Irriducibilità e contemplazione. “La foto mi guardava” di Katja Petrowskaja

Martina Mecco

 

Katja Petrowskaja, nata nel 1970 a Kyïv, è una scrittrice e giornalista tedesca. Dopo essersi trasferita in Germania nel 1999, Petrowskaja ha deciso di adottare la lingua tedesca come lingua letteraria, decisione condivisa da molti altri autori che hanno fatto della Germania la loro nuova “Heimat”, come, ad esempio, Saša Stanišć. Fece il suo debutto in Italia nel 2014 con la traduzione del romanzo Vielleicht Esther (“Forse Esther”, tradotto per Adelphi da Ada Vigliani), che le valse il Premio Strega Europeo. Dopo qualche anno di assenza, l’autrice è recentemente tornata negli scaffali delle librerie italiane con La foto mi guardava (Das Foto schaute mich an. Kolumnen, 2022), tradotto per Adelphi da Ada Vigliani. 

Link al libro: https://www.adelphi.it/libro/9788845938771


La foto mi guardava differisce dal precedente Forse Esther per la sua struttura, difatti, non ci si ritrova più di fronte a un romanzo, ma a un collage multimediale di riflessioni che scaturiscono dalla medesima origine, una foto. Va sin da subito considerato che l’interesse di Petrowskaja per la fotografia e, soprattutto, per la reazione che provoca nello spettatore, trova una sua prima testimonianza nel 2015. Nell’ottobre di quell’anno, infatti, l’autrice trascorse un periodo al centro viennese IFK (Internationales Forschungszentrum Kulturwissenschaften, il Centro Internazionale di ricerca per gli Studi culturali) con un progetto dal titolo “Alles was der Fall ist” (“Tutto ciò che accade”). Petrowskaja aveva come fine l’interrogarsi circa la tensione tra la fotografia e lo spettatore, esplorando i diversi modi di guardare alla fotografia e interrogandosi circa l’inflazione di immagini a cui ciascuno è sottoposto ogni giorno. Il fine di questa ricerca era proprio la produzione di una serie di brevi saggi, ciascuno associato a una fotografia, un formato che rispecchia quanto contenuto in La foto mi guardava. Il libro, infatti, è diviso in capitoli composti da un’immagine e da un testo di massimo tre pagine. Al termine di ognuno di questi, una data di riferimento che indica il momento in cui sono stati redatti. La data associata al primo è, non a caso, proprio il 14 giugno del 2015. L’ultimo capitolo è invece risalente al 3 ottobre del 2021: il libro copre dunque una riflessione sviluppatasi, a intervalli irregolari, nel corso di sei anni. A questo periodo l’autrice aggiunge poi una postfazione in cui riflette circa l’inizio dell’invasione su larga scala dell’Ucraina, iniziata il 22 febbraio del 2022:

“Questo libro non parla della guerra, ma è stretto nella morsa della  guerra. Il primo testo risale al periodo in cui l’Est dell’Ucraina venne attaccato dalla Russia. Parla dell’orrore della guerra, ma anche della sua normalizzazione – di una guerra che, con il tempo, è scivolata ai margini dell’attenzione quotidiana. Fu allora che, sentendomi impotente di fronte alla violenza, cominciati a prendere le fotografie a oggetto della mia scrittura. Oggi la Russia rade al suolo città e villaggi ucraini.” (p. 251)

L’autrice conclude affermando che vorrebbe “opporre alla guerra queste miniature, questi piccoli frammenti, alla ricerca di una voce” (p. 252). Riguardo il binomio fotografia-guerra e la questione circa la ricezione di un pubblico esterno, non coinvolto nelle vicende del conflitto, fondamentale è il saggio Di fronte al dolore degli altri (“Regarding the pain of others”, 2003) di Susan Sontag, scrittrice e filosofa statunitense a cui si deve un altro importante scritto del 1973 riguardante la stessa tematica, Sulla fotografia (“On Photography”). Tuttavia, Sontag, nel primo capitolo de Di fronte al dolore degli altri, partendo da un riferimento al racconto di Virginia Woolf Le tre ghinee, riflette l’incommensurabile quantità di fotografia riguardanti la guerra a cui spettatori esterni sono sottoposti: immagini senza più un soggetto chiaro, il cui contesto è nebulizzato dal dolore che si prova nel guardarle. Nella sua riflessione, Sontag si rifà al fatto che “si possono fare molti usi delle innumerevoli opportunità che la vita moderna fornisce per guardare – a distanza, attraverso il mezzo fotografico – il dolore degli altri” (p. 21). Un altro saggio, meno famoso di quello di Sontag, ma che offre un’ulteriore chiave interpretativa al libro di Petrowskaja, è “Text, City, Image: Recovering Others’ Pasts in Literature in Poland, Russia and Ukraine” (2012) di Uilleam Blacker. L’autore, rifacendosi al concetto di “postmemoria” di Marianne Hirsch e alla stessa Sontag, afferma che le fotografie sono interpretabili come dei relitti culturali che offrono dei nuovi spazi immaginativi. Becker impiega il concetto di “narrative embroidery”, il ricamo narrativo, sostenendo che questi frammenti del passato – le fotografie, per l’appunto – possono permettere il proliferare della creatività immaginativa e del processo di simbolizzazione.

