“Descrivevo conflitti armati, scelte storiche, svolte storiche”. Intervista a Wojciech Jagielski

Intervista a cura di Martina Mecco e Marco Jakovljević

Traduzione a cura di Giulio Scremin

 

Abstract

“I Described Armed Conflicts, Historical choices, Historical Breakthroughs”. Interview with Wojcieh Jagielski

Wojciech Jagielski is one of the most significant voices of contemporary Polish reportage. The interview explores his work as a reporter from the beginning of his studies in Poland and then focuses on his experience in the Chechnyan wars.


Wojciech Jagielski rappresenta una delle voci più significative del reportage polacco contemporaneo. L’intervista indaga la sua attività di reporter dall’inizio dei suoi studi in Polonia per poi concentrarsi nello specifico sulla sua esperienza nelle guerre cecene. Andergraund Rivista ringrazia Jagielski per aver concesso l’intervista avvenuta tramite uno scambio di email nello scorso inverno.

© Grażyna Makara

Andergraund Rivista: Buongiorno, la ringraziamo per aver accettato di rilasciare questa intervista per Andergraund Rivista. Leggendo la sua biografia c’è un dettaglio riguardo i suoi studi che risulta interessante. Nel 1981, anno in cui in Polonia le autorità comuniste proclamarono la legge marziale, lei, studente di scienze politiche, si dedicò agli studi africani. Perché proprio questa scelta?

Wojciech Jagielski: Non cambiai percorso di studi: continuavo a studiare Relazioni internazionali alla Facoltà di Giornalismo e Scienze politiche, ma decisi di arricchire il mio piano di studi con materie di Africanistica. L’Africa e la sua storia erano già di particolare interesse per me. Avevo buoni voti e feci domanda per ottenere un piano di studi individuale. Ciò mi permise di dedicarmi agli studi africani e mi esentò dalla frequenza di corsi che ritenevo del tutto inutili o non interessanti. Durante il periodo della legge marziale era obbligatoria la frequenza a tutte le lezioni. Con un piano di studi individuale, non ero più soggetto a questo obbligo.

 

AR: In seguito, ha iniziato a occuparsi del Caucaso, da quel che leggo, perché i suoi superiori non erano abbastanza interessati all’Africa. Cosa l’ha portata a interessarsi del Caucaso? 

WJ: I miei superiori all’Agenzia di Stampa Polacca (Polska Agencja Prasowa, PAP) erano sicuramente interessati all’Africa. All’epoca, a metà degli anni Ottanta, l’agenzia aveva corrispondenti ad Algeri, al Cairo, a Nairobi e si stava preparando ad aprire anche un ufficio ad Harare (con l’intenzione di un successivo trasferimento a Johannesburg). La PAP tuttavia era e rimane un’agenzia governativa e il suo budget dipende dallo stato di salute dell’economia polacca. Nella seconda metà degli anni Ottanta, quando mi unii all’agenzia, la Polonia stava attraversando la crisi più profonda dalla fine della Seconda guerra mondiale. Il mio capo di allora non mi nascose che per l’Africa non ci sarebbero stati soldi. Del resto, l’Africa non è mai stata, non è e probabilmente mai sarà la principale area di interesse dell’editoria e del pubblico polacco. Grazie a Dio non siamo stati una potenza coloniale, non avevamo e non avevo avuto molta esperienza o contatti con l’Africa. E poi c’era Kapuściński! In Polonia si pensava che tutto ciò che era interessante e importante da sapere sull’Africa fosse già stato scritto da Kapuściński. Il mio capo mi propose allora di occuparmi del sud dell’Unione Sovietica, del Caucaso e dell’Asia Centrale, senza rinunciare all’Africa. Mi disse che per i viaggi in quelle regioni ci sarebbe sempre stata disponibilità economica. Sottolineò anche che nella professione giornalistica non c’è niente di più prezioso dell’esperienza personale e dell’opportunità di conoscere le persone e i Paesi di cui si scrive. Aveva ragione, perché fu nel Caucaso che iniziai la mia pratica giornalistica e dal Caucaso, con un percorso tortuoso che ha attraversato l’Asia Centrale e l’Afghanistan, sono poi arrivato all’Africa, a cui non ho mai rinunciato. 

