Federica Florio
È da poco uscito nelle librerie La discarica (“ბუნკერი”), secondo romanzo di Iva Pezuashvili. L’opera, inizialmente pubblicata a Tbilisi nel 2022, è stata tradotta per il pubblico italiano da Ruska Jojoliani (Mestia, 1985) e fa parte della collana Intrecci di Voland Edizioni.
Nato in Georgia, classe 1990, Iva Pezuashvili, già sceneggiatore e autore televisivo, ha esordito come scrittore nel 2014 con una raccolta di racconti. Quattro anni dopo, il suo primo romanzo è stato selezionato per tutti i premi letterari georgiani più ambiti. La discarica gli è valso il Premio dell’Unione Europea per la Letteratura nel 2022 e ha segnato il suo approdo in Italia.
Link al libro: https://www.voland.it/libro/9788862435550
La discarica è il racconto di una sola giornata a Tbilisi, vista e analizzata attraverso gli sguardi caleidoscopici di quattro persone appartenenti allo stesso nucleo familiare. Il primo a incontrare il lettore è Gheno, un eroe nazionale di origini armene che guarda al passato con nostalgia, anestetizzandosi davanti alla tv e spendendo i pochi soldi che ha in scommesse sportive. Poi c’è Mila, sua moglie, che lavora in un centro estetico per sostenere la famiglia, ma anche per essere economicamente indipendente dal marito, dato che sta ipotizzando un futuro senza di lui. Infine ci sono i due figli: Zema, sottotenente di polizia, e Lazare, che vorrebbe sfondare come cantante e che nel frattempo guadagna qualche spicciolo come fattorino. I punti di vista dei quattro personaggi si alternano per tutto il romanzo, dipingendo uno scorcio tanto breve quanto concreto della loro vita. Ciò che emerge fin da subito è la caratterizzazione, che Pezuashvili ha definito con molta cura. Ogni personaggio ha il suo modo di parlare e mostra a modo suo ciò che accade durante la giornata; si passa, infatti, dal gergo di strada di Lazare, spesso legato alla rima e al ritmo dell’hip-hop, al linguaggio burocratico di Zema, dalle metafore violente di Gheno allo stile più elegante – ma non troppo – di Mila.
La giornata scelta per raccontare la quotidianità di questa famiglia è quella del 9 aprile 2017. La data non è stata decisa in modo casuale: si tratta del Giorno dell’Unità Nazionale, che ricorda il massacro di Tbilisi del 1989, quando, nella capitale della Repubblica Socialista Sovietica Georgiana, una dimostrazione anti-sovietica venne dispersa dall’Armata Rossa, causando una ventina di morti e centinaia di feriti. La tragedia non fece che radicalizzare l’opposizione georgiana al potere sovietico, spianando la strada verso l’indipendenza del Paese.
Per la Repubblica Democratica di Georgia, il 9 aprile è una data di estrema importanza, e lo è anche per Gheno, che proprio in seguito al massacro è stato decorato dal presidente come eroe nazionale. Ora, però, seduto sul suo divano logoro, il ricordo gli risulta amaro, e le immagini della parata in tv gli passano davanti agli occhi come un qualsiasi talkshow. Egli funge da rappresentazione dell’homo sovieticus che, dopo il crollo dell’URSS e dei suoi ideali, sembra aver smarrito la strada ed è incapace di reagire alla realtà che lo circonda.
C’è un altro motivo per cui il 9 aprile dovrebbe essere ricordato in famiglia: è il compleanno di Mila, ma nessuno, né il marito né i due figli, se ne rammentano. L’unico a ricordarsene è Mamuka, l’uomo che vorrebbe entrare nella vita della donna indossando le vesti di un amante ricco e premuroso, che potrebbe lenire la frustrazione scaturita dal ruolo che ha reso Mila invisibile ai suoi stessi cari.