Sono diversi i temi che affiorano nell’opera. Innanzitutto, episodi della Storia che hanno segnato il ventesimo e il ventunesimo secolo. Quelli scelti da Petrowskaja si rifanno a questioni da lei ritenute ancora urgenti o centrali per la riflessione sul presente. La prima immagine, dove l’incipit del testo dà anche il titolo al romanzo, raffigura un minatore del Donbas intento a fumare di cui l’autrice non riesce a scorgere il viso. In due pagine e mezzo l’autrice si interroga sull’impossibilità di vedere il viso del soggetto a causa della nube di fumo che lo circonda e sulla dimensione della guerra attraverso un riferimento alla doppia ambivalenza del termine “shoot”. A partire da un’immagine del noto fotografo ceco Josef Koudelka Petrowskaja fa poi riferimento all’invasione della Cecoslovacchia e al fallimento del socialismo dal volto umano promosso da Alexander Dubček. Il tutto all’interno di una kafkiana, costruita dapprima sul parallelismo tra la firma del fotografo Josef K. e il protagonista del Processo, per poi rifarsi alla complessa questione della ricezione di Kafka in Cecoslovacchia dopo la Seconda Guerra Mondiale. Un altro esempio è quello di Chernobyl, dove il disastro nucleare viene evocato tramite la foto tratta dal libro Chernobyl Herbarium: una natura “porosa” e “frammentaria”, un fiore “bello di una bellezza che lascia sgomenti. Un scintillio allarmante, che non si spegne mai.” (p. 87) Non mancano in queste rappresentazioni storiche anche incursioni nella storia privata, di cui sono testimoni una foto di Petrowskaja bambina intenta a disegnare con la mano sinistra anziché con la destra o quella che dovrebbe, presumibilmente, raffigurare la madre dell’autrice. 

Accanto al tema della Storia, a dominare è quello dei diritti umani e dell’opposizione a forme di coercizioni. La questione dell’emigrazione nel Mediterraneo viene affrontata attraverso una foto pubblicata sul “New York Times” dove la donna raffigurata, avvolta in una coperta isotermica dorata, viene paragonata alla Venere di Botticelli: “la dea usciva dall’acqua, e da lei non si poteva distogliere lo sguardo. Forse era stato solo un lampo di poesia, ma in quell’immagine mi parve di vedere la fine dell’Europa tramutatasi nella sua brutale origine.” (p. 35) Trattando di atti d’opposizione, nel capitolo “Non c’è nessuna foto” Petrowskaja si rifà alle vicende del Sessantotto e, nello specifico, alla dimostrazione sulla Piazza Rossa del 25 agosto 1968. L’immagine affiancata al testo è quello dello striscione tenuto in mano da Natal’ja Gorbanevskaja che recita “za vašu i našu svobodu” (“per la vostra e la nostra libertà”), tratta da una delle foto scattate durante uno degli interrogatori del KGB ai manifestanti. Dalla contemporaneità l’autrice fa poi riferimento a Pëtr Pavlenskij, artista e attivista russo che fa del suo corpo uno strumento di protesta: 

“Pëtr non si dà alle fiamme, ma si sottopone alle prove più dolorose. La sua performance artistica si trasforma in un atto esistenziale. Come dice il critico Aleksandr Arkangel’skij: ‘L’unica cosa che Pavlenskij possiede è il diritto di soffrire, ed egli fa uso di questo diritto’.” (p. 31)

Petrowskaja crea dunque uno spazio semantico intermediale, dove l’apparato testuale e quello visivo delle immagini assumono la funzione di supporti reciproci. Essi si fondono in un arcipelago di considerazioni e riferimenti sino ad arrivare all’ultimo capitolo, in cui diviene anche l’autrice dell’immagine, chiudendo con un personalissima isola di immaginazione alla Henri Rousseau.

 

Bibliografia:

Susan Sontag, Di fronte al dolore gli altri, Milano, Nottetempo, 2021. Traduzione di Paolo Dilonardo.

Uilleam Blacker, “Text, City, Image: Recovering Others’ Pasts in Literature in Poland, Russia and Ukraine”, in Przeglad Humanistyczny, No. 6, 2012, pp. 139-147.

Apparato iconografico:

Immagine di copertina: https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/a/a9/Katja_Petrowskaja_%2835313947131%29.jpg