A cura di Martina Mecco
Abstract
Borders and Fronts. Interview with the Photographer Mateusz Baj
This interview explores the activity of the Polish photographer Mateusz Baj. Realised in october 2022 in Catania during the exposition Руїна (Ruїna, Rovina), this exchange was never published and waited for the right moment to appear. During the interview Baj describes his first two experiences in Ukraine as photographer, in 2013 and in 2022, and his other projects, such as “The borders”.
Nell’ottobre 2022 è stata inaugurata a Catania l’esposizione di alcuni lavori del giovane fotografo polacco Mateusz Baj, dedicati all’Ucraina: Руїна (Ruїna, Rovina). Si è trattato di una mostra organizzata da 2LAB all’interno di una rassegna fotografica annuale dedicata al tema della Libertà. Da un incontro con Mateusz nasce quest’intervista che, a distanza di più di due anni, vede per la prima volta la sua pubblicazione.
Per vedere i lavori di Mateusz, qui: https://www.bajwatch.com/photojournalism
MM: Ciao Mateusz, innanzitutto grazie mille per aver accettato di rispondere ad alcune domande. Vorrei iniziare col chiederti come è iniziato il tutto. Quando e come hai deciso di dedicarti alla fotografia?
MB: Penso di aver deciso di dedicarmi alla fotografia e di diventare un fotografo quando ero al primo anno dei miei studi in legge, ovviamente poi ho deciso che non sarei mai diventato un avvocato. Mi sono spostato a Varsavia, ho cambiato università e ho iniziato a studiare giornalismo. Ne ero ossessionato. Ero particolarmente attratto dalle immagini scattate da un tale che si chiamava Krzysztof Miller [Mateusz cita Miller e Koudelka tra i suoi “maestri” in ambito fotografico N.d.T.], un fotoreporter molto famoso che collaborava attivamente con i media polacchi coprendo guerre e conflitti. Quindi all’inizio ero ispirato da lui. Penso che sia stato proprio quello il momento in cui ho deciso di occupami di fotografia: mi piaceva, ne sapevo abbastanza. Quindi ho deciso di tentare.
MM: Ho visto che non hai solo un account di fotografia documentaristica (@bajmateusz) ma anche una in cui ti occupi di street photography (@bajwatch666). Con cosa hai iniziato?
MB: No, penso di avere iniziato a dedicarmi alla street photography solo da poco tempo a questa parte perché è, in un certo senso, meno “fotogiornalistica”. Inoltre, non lavoro più come fotografo. A volte mi capita di accettare qualche incarico. Questo è in parte dovuto al fatto che dopo essere stato in Ucraina la prima volta ho avuto una sorta di crisi con la fotografia, anzi due anni fa avevo anche addirittura deciso di smettere per sempre, di non toccare mai più la mia macchina fotografia. Poi a un certo punto mi sono accorto di avere ancora voglia di fare qualche bella foto, non per forza solo di guerra. Ho dunque optato per la street photography che per me è una sorta di gioco, non ha un vero e proprio significato ma lo faccio solo per divertimento.
MM: Prima e durante la presentazione della mostra hai parlato delle tue origini. Provieni da un villaggio polacco molto vicino al confine ucraino e a quello bielorusso. Uno dei primissimi tuoi progetti si chiama, non a caso, “The border”. Vorresti parlarmene? Lo avevi iniziato prima di interessarti alla guerra, giusto?
MB: Il mio progetto “The border” è stato interrotto dallo scoppio della guerra in Donbas, non è mai stato finito e probabilmente non riuscirò mai a finirlo. Il progetto era sulla comunità da cui provengo, che è profondamente stratificata. Sono originario distretto di Police [distretto che si trova nel voivodato della Pomerania occidentale N.d.T.], una regione che parte più o meno dal mio villaggio d’origine e geograficamente si estende fino in Russia, anche la zona Černonbyl’ può considerarsi parte di essa. Per me è una regione selvaggia, come l’Amazzonia, quindi fondamentalmente le persone nel XX secolo non avevano alcuna idea di appartenere a una determinata nazione. Erano semplicemente locals: “proveniamo da qui, abbiamo la nostra lingua”. Penso che questa condizione sia stata in parte considerata motivo di “vergogna”, per questo motivo avevo voglia di esplorare questa regione di confine. Nel progetto “The border” volevo indagare come i confini dividano e vengano anche attraversati: un simbolo statico ma che ha in sé anche del movimento.