 

AR: Ha un aneddoto particolare, un luogo o una situazione che l’ha colpita per quanto riguarda l’esperienza caucasica?

WJ: Ne ho parecchi. Ho assistito alle guerre in Nagorno-Karabakh, in Abkhazia, in Ossezia del Sud, alla guerra civile in Georgia, alle guerre cecene. Quello che mi ha colpito di più nel Caucaso è stata forse la dolorosa disillusione dei suoi abitanti nei confronti della libertà cadutagli addosso dopo il crollo dell’Unione Sovietica. L’hanno desiderata, l’hanno pretesa, ma la loro idea di come sarebbe stata la loro vita in questa libertà si è rivelata essere dolorosamente diversa dalla realtà. Come giornalista, sono rimasto molto colpito dagli incontri, dalle conversazioni e dalla conoscenza che ho avuto con i principali protagonisti di quei drammi: Aslan Maskhadov, Shamil Basayev, Abulfaz Elchibey, Zviad Gamsakhurdia, Eduard Shevarnadz, Mikheil Saakashvili. Tbilisi divenne un luogo speciale. Non la scelsi personalmente come base operativa, ma la Georgia e la sua capitale lo diventarono soprattutto grazie alla loro straordinaria ospitalità. A parte la Polonia, l’Afghanistan, l’India e il Sudafrica, in nessun altro posto ho vissuto come in Georgia. Vi associo solo bei ricordi. 

 

AR: Si può raffigurare il Caucaso come un mosaico di stratificazioni linguistiche e culturali. Dopo il crollo dell’URSS si è accentuata la complessità di questa regione, lacerata da conflitti che continuano ancora oggi. Questo aspetto emerge chiaramente nei suoi scritti. In particolare, mi ha colpito quanto afferma in Le torri di pietra. Se non sbaglio, nel momento in cui lei si trovava in Daghestan, ha osservato come la libertà fosse una forza pervasiva che, in molti casi, aveva conseguenze catastrofiche. In che cosa consiste questa catastrofe? Crede che questo fragile equilibrio della libertà sia ancora oggi attuale?

WJ: Non la definirei una catastrofe, ma per gli abitanti del Caucaso non è stato facile scoprire che non è possibile appropriarsi di tutta la libertà per se stessi, che anche i vicini e persino i nemici hanno diritto alla libertà e che vivere in armonia significa accettare questa realtà al prezzo di una libertà limitata. E che libertà significa anche assumersi la piena responsabilità della propria libera scelta. Una volta, viaggiando per il Caucaso, dal Daghestan alla Cecenia, ai bordi di una strada nei pressi dell’aul di Gunib mi è capitato di leggere questa frase incisa su un masso: “Chi pensa alle conseguenze, non sarà un eroe”. Ma senza conseguenze, senza un’assunzione di responsabilità, la libertà è anarchia, non eroismo. L’hanno imparato a caro prezzo. L’equilibrio tra libertà e responsabilità è un obiettivo che si persegue, non qualcosa che si raggiunge una volta per sempre.

© Grażyna Makara

 

AR: Riguardo alla Polonia, lei ha coperto eventi storici che stavano scoppiando proprio durante la fine del comunismo in Polonia e l’inizio, quindi, di una inizialmente dura transizione economica, politica e sociale. Come ha vissuto questi cambiamenti? Come hanno influito, se lo hanno fatto, nel suo lavoro?

