Orrore e insensatezza della guerra nelle parole dei civili: “Oltre la soglia del dolore” di Katerina Gordeeva

Riccardo Mini

 

Uscito nell’aprile 2024 per la casa editrice 21lettere, Oltre la soglia del dolore. 24 voci ucraine e russe, per chi sa ascoltare di Katerina Gordeeva (titolo originale: Unesi ty moë gore, “Porta via il mio dolore”, pubblicato dalla casa editrice Meduza sul finire del 2023; la traduzione dal russo è di Mario Caramitti), è oggi uno dei titoli più importanti e di valore riguardo la guerra russa in Ucraina, cominciata il 24 febbraio 2022.

Link al libro: https://www.21lettere.it/product-page/oltre-la-soglia-del-dolore

Oltre la soglia del dolore


Katerina Gordeeva, nata il 23 marzo 1977 a Rostov sul Don, è una delle principali giornaliste russe indipendenti, ex reporter di guerra che dal 2020 dirige un proprio canale YouTube di interviste, Skaži Gordeevoj (Dillo a Gordeeva), che conta più di un milione e mezzo di iscritti. Nel 2022 Gordeeva ha vinto il “Premio Anna Politkovskaja” per il giornalismo.

Questa recensione è stata scritta durante il 963º giorno di guerra, due anni e mezzo dopo l’inizio dell’invasione su larga scala dell’Ucraina da parte della Federazione Russa. Secondo una recente stima, il numero delle vittime, tra morti e feriti, si aggirerebbe intorno al milione di persone. In seguito all’occupazione di circa il 18% del territorio ucraino da parte della Russia e degli incessanti bombardamenti di tutta l’Ucraina (la linea del fronte è lungi da essere l’unica zona del conflitto), si contano intorno ai sei milioni di profughi ucraini in Europa. Molti altri ancora si trovano in Russia.

Sono soprattutto loro i protagonisti di Oltre la soglia del dolore, libro d’esordio di Katerina Gordeeva, composto da due premesse e ventiquattro capitoli. Si tratta di ventiquattro conversazioni in cui l’autrice raccoglie le testimonianze sia di profughi e profughe ucraini, come detto, in Russia e in Europa, che di russi e russe coinvolti, direttamente o indirettamente, nel conflitto (come, ad esempio, la madre di un soldato dichiarato disperso, prigioniero e poi morto). “A tutti quelli che amo da entrambi i lati della guerra”, recita la dedica della scrittrice.

“Un giorno le persone studieranno la storia leggendola sui libri di Katerina Gordeeva”, ha scritto del libro Svetlana Aleksievič, scrittrice bielorussa Premio Nobel per la letteratura nel 2015, precisando quindi che Oltre la soglia del doloreè un libro non sulla storia della guerra, ma sulla storia delle persone in guerra, del modo in cui l’umano si rapporta a un’esperienza inumana, e di come in questa situazione sia difficile lottare per mantenere la propria umanità. Quello di Aleksievič è per Gordeeva un riconoscimento importante: lo stile e la composizione del volume della giornalista di Rostov sul Don sembrano infatti rifarsi al ‘romanzo di voci’ della scrittrice bielorussa, che si è definita a più riprese “storico dell’anima” e “donna-orecchio”, e che ha trovato uno stile in grado di esprimere la voce della storia e di restituire quella parte della vita umana che generalmente, nella storia come nella letteratura, rimane nell’ombra. Il risultato è un arcipelago di voci, un romanzo corale, in cui l’autrice non giudica ma ricostruisce e organizza le testimonianze ricevute in numerose conversazioni. Il progetto del libro nasce infatti come l’evoluzione di un precedente progetto di conversazioni videoregistrate, dalle quali Katerina Gordeeva ha ricavato un film dal titolo Čelovek i vojna (“L’uomo e la guerra”), della durata di 3h30 minuti, pubblicato sul canale YouTube della stessa giornalista due anni fa e che ha raggiunto attualmente i tre milioni di visualizzazioni. Le conversazioni che compongono il film e il libro sono state registrate dalla giornalista durante il primo anno di conflitto. Lo scopo di questo lavoro è restituire la verità e la voce delle principali vittime della guerra, i civili, travolti loro malgrado in qualcosa di violento e disumano, di una crudeltà che va al di là dell’immaginabile. Traspare anche il fine del lavoro di giornalista; il giornalismo deve essere per l’appunto restituzione della verità, il racconto dei fatti oltre il velo di propaganda che, da una parte e dall’altra, ne condiziona e influenza la narrazione.