MM: Sei stato due volte in Ucraina: la prima volta nel 2013 e la seconda proprio quest’anno. Sono due Ucraine diverse: come confronti le due esperienze?
MB: Certo, la mia percezione è cambiata. All’inizio cercavo di comprendere entrambe le parti, di essere per quanto possibile neutrale. Sapevo ovviamente cosa stava succedendo in Donbas, che come oggi si trattava di un’invasione russa dei territori ucraini. Tuttavia, cercavo di cogliere e capire le ragioni e i motivi della controparte russa, di elaborare in qualche modo l’eredità del mondo sovietico: l’Ucraina postsovietica inizialmente era un paese molto caotico, le generazioni più anziane sentivano una certa “nostalgia” del passato recente… Se oggi guardo a quel mio punto di vista lo trovo molto naif. Ora ho un’idea molto chiara: l’Ucraina era stata invasa, era stata attaccata in maniera massiccia dalle forze russe. La Russia è un regime. Sono totalmente dalla parte degli ucraini.
MM: Hai notato anche un cambiamento nelle persone?
MB: Le persone sono cambiate. Inizialmente nella parte orientale dell’Ucraina era presente un sentimento filorusso: non si trattava di un amore per la Russia ma di un desiderio di poter vivere in condizioni migliori, la Russia figurava come un rappresentate di una certa stabilità. Ora la situazione è, in sostanza, diversa. Le persone dal 2014 hanno iniziato a viaggiare, a studiare in Occidente in modo più ingente, ad esempio in Polonia o in Germania. Penso che la loro visione della Russia e la loro mentalità sia profondamente cambiata anche sperimentando i valori occidentali. Ora questo aspetto è ancora più evidente. Quando mi trovavo in Ucraina qualche mese fa sono stato anche a Odesa. Parlando con un tassista mi sono rivolto a lui in russo, a Odesa la maggior parte delle persone parlano russo, e lui mi ha risposto in ucraino. Gli ho chiesto perché mi stesse parlano in ucraino, poteva anche parlare russo, sarebbe stato anche più semplice per lui. Mi ha risposto “no assolutamente, non voglio parlare russo. Nella mia famiglia abbiamo deciso di non parlare più russo.”
MM: Questo è successo anche in ambito letterario, diversi autori ucraini che prima scrivevano in russo hanno deciso di adottare l’ucraino…
MB: Sì, è una questione di scelta. Non penso nemmeno sia una questione di ossessione per la propria lingua e per il primato di questa. L’Ucraina è un Paese profondamente multiculturale, si parlano diverse lingue, come il russo per l’appunto. La questione della lingua ucraina non è mai stata mai posta in questi termini, a Kyїv ci sono sempre stati moltissimi parlanti di lingua russa. Ora la decisione di passare all’ucraino, scelta che non viene in alcun modo imposta, è un atto identitario.
MM: … il fenomeno del suržyk è ancora più sintomatico in questo senso…
MB: … sì, esatto!
MM: La prima volta che sei stato in Ucraina hai trascorso un periodo nella regione del Donbas, in Doneck e Luhans’k. Vuoi raccontarci di questa prima esperienza?
MB: Era Agosto, ero al fronte. L’Ucraina stava rispondendo all’offensiva e stava lentamente recuperando alcuni dei territori occupati dai russi. Quella è stata la prima volta in cui mi sono trovato molto vicino ai combattimenti ed è stata una delle situazioni più complicate della mia vita. Era la mia prima esperienza come fotografo di guerra, per due settimane ho cercato di avere e seguire quante più informazioni possibili datemi da un ragazzo che avevo incontrato. In seguito è morto, sono tornato in quel territorio una seconda volta solo per il suo funerale. Poi ho iniziato a viaggiare sempre più frequentemente nella zona del Donbas.
