Un turbinoso scavo nei ricordi. “Finalmente ci hai trovati” di Edgar Selge

Viviana Santovito

 

Quello di Edgar Selge è un curioso fenomeno editoriale, prossimo alla vicenda di un gigante della letteratura in lingua tedesca, Theodor Fontane. Come il rinomato autore prussiano, anche quello di Selge è un esordio letterario tardivo, in questo caso all’età di settantatré anni. Ma in fondo, è possibile definire la categoria del “tardi”, quando è l’urgenza del racconto a dettar legge? Pubblicato in Germania nel 2021 e vincitore in patria del Premio del pubblico Bayern 2dell’edizione 2022, Finalmente ci hai trovati (“Hast du uns endlich gefunden”) esce in Italia per i tipi di Carbonio Editore nella collana Cielo Stellato, con la traduzione di Angela Ricci.

Alla recensione segue una intervista, la cui realizzazione è stata possibile grazie alla disponibilità dell’autore e della casa editrice Carbonio.

Link al libro: https://carbonioeditore.it/le-collane/cielo-stellato/finalmente-ci-hai-trovati-selge/


200.000 sono le copie vendute di questo titolo, che ha ricevuto anche il riconoscimento, da parte del settimanale Der Spiegel, come migliore best seller. Un successo editoriale in piena regola, sorprendente, soprattutto considerate le circostanze: Edgar Selge, affermato e conosciuto attore tedesco, si converte alla scrittura.

Se si vuole individuare il motivo del preponderante successo di Finalmente ci hai trovati, bisogna calarsi nel cuore di una generazione, quella dei nati a ridosso della fine della Seconda guerra mondiale. Edgar Selge ne è un membro esemplare: nato nel 1948, quarto di cinque fratelli, è figlio di una coppia di profughi della Prussia orientale, i signori Edgar e Signe Selge. Cresciuto ad Herford, in Vestfalia, una regione diametralmente opposta al luogo di origine dei suoi genitori, Edgar, chiamato con l’abbreviativo Etja, è testimone dei rivolgimenti, materiali e psichici, vissuti dai suoi familiari. Una famiglia peculiare, quella dei Selge: travolti in pieno dalla sconfitta della Germania nazista e da una terribile tragedia personale legata alle conseguenze della guerra, i coniugi Selge, con i loro figli Werner, Martin ed Etja, giungono nell’Ovest del paese, dove Edgar padre, giurista, assume il ruolo di direttore del locale carcere minorile, mentre la madre, Signe, si occupa della casa e della prole. La narrazione si apre nel 1958: Etja ha dieci anni e racconta al lettore, come farà in tutto il romanzo usando la prima persona, un evento che si tiene con una certa regolarità nella sua casa: un concerto domestico per i detenuti del carcere, durante il quale suo padre si esibisce al pianoforte insieme ad un violinista professionista.

Nella casa dei Selge tutto è musica e cultura: ogni membro della famiglia ha una connessione con uno strumento musicale, alle pareti sono appese riproduzioni di quadri importanti, come L’uomo dall’elmo d’oro (attribuito per lungo tempo a Rembrandt), mentre Edgar padre si diletta, la sera, a leggere ad alta voce I fratelli Karamazov.

La perfezione di questo ambiente viene tuttavia demolita dall’autore, che presenta una famiglia all’apparenza ottimista e benestante, che però nasconde dentro di sé inquietudine, rimpianti e dolore. Un padre, teoricamente un luminare nella direzione del suo carcere, che si dimostra ingiustamente violento e a tratti patologicamente morboso nei confronti dei suoi figli, soprattutto di Etja, il suo omonimo/alter-ego; una moglie e madre modello, affogata dalla sofferenza e dal rimpianto di una scelta di vita sbagliata ed opprimente; Martin, il più coraggioso dei cinque fratelli, che ha scelto di entrare nell’esercito ma che ne sa riconoscere le storture e le colpe storiche; Werner, l’unico della famiglia ad aver scelto la musica come professione, profondamente e sinceramente incattivito nei confronti della generazione dei suoi genitori; Andreas, l’ultimo nato, il figlio del miracolo economico, a cui è dedicato il toccante capitolo finale del romanzo. Infine Etja, il meno dotato di tutti, insieme alla madre, per la musica, Etja il bugiardo, il sognatore ad occhi aperti, colui che non riesce mai a stare nei ranghi, né a scuola, né tantomeno in casa.