WJ: Il cambiamento politico avvenuto mentre stavo entrando nell’età adulta ha plasmato la mia vita. Non solo la mia vita professionale, non esagero. Se non fosse avvenuto tale cambiamento con ogni probabilità non avrei fatto il giornalista e il giornalismo per me è diventato più di una professione: uno stile di vita. Durante il comunismo il mio tipo di giornalismo non era possibile, per motivi politici. Mi rendo conto di essere stato tra i beneficiari di questa trasformazione, anche se non sono mai stato impegnato politicamente, nemmeno sul fronte dell’opposizione. Per una felice coincidenza ho potuto fare il giornalista nel periodo di transizione tra la tirannia della censura e la forse peggiore tirannia del mercato e di internet. Inoltre il mio primo viaggio giornalistico, verso il Caucaso e l’Asia centrale, è stato verso Paesi nati dalla caduta dell’Unione Sovietica e del comunismo. La mia esperienza di vita in un regime comunista, caduto quando avevo ventinove anni, mi ha reso più facile comprendere i problemi di quei Paesi e di quelle società, anch’esse alle prese con una trasformazione simile a quella della Polonia. Credo che queste esperienze comuni, unite alla conoscenza della lingua russa imposta dalla scuola, mi abbiano permesso di capire meglio rispetto ai miei colleghi dell’Europa Occidentale i georgiani, i ceceni o gli uzbeki. Ho iniziato a lavorare per l’Agenzia di Stampa Polacca e, dopo la caduta del comunismo, sono entrato a far parte di “Gazeta Wyborcza”, il primo giornale indipendente in Polonia e nell’Europa orientale dopo la Seconda guerra mondiale. A Gazeta sono arrivato nel suo momento migliore, quando aspirava a entrare nella “Champions’ League” della stampa europea e giocare allo stesso livello del Guardian, di Le Monde, El País o Repubblica. Mai prima e mai dopo nessun quotidiano in Polonia ha offerto opportunità professionali così grandi come “Gazeta Wyborcza” negli anni Novanta. 

 

AR: Lei ha passato parecchio tempo in Cecenia e ha dedicato un po’ di sue opere alle guerre cecene. Cosa ha lasciato in lei quel conflitto? Che rapporto ha oggi con la Cecenia?

WJ: La Cecenia e il Caucaso sono stati tra i temi più importanti che ho trattato come giornalista. Appartenevo a una specie di giornalista ormai estinta o in via di estinzione, specializzata in argomenti specifici e specifiche regioni del mondo. Nel mio caso, il sud dell’ex Unione Sovietica, che avevo esteso all’Afghanistam, al Pakistan, al Kashmir, al Nepal, al nord dell’India e all’Africa Subsahariana. I miei viaggi sono stati sempre e solo diretti là e ho viaggiato molto spesso per molti anni. Dalla prospettiva odierna, vedo che la Cecenia e la seconda invasione russa della Cecenia sono state fondamentali per l’era di Vladimir Putin. Ogni viaggio in Cecenia per me è stato un’esperienza cupa, o quantomeno difficile. Sono sempre stati rischiosi, avrebbero potuto rapirmi o incarcerarmi. Nel mio viaggio in Cecenia durante la seconda guerra cecena violavo consapevolmente e notoriamente la legge russa e per questo motivo sono stato inserito nella “lista nera” delle persone non desiderate. Ammetto di essermi meritato questo trattamento. Ancora oggi la Cecenia è un esperimento politico. Dopo la guerra si è installata la dittatura di Ramzan Kadyrov, che può servire come argomento di analisi della dottrina politica di Putin, della costruzione dell’odierno sistema Russia e delle caratteristiche dei leader russi. I Ceceni hanno sempre attraversato la mia vita: mi chiamavano quando arrivavano in Polonia come rifugiati, ancora oggi conservo qualche conoscenza ma la maggior parte dei miei interlocutori è morta. Ho l’impressione che i Ceceni si siano allontanati dalla guerra e dall’insurrezione armata quando si sono resi conto che rischiavano di subire lo stesso destino dei Circassi, annientati durante le guerre caucasiche del Diciannovesimo secolo. Oggi è più facile incontrare Circassi a Istanbul o a Damasco piuttosto che nel Caucaso. I ceceni temevano che per loro sarebbe stato lo stesso se non avessero immediatamente interrotto la guerra per sopravvivere come nazione. 

 

AR: Come si è evoluto, oggi, il suo sguardo nei confronti del Caucaso?