I legami famigliari appaiono deboli e sfilacciati dalla monotonia della quotidianità. I membri della famiglia sono incapaci di vedersi l’uno l’altro e, fino alla fine, ognuno di loro tende a guardare al proprio tornaconto, lasciando che gli altri tre facciano da cornice e sperando che essi siano presenti nel momento del bisogno. Il collante che tiene insieme la famiglia diviene così la sopravvivenza. A questo proposito, il paragone con la nazione in cui è ambientato il romanzo è lampante: l’autore dipinge, con pennellate rapide e incomplete ma decisamente vivide, una Georgia che, dopo più di trent’anni dall’indipendenza, ancora non riesce a trovare un posto nel mondo ma si mantiene unita grazie a una reciproca necessità di autoconservazione. La difficoltà, difatti, non è esclusivamente di carattere storico, ma anche socio-culturale; essa deriva dal fatto che intere generazioni sono nate e cresciute in un ambiente spesso violento, dove si sono susseguiti tumulti, alcuni dei quali soffocati nel sangue. Ciò che viene percepito è una realtà nemica, dove lo scopo principale è sopravvivere, nonostante tutto. È dunque assai difficile, quasi impossibile, riuscire a trovare un proprio posto, un luogo – sia fisico che mentale – in cui potersi rifugiare e mettere radici.
Anche la discarica che intitola il romanzo possiede questa ambivalenza. Il luogo vero e proprio è testimone di numerose violenze ed efferati omicidi. Si trova, inoltre, proprio alla base dell’edificio in cui vive Gheno con la sua famiglia: se ne percepisce il tanfo perfino dalla finestra del sedicesimo piano, o almeno così sembrerebbe. È probabile, difatti, che il fetore sia solo psicologico:
“L’odore che aveva avvertito nelle narici come amarezza e bruciore appena aveva messo piede in quel caseggiato, non lo aveva più abbandonato. Prima gli si era attaccato ai vestiti, poi ai capelli, poi alle unghie e infine gli aveva permeato la pelle, e non c’era sapone, shampoo, crema o unguento che tenesse, impossibile liberarsi di quel tanfo.” (p. 33).
Gheno stesso diventa la fonte di quell’odore, incapace di lavarlo via o di mascherarlo. Vi è anche, di conseguenza, una discarica metaforica, dove fermentano rancori e vecchi torti, dove le differenze tra etnie si amplificano fino a creare profonde faglie nello strato sociale, dove la tolleranza, gettata via come un elettrodomestico rotto, si deteriora fino a divenire irriconoscibile. In questa enorme cava in cui si sviluppano l’odio e l’insofferenza, trovano terreno fertile i delinquenti e le organizzazioni criminali che, a detta di Gheno, sono in combutta con la polizia e il governo e contribuiscono a mantenere l’ordine pubblico con la paura.
La sensazione è claustrofobica, a tratti quasi nauseante ma, nonostante tutto, è in grado di mantenere nel lettore una certa curiosità. Attraverso il pluralismo di voci e uno stile piuttosto burbero e privo di falsi abbellimenti, l’autore realizza un ritratto profondamente critico della società georgiana contemporanea, senza particolari indugi nel delineare le dinamiche più crude. Come fa notare la traduttrice Ruska Jaroliani nella postfazione, Pezuashvili è da considerarsi egli stesso quasi un coetaneo della Georgia indipendente e ne condivide alcune caratteristiche, come
“[lo] spaesamento di fronte all’improvvisa libertà, ricerca spasmodica di una propria voce, ambivalenza nei confronti del passato, frenesia nel varcare la soglia della maturità, nel rivendicare il sacrosanto diritto della gioventù di giudicare e barcamenarsi nella polimorfa contemporaneità tentando di costruirsi un proprio quadro valoriale.” (pp. 141-142).
La discarica diviene così molto più di un racconto ambientato in meno di ventiquattro ore: da romanzo breve si trasforma in un documento storico e generazionale, dove la ricerca di una propria identità – sia per il Paese che per i singoli protagonisti – diviene predominante. È, tuttavia, una ricerca complessa, che rischia di tanto in tanto di essere avvelenata da patriottismi che possono sfociare in pericolose correnti razziste. Pezuashvili ci lascia dunque una testimonianza cruda e di innegabile potenza, dove i fantasmi del passato irrompono nella vita di tutti i giorni e dove il destino del singolo si intreccia spietatamente al destino del proprio popolo.
Apparato iconografico:
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