Il romanzo che Edgar Selge propone è un viaggio di scoperta, un costante svelamento di uno strato più profondo dell’animo dei suoi protagonisti e di presa di coscienza da parte del narratore. Etja, costantemente avido di storie, vuole saperne sempre di più sul passato della sua famiglia, un passato che si rivela torbido e scomodo. Rappresentazione plastica della banalità del male, Edgar e Signe si svelano agli occhi dei loro figli, e dei lettori, come due individui che non hanno fatto i conti con le colpe storiche del periodo nazista, due esseri aggrappati con tutte le loro forze all’antisemitismo e alla grande cultura tedesca espressa nella letteratura e soprattutto nella musica, l’unico appiglio che tiene insieme queste creature fatte di impulsi contraddittori, contrastanti ed oscuri.

Ed è qui, dunque, che si capisce il grande successo di questo romanzo: Finalmente ci hai trovati tocca le corde proprio di quella generazione di tedeschi, i nati dopo, coloro che si sono ritrovati divisi a metà tra una società tramortita e sempre più conscia del male commesso, e una generazione, quella dei loro genitori, denazificata solo a parole, nostalgica della grandezza tedesca e “vittima” dei rivolgimenti storici.

Teatro dello scontro generazionale, e della violenza verbale e fisica che ne consegue, è, nel romanzo, la sala da pranzo: simbolo del ritrovato benessere alimentare dopo gli anni di privazioni del dopoguerra, è a tavola che le maschere cadono e i personaggi si ritrovano gli uni contro gli altri. L’autorità di Edgar padre viene costantemente messa in discussione dalle imperterrite bugie di Etja, mentre Werner si rende protagonista, proprio durante i pasti, degli attacchi diretti e sinceri nei confronti dell’atteggiamento simpatizzante nazista dei suoi genitori. A tavola si rivela un direttore del carcere che sfoga le sue frustrazioni e il suo senso di vuoto interiore ingurgitando carne, come a colmare uno stomaco traumatizzato dalla fame, ed è sempre qui il luogo dove Signe scioglie il silenzio su Rainer, il terzo figlio della coppia, e della tragedia che lo ha colpito. 

Oltre allo scavo critico e senza veli nella costruzione della famiglia tradizionale, Finalmente ci hai trovati osserva da vicino e dà voce al senso di abbandono e vuoto che accompagna una perdita. Edgar Selge narra quello che è lo sforzo di ritrovare un equilibrio ed andare avanti quando tutto è perduto e la vita getta l’individuo, ciclicamente, nel baratro della Storia e delle proprie storie tragiche e personali. Finalmente ci hai trovati è un costante fare i conti, col proprio passato e col proprio dolore.

La ricerca, di cui Etja si rende protagonista nel corso della sua intera vita, non riguarda semplicemente il passato della sua famiglia. La frase che dà il titolo all’intero romanzo, viene pronunciata in un contesto onirico da una Signe ormai scivolata via dalla vita, mentre il suo ricordo riaffiora nell’inconscio di suo figlio durante il sonno. Se anche Edgar padre, l’odiato ed amato pianista dilettante e giurista di mestiere, appare nell’intimità del sogno, resta il mistero sul perché ciò non succeda con altre figure del romanzo che hanno concluso la loro esistenza terrena. La narrazione si presta, dunque, ad essere strumento di auto-analisi e di contatto con chi non c’è più, andando alla ricerca di chi ha lasciato un vuoto talmente grande da rendere impossibile una riconciliazione sul piano dell’anima.

Dallo stile scorrevole, il romanzo si presenta come un’autobiografia, la cui disposizione dei capitoli segue delle direttrici tematiche piuttosto che cronologiche. La narrazione passa di frequente dal 1958 ai giorni nostri e di nuovo indietro, agli anni di ginnasio di Etja, chiudendosi nella stanza di ospedale di Andreas tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80. Numerosi sono i riferimenti alla musica da camera, per cui è consigliato, contestualmente alla lettura del romanzo, un approfondimento personale sulle opere citate e sulle tecniche musicali adottate dai Selge durante i loro concerti casalinghi.