WJ: Non è tanto il mio sguardo a essersi evoluto, quanto la mia esperienza e la mia conoscenza. Il mio sguardo, le mie opinioni personali, tra l’altro, hanno poco a che fare con il mio giornalismo. Ho imparato a conoscere il Caucaso nella pratica e ho sempre considerato la possibilità di fare esperienza personale e di essere testimone oculare degli eventi di cui scrivevo come giornalista come la cosa più preziosa e importante che questa professione possa offrire. Vedere come nel Caucaso il concetto di libertà si scontri con la realtà, come le persone non siano pronte ad abbracciare questa libertà e ad accettare che la libertà non è poter fare ciò che si vuole ma dover fare scelte quotidiane e sopportarne le conseguenze è stata un’esperienza dolorosa. Nel Caucaso ho anche toccato con mano il potere distruttivo e spietato della guerra, là ho capito cosa intendeva Robert Fisk quando diceva che la guerra è la rovina dell’umanità. Nel Caucaso ho visto il nostro pregiudizio prevalere sui valori che proclamiamo. Fino all’11 settembre 2001 l’Occidente è stato solidale con i Ceceni e ha provato in qualche modo ad aiutarli nella loro miseria. Dopo l’11 settembre li ha visti solo come musulmani e i musulmani, tutti senza eccezioni, erano il nemico, i responsabili degli attentati al World Trade Center e al Pentagono, simboli del potere dell’Occidente. Infine, nel Caucaso ho potuto osservare come Vladimir Putin immagina la Russia e il mondo e come intende mettere in pratica questa sua visione.

 

AR: Lei ha avuto anche occasione, finalmente, di coprire i conflitti in Africa. Anche qui, cosa l’ha colpita, magari facendo un paragone coi conflitti nel Caucaso? Vista la sua preparazione accademica sentiva un senso di vicinanza maggiore ai luoghi di cui finalmente si stava occupando?

WJ: In effetti la mia strada verso l’Africa è stata particolarmente tortuosa, è passata non solo per il Caucaso ma anche per l’Afghanistan. A parte forse quando se ne occupava Kapuściński, l’Africa non è mai stata una priorità dei media polacchi. Solo quando a Gazeta Wyborcza si sono resi conto che le mie storie giornalistiche dal Caucaso e dall’Hindukush erano interessanti hanno preso il rischio di mandarmi in Africa. Sull’Africa sapevo più cose di quante ne sapessi quando ho iniziato a occuparmi del Caucaso e dell’Afghanistan, quindi in un certo senso mi sentivo più sicuro, o sicuramente meno insicuro di prima del mio primo viaggio verso il Caucaso. Sia nel Caucaso che in Africa descrivevo conflitti armati, scelte storiche, svolte storiche. Ogni conflitto, come ogni Paese, è diverso, ma le speranze, i sogni e, purtroppo, le delusioni sono simili.

 

AR: In quanto reporter, come avviene, nel suo caso, il processo di scrittura – c’è una distanza “meditativa” tra il momento dell’osservazione e quello dell’elaborazione scritta?

WJ: Per tutta la mia vita professionale ho lavorato principalmente come inviato, le direzioni e le destinazioni dei miei viaggi erano decise dagli eventi che si svolgevano nelle regioni che coprivo. Quando venivo inviato nel Caucaso, in Afghanistan o in qualche Paese africano, scrivevo la corrispondenza quotidiana. Era il mio dovere e spettava a me trovare qualcosa di speciale, un eroe o una storia da raccontare. Credevo di dover scrivere e basta, tutti i giorni, perché scrivere era ciò per cui ero stato mandato nel mondo. Solo quando tornavo a casa e di solito in un momento di riflessione, provavo a rispondere alla domanda: di cosa parlava tutto ciò? Cos’altro mi dicevano i fatti di cui ero stato testimone e descrivevo nelle mie corrispondenze quotidiane? Se fossi riuscito a rispondere a queste domande, allora, e solo allora, mi sarei seduto a scrivere un reportage, un racconto o un libro. È sempre stato così.

 

AR: Come si è comportato con i civili che ha incontrato durante le sue esperienze di reporter? Che ruolo hanno gli individui nei suoi scritti?

WJ: Ho incontrato persone di ogni tipo, chi aveva voluto le guerre e di esse viveva così come le vittime di queste guerre. Parlare con un carnefice o con una vittima è diverso, ma quando scelgo qualcuno come protagonista di una mia storia, gli dedico tutta la mia attenzione e la mia empatia. È più difficile entrare in empatia con qualcuno che risulta un farabutto o un criminale piuttosto che con una persona onesta vittima di qualcosa con cui non voleva avere niente a che fare. Se il mio interlocutore era un personaggio pubblico e la sua condotta era stata causa di quello che raccontavo, mi sentivo libero di giudicare lui o le sue azioni. Ma se il mio interlocutore non si è buttato da solo sul palcoscenico, ma l’ho trascinato io, come giornalista, rendendolo protagonista, mi sono sempre sentito responsabile di come la mia scelta giornalistica avrebbe potuto influenzare la sua vita. Sono ancora in contatto con molti dei miei personaggi, con alcuni più, con altri meno. Con Raymond Boardman, protagonista di Burning grass (“Wypalanie traw”, non tradotto in italiano) ho conservato una corrispondenza, sono rimasto per molto tempo in stretto contatto con Leila-Lara di All Lara’s wars (“Wszystkie wojny Lary”, anch’esso non tradotto in italiano) e con i miei ospiti ceceni di Le torri di pietra.

