sua sfida “analfabeta” di creazione di una nuova identità capace di affrontare il trauma, non si può comunque parlare di un impulso puramente nostalgico. A differenza di Márai, “chiuso” nella sua lingua e nei suoi ricordi, lo sbugiardamento di una terra fittiziamente idilliaca è il finale tentativo della sua ricostruzione di significato, della conquista di un nuovo territorio – quello della lingua e della terra francofona – e, attraverso quest’ultima, del suo futuro e della letteratura: “Penso solo che lei confonda la realtà con la letteratura. La sua letteratura. Penso anche che debba tornare nel suo paese, riflettere un po’ e poi ritornare. […] Lo auguro a lei, e a me” (Kristóf 1998: 314).

 

 

Bibliografia:

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Noël Cordonnier, “Deux modèles de reception de la ‘trilogie’ d’Ágota Kristof, dans La langue de l’autre ou la double identité de l’écriture”, in Littérature et nation, Vol. 24, 2012, pp. 85-100.

Roberto Ruspanti, Sándor Márai: la duplice perdita della patria e il tormento dell’esilio, in Per Roberto Gusmani 1. Linguaggi, culture, letterature, Udine, Forum, 2012, pp. 451-464.

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Sándor Márai, A teljes napló 1957-1958, Budapest, Helikon, 2011. La traduzione degli estratti è stata fatta per l’occasione da me N.D.B.

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Apparato iconografico:

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