© Muriel Liebmann

Intervista a Edgar Selge

Viviana Santovito: Innanzitutto, vorrei farle i complimenti per il suo esordio letterario. Ho trovato il suo romanzo molto coinvolgente e toccante. Mi auguro che Finalmente ci hai trovati incontri i favori del pubblico italiano. Le vorrei porgere alcune domande per i lettori della rivista di cultura e letteratura Andergraund, in modo tale da introdurre presso il nostro pubblico la sua opera. Quanto è stata determinante la pausa forzata dovuta alla pandemia da Coronavirus per la genesi del suo romanzo?

Edgar Selge: Ho cominciato a lavorare regolarmente alla scrittura di questo libro nel 2016. Nel marzo del 2020 c’è stato il primo decisivo scoppio della pandemia da Coronavirus e anch’io ho dovuto trascorrere quattordici giorni in quarantena. In quel momento una buona parte del libro era già stata terminata. Tuttavia, il clima di isolamento sociale e il nuovo volto inconsueto e autoritario dell’organo statale hanno creato un’atmosfera così aggressiva da cambiare il mio approccio alla scrittura. Il racconto dei ricordi del bambino si è tirato indietro davanti alle domande dell’adulto. I capitoli riguardanti i sogni dei miei genitori, come anche il capitolo “Rigovernare”, sono stati portati a termine in questo periodo.  

Alla fine di “Rigovernare” si legge: “La pandemia ha fermato il tempo, per permettermi di esprimere ciò che faccio fatica a tirare fuori. Qui dentro sono come un vetrino da laboratorio. Fuori c’è il mondo, abbagliante e quasi inaccessibile, che mi guarda: ‘Forza, Edgar, di’ cosa succede!’. L’amore che nutro per mio padre. Ecco cosa succede. […] Non voglio essere uno che ama chi gli fa del male.” (p. 114 – 115)

Questo passo non sarebbe concepibile per me senza la pandemia. Rispecchia la durezza di quel periodo che si è riflessa sul rapporto con me stesso.

Anche i capitoli “Da Martin” e “Lasciare andare” sono stati scritti nel 2020. Nel complesso, descriverei la pandemia come un periodo per me molto produttivo.

 

VS: Leggendo il suo libro, ho notato una certa somiglianza nell’atteggiamento dissacrante tra lei ragazzo, Etja, e Hans Schnier, il protagonista del romanzo Opinioni di un clown di Heinrich Böll. Quali sono stati i riferimenti letterari da lei adottati per la composizione di Finalmente ci hai trovati?

ES: Purtroppo non ho mai letto il romanzo di Böll, anche se l’autore era talvolta materia di discussione nella nostra famiglia. I miei genitori conoscevano il libro.

Da ragazzo rileggevo sempre i racconti innocenti e influenti di Ludwig Thoma dal titolo Lausbubengeschichten [Le avventure di un monello], che ho tuttora presenti. Il loro tono mi ha aiutato a percepire intimamente le peculiarità della percezione dell’infanzia e dell’adolescenza. È il mondo guglielmino che viene rappresentato da Thoma con delle attenuanti bavaresi e, pur rivolgendo una critica totale all’autocompiacimento della borghesia, alla fine questo mondo la recepisce facendola propria, poiché Thoma stesso teme il baratro e rimane aggrappato alla comicità.

Io però volevo affrontare questo baratro e, a tal proposito, la lettura de Il caso Eddy Bellegueule di Édouard Louis è stata determinante.

Questi due libri – di Thoma e Louis – rappresentano appieno due diversi approcci alla letteratura e alla società, ma hanno entrambi avuto un grande impatto su di me.