MM: E quest’anno quando sei andato in Ucraina?
MB: Sono arrivato alla fine della prima fase del conflitto, quando le truppe russe erano state respinte e stavano retrocedendo dalla regione di Kyїv. Sono stato a Odesa, Mykolaïv e in altri centri più piccoli a sud. Poi mi sono spostato a nord proprio perché le truppe russe si stavano ritirando, sono stato a Kyїv, Buča [Mateusz durante la presentazione ha parlato anche di questa sua esperienza a Buča in mezzo ai cadaveri e alle fosse comuni], Irpin’, Borodyanka, luoghi che precedentemente erano stati occupati dai russi. Poi sono stato a Černihiv, nel nord-est dell’Ucraina, e nella regione di Cherson.
MM: Vorrei chiederti che percezione hai del modo in cui il conflitto in Ucraina viene rappresentato dai media occidentali.
MB: Non seguo molto i media, cerco di evitarli. Forse seguo solo quelli con cui concordo sulla visione delle cose, ad esempio alcuni giornali tedeschi in cui sono presenti molte prese di posizione pro-Ucraina. Potrei citare anche il Guardian. Non sono esperto di media, ma molto spesso sono deluso dal modo in cui tentano di mostrare un punto di vista “russo”. Sarò forse un fanatico in questo mio modo di vedere le cose ma, come ho detto prima, sono fermamente convinto del fatto che non possa essere contemplato un punto di vista russo della guerra. La Russia ha come target militare l’Ucraina, sta commettendo una delle più grandi stragi militari nel nostro secolo. Non c’è niente di quel nazismo di cui Putin parla, non c’è nazismo in Ucraina.
MM: L’anno prossimo tornerai in Ucraina, come ti aspetti di continuare questo tuo progetto?
MB: Sì, diciamo che quest’anno ho realizzato un secondo capitolo del mio progetto dedicato all’Ucraina, sebbene sia passato un lasso temporale dal primo credo che la narrazione sia molto simile. Voglio tornare, anche solo perché ho bisogno di tornare, sento proprio questa necessità. Spero di trovare un mondo intento a ricostruirsi, una realtà postbellica. Sto pianificando di andarci, ma come dicevo prima per me questo non è un lavoro quindi non ho ancora un piano definito, so solo che tornerò. [Mateusz durante la presentazione ha più volte sottolineato con fermezza il fatto che il suo progetto sull’Ucraina è diventato il fulcro della sua attività di fotografo, che non concepisce in alcun modo come un lavoro retribuito. N.d.T.]
MM: La mostra presente qui a Catania è Руїна [rovina in ucr.]. Vorresti spiegarmi il significato che dai a questo concetto? Perché lo hai scelto?
MB: La scelta del titolo trova la sua motivazione in un riferimento storico. Il termine Руїна indica una serie di eventi risalenti al XVII secolo, quando i cosacchi si trovavano compressi tra due superpotenze: quella polacca e quella russa di Mosca. Quel momento fu cruciale in quanto il territorio ucraino era stato diviso. Ho trovato un parallelismo con la contemporaneità, in Ucraina si sta ripresentando uno scenario molto simile.
MM: Mentre siamo qui e guardo le fotografie esposte non posso fare e meno di notare come le persone giochino un ruolo fondamentali nella narrazione che hai costruito dell’Ucraina…
MB: … sì, le persone sono il centro del mio lavoro. All’inizio volevo chiamare questa esposizione “The Ukrainians”. La mia attenzione principale era sugli ucraini, sulla nazione ucraina. C’è una sorta di parallelismo con il mio progetto precedente che, invece, era dedicato ai locals della regione di Police. Si tratta di persone, non di luoghi o di parole, ma di persone che vivono in questi luoghi e in questi tempi.
Apparato iconografico:
L’immagine contenuta nell’intervista è stata concessa dall’intervistato Mateusz Baj.