 

AR: All Lara’s Wars, che può essere concepito come un esempio forse “atipico” della sua produzione. Come ha avuto l’idea del libro e come ha filtrato la testimonianza di Lara?

WJ: Il libro è scaturito dall’incontro con Lara e dalla conversazione che ho avuto con lei. Sin dal principio sentivo che lei era a suo agio nel raccontarsi a me e io nell’ascoltarla. Ci capivamo senza parole. Non ricordo se il giorno precedente o quello successivo andai nella città di Gurjaani in Cachezia (Georgia) e mi imbattei nel monumento al Padre Soldato, protagonista di un film di guerra di epoca sovietica. Il film narra di un padre georgiano che parte per il fronte alla ricerca di un suo figlio soldato, riesce a incontrarlo quando già erano arrivati a Berlino e in quello stesso giorno il figlio muore. A quanto pare, il Padre Soldato del film veniva proprio da Gurjaani. E Lara era proprio come lui, una madre soldatessa che proprio come il georgiano di Gurjaani cercava di portare via i suoi figli dalla guerra. Il suo racconto ha finito per ingarbugliarsi. Ho conversato con Lara molte volte, soprattutto al telefono, tornando sui suoi racconti precedenti per vedere se stava raccontando la stessa storia e allo stesso modo. La parte della sua vita trascorsa in Cecenia e in Georgia ho potuto verificarla io stesso, o almeno renderla plausibile, poiché all’epoca lavoravo in entrambi i Paesi e vi ho trascorso molto tempo. La parte siriana, invece, ha necessitato di un fact-checking. Anche YouTube si è rivelato utile in questo caso; là ho potuto trovare le persone di cui parlava, compresi i suoi due figli. A parte tutto, ciò che ho ritenuto più importante nella storia di Lara non è tanto la realtà dei fatti, quanto la sua storia di madre soldatessa che non ha bisogno di sapere tutto della guerra che infuria intorno a lei, perché la sua unica preoccupazione è quella di salvare i suoi figli. 

 

AR: Quali tematiche predilige nei suoi reportage? Come affronta un tema così complesso come quello della guerra?

WJ: Non ho argomenti prediletti. È capitato che nel Caucaso, nell’Asia Centrale e in Africa, regioni sulle quali ero specializzato, non mancassero le guerre e come giornalista consideravo le guerre come la cosa più importante, che svuotava l’importanza di tutto il resto. Ho scritto quindi principalmente di guerre, ma non era il mio argomento preferito, era piuttosto un argomento che avevo studiato, compreso, reso mio. La guerra, se si capisce di cosa si tratta, non è poi la tematica tanto complessa che sembra. So per esperienza che nei luoghi di guerra è più facile convincere le persone a confidarsi (anzi, di solito non serve nemmeno convincerle) piuttosto che nella vita ordinaria. Nessuna persona normale si confida con un giornalista per caso o a prima vista. In guerra, invece, sono le persone stesse a farsi avanti per condividere le loro disgrazie, come se volessero lasciare una traccia di sé e della propria vita.

 

AR: La scuola di reportage polacca, iniziata da Ryszard Kapuściński, ha un ruolo fondamentale ancora oggi. Che ruolo ha avuto nella sua formazione il modello di Ryszard Kapuściński e quali sono gli altri suoi riferimenti?