 

VS: Un tema centrale della sua opera è la decostruzione del modello di famiglia tradizionale. I coniugi Selge, suoi genitori, vengono colti nelle loro contraddizioni più profonde, divisi tra un’immagine pubblica di rispettabilità ed autorevolezza e dei comportamenti privati all’insegna della violenza, dell’inquietudine e del rimpianto. Secondo lei, il successo del suo romanzo può essere un indicatore di quanto il suo racconto abbia toccato le corde di molti altri figli, alle prese con le conseguenze dei traumi irrisolti dei propri genitori?

ES: Posso solo essere d’accordo con lei. Nella sua domanda c’è già la risposta. “La famiglia” contiene, in qualità di cellula sociale, tratti sia fascistoidi che umani e civilizzati. Noi ci rifiutiamo di continuo di accettare questa contraddizione nella sua verità produttiva. Del resto, ci basterebbe leggere attentamente Shakespeare per comprendere quanto antica e significativa per lo sviluppo delle nostre società sia questa contraddizione. Per questo motivo Re Lear gioca un ruolo importante nel libro.

 

VS: La pubblicazione del suo romanzo ha suscitato, in Germania, un dibattito pubblico sullo scontro tra la generazione che ha vissuto il periodo nazista e i nati dopo la guerra?

ES: Un dibattito indipendente provocato dal mio libro non c’è stato. Ma ogni singola recensione ha trattato della decostruzione della famiglia.

Un dibattito su questo argomento non sarebbe male, dato che sul tema “famiglia” siamo tutti legati gli uni agli altri e tutti possono dire la propria.

 

VS: Quanto ancora è forte il non-detto nelle famiglie tedesche sui fatti bellici e i ruoli giocati dalla generazione che è vissuta durante il regime nazista?

ES: Non sono un sociologo e non posso dare una risposta soddisfacente in merito. Ma tenendo conto della ricca reazione ricevuta dalle lettrici e dai lettori non posso che rispondere positivamente alla sua domanda. Il tono di tutte le lettere è: “Anche nel mio caso era così!” E con ciò si intende sempre il trauma dell’epoca nazista.

     

VS: Le ultime pagine del suo romanzo sono dedicate alla prematura morte di suo fratello minore, Andreas, colpito poco più che adolescente da un male incurabile. La scrittura di questo romanzo le ha dato un aiuto nel ristabilire, o quanto meno, nel colmare la distanza lasciata da questo lutto? È cambiato qualcosa nel processo di elaborazione di questa perdita?

ES: Questa domanda mi viene posta spesso. Penso che l’aspetto terapeutico della scrittura sia da ritrovare da qualche altra parte. Le mancanze della vita non possono essere recuperate in alcuna maniera tramite la scrittura. Lo scrivere, tuttavia, cambia la vita stessa. Diventa un mezzo di espressione nel quale si produce consapevolezza. Almeno fin quando la scrittura – e il processo del pensiero persitono. Purtroppo, la difficoltà nell’affrontare la vita quotidiana rimane. La consapevolezza non si sviluppa automaticamente quando si scrive un tale libro. Purtroppo!

 

VS: Dopo il successo di Finalmente ci hai trovati, ha intenzione di continuare con l’attività letteraria?

ES: Sì. Naturalmente, direi quasi. Non posso terminare con semplicità questo (mio) impegno intensivo nella scrittura.

Nel nuovo libro non si parla di infanzia, ma di giovinezza, dell’esepire una disillusione irreversibile. Confronto la mia adolescenza con un esempio, un reale diario di un sedicenne che muore di fame in Russia. In entrambe le linee narrative il rapporto madre-figlio ha un significato centrale. Il tema principale, infatti, è il (tentativo di) delineare la pressione sociale sulle donne, così come si manifesta nella pretesa arcaica del riscuotere l’amore materno. Nonostante il movimento femminista e le conquiste dell’emancipazione, questa problematica è cambiata poco. In ogni caso, questa è la mia tesi. Sono consapevole di poter raccontare “l’amore materno” solo dalla prospettiva del figlio.

 

Grazie mille per le domande. Mi ci sono confrontato volentieri.

VS: La ringrazio molto per la sua disponibilità, a nome mio e della redazione di Andergraund.

 

Apparato iconografico:

L’uso dell’immagine di copertina, a opera di Muriel Liebmann, è stato concesso dalla casa editrice tedesca rowohlt.