È ora importante entrare nel libro per descrivere il modo in cui la scrittrice restituisce l’esperienza della guerra come raccontata dai suoi protagonisti. Per le sue conversazioni, Gordeeva ha girato in lungo e in largo la Russia e l’Europa, da Berlino ad Amburgo, da Vilnius e Varsavia all’Estonia, a Mosca e alla Carelia, parlando con persone provenienti dalle zone più calde del fronte, da Mariupol’ a Buča, da Kyiv a Irpin’, Donec’k, Cherson, Borodjanka, Bachmut e altre città ucraine. Nelle parole dei testimoni riecheggiano l’occupazione, i bombardamenti, la vita nelle cantine e nei rifugi antiaerei, la fuga attraverso i corridoi umanitari. E ancora le ristrettezze, la perdita di persone care e il contatto quotidiano con i cadaveri. Traspaiono, ed è uno dei grandi e numerosi pregi del libro di Gordeeva, i sentimenti e le sensazioni legate alla guerra. La guerra non ha niente di romantico né di eroico, è una tragedia, è sangue, fango e vomito, una sensazione di nausea che rimane e non va più via: Quel sentore di bruciato, ributtante, da voltastomaco, io ce l’ho ancora adesso in gola. Sapesse quante ne ho provate, mi sono anche sciacquata la gola con l’alcol, ma non riesco a liberarmene” (p. 36), dice Marina, nella prima delle storie raccontate, a Gordeeva.

La guerra stravolge, distrugge la vita delle persone. Perso un figlio, il marito, i genitori, la casa e il proprio Paese, a queste persone, che si trovano inoltre nella complicata condizione di profughi o rifugiati, non rimane nulla, spesso neanche un posto dove tornare, e il continuare a vivere appare privo di senso. Come detto, la guerra sfibra e deumanizza, ed è dunque interessante osservare quel che accade a una delle emozioni tra le più umane, la paura: è passato il tempo della paura. Non posso più avere paura. È un’emozione che non ho più, mi è finita. […] Capisci? No, non capisci… è bene che non mi capisci. Significa che non hai mai vissuto niente del genere” (p. 55), dice Julia. A quest’ultima frase si collega anche l’impossibilità di capire. Ciò che accade va al di là della normale comprensione umana, è difficile da comprendere vivendo quella situazione ed è a maggior ragione impossibile da comprendere per chi non la vive o non l’ha vissuta. Anche per questo assume importanza la funzione dell’ascolto e del silenzio di chi scrive o domanda, il rispetto dell’esperienza raccontata e l’assenza del giudizio.

Appare inoltre rilevante quanto detto sull’odio e sul pianto, entrambi frutto della disperazione più profonda. L’odio è un sentimento ricorrente, è un sentimento che diviene normale, quasi inevitabile. È odio che nasce dall’impossibilità di spiegare: Cosa vi avevamo fatto? Perché ci avete fatto una cosa del genere? Vi odio, vi odio, non voglio più vivere, non ho più nessuno” (p. 153). Da questo traspare anche la diffidenza, la difficoltà dei profughi ucraini a parlare e aprirsi con una giornalista russa, cittadina del paese aggressore e che avverte la sensazione terribile della vergogna di essere russa. L’odio appare come qualcosa di più grande dell’uomo, un sentimento impossibile da governare: Ho così tanto odio, rabbia, così tanto nero dentro che non potrò mai né capire, né perdonare” (p. 168), nonostante il riconoscimento di trovarsi a fronte di un sentimento inumano: Ho l’impressione di impazzire. L’odio mi fa impazzire. E io non sono una persona che è capace di odiare” (p. 315). Per quanto riguarda invece il pianto, l’approccio differisce da persona a persona. C’è chi vive il pianto come una liberazione: Le lacrime di Raja scorrono lente, uniformi e ininterrotte: come acqua dal rubinetto, come il respiro, come un ruscello nel bosco. Non se le asciuga. Le lacrime scorrono sul viso, gocciano dal mento sul petto, sul petto ci sono due enormi macchie umide” (p. 59). Spesso però chi racconta la propria terribile esperienza non piange, o si sforza di non piangere, come se avesse finito le lacrime, o come se il pianto rappresentasse una scorciatoia: “Tutte le mie lacrime le ho già versate. Piangere in fin dei conti è facile, lo sai? Quando si soffre, è più facile piangere che non piangere, no? […] No, non c’è più niente. Ma le mie lacrime non le avranno un’altra volta. Io non piango più. Io devo vivere. Dobbiamo in qualche modo continuare a vivere, capisci?” (p. 39).

Non mi capita spesso di piangere leggendo, ho pianto leggendo questo libro. Mi è capitato prima leggendo “L’inferno di Treblinka” di Vasilij Grossman, o traducendo “La Mia Russia” di Elena Kostjučenko. Piangere è normale, ma mi rendo spesso conto che forse non si tratta, di fronte alle storie narrate, della reazione necessaria. Talvolta sfogliando le pagine si affretta il respiro il più possibile sforzandosi di non piangere, come ammette di fare, ascoltando, la stessa Gordeeva.

Quello di Katerina Gordeeva è un libro doloroso, Oltre la soglia del dolore, come recita il titolo scelto in italiano. È trasmissione e ricezione del dolore, da chi racconta a chi scrive e a chi legge, Porta via il mio dolore, titolo scelto nell’originale dal verso di una canzone in lingua russa. Si tratta di un libro importante, imprescindibile, “un libro sull’oggi”, come ha scritto, commentandolo, un’altra scrittrice russa, Ljudmila Ulickaja, una restituzione diretta dell’esperienza dei civili, principali vittime di tutte le guerre.