WJ: Kapuściński non fu l’iniziatore della cosiddetta scuola polacca di reportage, ma uno dei suoi esponenti più famosi. L’inizio della scuola polacca viene fatto risalire agli anni Trenta e alle opere di Ksawery Pruszyński e Melchior Wańkowicz. Io, personalmente, non pensavo che sarei diventato reporter. Lo sono diventato come giornalista inviato, a un certo punto le mie storie hanno smesso di adattarsi alla forma e alle dimensioni dei bollettini di corrispondenza e un giorno qualcuno ha cominciato a chiamarle reportage. Ryszard Kapuściński e i suoi libri (non ho letto nessuno dei suoi articoli di giornale) mi sono stati di ispirazione, e l’ho conosciuto per più di vent’anni. Ho seguito un percorso simile al suo: corrispondenze per l’Agenzia di stampa polacca, reportage, libri. È stato per me un modello di perspicacia e di maestria letteraria, ma l’ho sempre e solo considerato uno scrittore.

 

AR: Lei ha collaborato a lungo con Gazeta Wyborcza, vuole parlare di questa sua esperienza? Qual è l’impatto sui lettori polacchi oggi? Qual è il rapporto tra i diversi media polacchi, in particolare tra televisione e stampa? Quale ruolo svolge il concetto di “verità”?

WJ: Da giornalista, non appartengo e non sono mai appartenuto al cosiddetto “ambiente giornalistico”. Non so nulla o quasi sulle relazioni tra le diverse redazioni, tra i diversi media o tra la stampa e la televisione. So per esperienza che, come ovunque, la televisione infetta i giornalisti che vi lavorano con una malattia professionale: la celebrità. Ho lavorato a Gazeta Wyborcza per più di vent’anni ed è stata una delle scelte più felici della mia vita. Gazeta non è stato soltanto il primo giornale indipendente dell’Europa Orientale dopo la Seconda guerra mondiale, ma anche il primo – e temo l’ultimo – a guardare al mondo con tanta ambizione e ad avere così grandi aspirazioni. Alla sezione esteri non ci confrontavamo con la concorrenza nazionale, ma con le omologhe sezioni di Le Soir, Le Monde, El País, del Guardian e del New York Times. Questi erano i nostri modelli e la nostra concorrenza. Gazeta ci offriva la possibilità di sopportare questa concorrenza. Se avessimo pubblicato il giornale in inglese, e circolavano idee in tal senso, si sarebbe scoperto che in diversi ambiti eravamo i migliori. Erano gli anni Novanta, poi le cose hanno iniziato solo a peggiorare. La stampa analogica decadeva e si impoveriva, e prendeva il sopravvento Internet, superficiale e vuoto ma istantaneo. E democratico, perché chiunque poteva esprimersi su qualsiasi questione e la loro voce contava quanto quella della massima autorità. Gazeta Wyborcza è nata come giornale liberale e tale rimane ancora oggi. Negli anni Novanta aspirava a educare la società che stava uscendo dal comunismo. Per molto tempo e in molti aspetti ci è riuscita. Forse questo successo le ha dato alla testa, perché ha cominciato a irritare con la sua arroganza e il suo tono predicatorio. Ha perso i suoi vecchi lettori, il rispetto e la rilevanza, ma rimane ancora il più grande dei giornali polacchi. Probabilmente ha condiviso il destino dei liberali: hanno voluto il meglio e hanno rovinato quasi tutto ciò che volevano fare di buono.

 

AR: Come vede l’evoluzione del reportage oggi in Polonia e all’estero? Sebbene sia una questione complessa, concluderei chiedendo cosa significhi essere un reporter. Quali responsabilità comporta nei confronti dei fatti e del pubblico?

WJ: Il reportage è soltanto uno dei vari generi giornalistici, e il reporter è un giornalista. Il giornalismo da sempre serve a uno e a un solo scopo: informare le persone sulle cose importanti. Questo non cambia, o meglio non dovrebbe cambiare, perché la realtà è che sta cambiando e troppo spesso il giornalismo assume la forma dell’intrattenimento. Come distinguere dunque le cose importanti da ciò che viene detto solo per attirare l’attenzione? Il giornalismo è buono se racconta il suo tempo, se usa il linguaggio del suo tempo e se è comprensibile al pubblico del suo tempo. Ma lo scopo della professione rimane lo stesso, anche se molti di noi giornalisti sembrano pensare di essere qualcosa di più importante di semplici fornitori di notizie sul mondo che ci circonda.

 

 

Apparato iconografico

Le immagini contenute nell’intervista sono ad opera della fotografa Grażyna Makara.